Costume
Il volto degli elettori americani per raccontare il sogno democratico
Fra due giorni si concluderà la campagna presidenziale degli Stati Uniti, che tiene con il fiato sospeso il mondo intero, per gli inevitabili risvolti che ne seguiranno, indipendentemente che la vittoria sia di Kamala Harris o di Donald Trump.
Esiste ancora il sogno americano? Lo abbiamo chiesto a Gianluca Vassallo, regista, che proprio in questi giorni si trova in America per le riprese del suo terzo lungometraggio, The Lunch, un film documentario che racconta appunto l’ultimo mese della campagna presidenziale americana
attraverso l’intreccio di due linee narrative parallele che percorrono, passando da New York al Midwest fino al North Dakota, un Paese polarizzato dalle elezioni esplorandone le molteplici sensibilità. Uno sguardo, quello di Vassallo, che non vuole concentrarsi sullo “spettacolo” delle elezioni, ma sull’umanità del suo pubblico, sulla semplicità del quotidiano e sui luoghi che custodiscono la fragile bellezza dell’atto democratico. Un invito a non guardare solo gli eventi, ma anche i volti e le storie degli elettori.
Come nasce l’idea di questo film?
Mi trovavo a Kutztown, Pennsylvania, era l’ottobre del 2016 e attraversavo il Midwest per un progetto d’arte. Mancava solo un mese alle elezioni (ndr Trump vs Clinton) quando ho parcheggiato all’Airport Diner, proprio accanto al pick-up “Eddie’s Garage Auto Repair” decorato
dalle scritte “Make America Great Again”. Eddie o chi per lui, riconoscendomi forestiero, mi aveva aperto la porta orgoglioso “l’hamburger migliore della città”, per poi sedersi all’angolo del bancone e guardare la TV da cui Trump gridava del muro, di Dio, dell’America fino al trillo della campanella della cucina. Le mani messicane del cuoco hanno poggiato hamburger, patatine e cetriolini sul pass e Mike le ha portate a quelle bianchissime di Eddie che lo ha morso con la fame di quel giorno.
L’idea di questo film è nata quel giorno. E Mike, cameriere trozkista, o almeno così si era presentato, mi disse: “Eddie, o chi per lui, vincerà le elezioni e l’hamburger, qui, non sarà più così buono”.
In quale Stato ti trovi ora e come sono andate le riprese fino a oggi?
Ci troviamo in Iowa e qui incontreremo uno dei molti cowboy che popolano questa zona. Gente che ama farsi chiamare così, nonostante la trasformazione dei modelli produttivi che, di fatto, li ha resi imprenditori di successo. È come se ci fosse un confine labile tra verità e rappresentazione di sé che pone tutti, non solo i cowboy, in un contatto continuo con l’immaginario cinematografico che li riguarda o, forse, più semplicemente, il cinema qui si nutre di realtà più di quanto gli occhi d’Europa siano pronti ad accettare. Quanto alle riprese, tutto va come deve andare in un documentario. Una continua rimodulazione della storia in funzione della realtà o delle possibilità improvvise che ci offre il reale.
Ti sei trovato a modificare qualcosa del tuo film, proprio perché lo stai girando durante l’ultimo mese di campagna elettorale?
La campagna elettorale è la scenografia di questo lavoro, il contesto in cui si cala l’osservazione di un quotidiano che, come la storia ci insegna, contaminerà il nostro, che ci piaccia o meno. Un quotidiano fatto di vite ordinarie che accadono mentre lo spettacolo più famoso del mondo, la campagna presidenziale americana, avviene. Certo, uno spettacolo che, con il cinismo proprio della politica di qui, si prende uno spazio significativo nell’ordinario esistenziale nel quale si cala, producendo una forte spaccatura tra le piccole comunità che stiamo attraversando che, anche attraverso la guerra dei giardini, ovvero la pratica di piantare sul prato di casa i cartelli del candidato scelto, cancella la narrazione dei sobborghi americani come luoghi di pace, resilienza e senso di comunità. I nostri piani sono cambiati in corsa per effetto di questo. Un esponente repubblicano dell’Illinois si è rifiutato di incontrarci e di farci raccontare la sua storia, perché precedentemente avevamo raccontato quella di un volontario del Partito Democratico.
Che America stai trovando a meno di 15 giorni dalle elezioni?
Un’America estremamente polarizzata che, tra le due anime del Paese, conserva larghe sacche di disinteresse verso la politica nazionale. In molte comunità rurali, la sensazione è che la politica sia così lontana, da essere ininfluente sulla vita quotidiana. Un dato molto rilevante che la nostra osservazione ci restituisce -certo, privo di ogni matrice empirica- è la preoccupazione che, chiunque sia il vincitore, nel Paese, possa scoppiare il caos.
Immagino che, indipendentemente dall’appartenenza politica, in ogni singolo Stato ci siano delle differenze su come le elezioni vengono vissute dalla popolazione. Confermi? Cosa hai visto e cosa ti ha colpito in questo tuo itinerario?
L’unica grande differenza che ho percepito è relativa a New York verso il resto del Paese. E di sicuro, il modello di convivenza civile di New York, per quanto ipocrita, “polite” oltre ogni ragionevolezza, per quanto basato su un modo di accettare tutto, che sfiora l’indifferenza all’altro più che la sua inclusione organica nel discorso sulla società, insomma questo modello è esattamente tutto ciò che Trump sta cercando di usare come paradigma di ciò che l’America non è
e non deve diventare. E in fondo, come possiamo pensare che un allevatore del Wyoming, piegato dalla sua devozione al lavoro, alla famiglia e alla nazione possa essere in disaccordo se Kamala è concentrata su cose lontanissime dalla vita reale di queste comunità? Non cerco di dire che Trump abbia ragione, ma solo che rispondere a chi usa la paura verso l’altro, con la certezza di stare nel giusto, non è produttivo. Del resto, non c’è un altro cuore da porgere se qualcuno spara proprio lì.
La gente comune ne parla, c’è fermento e dibattito politico anche fuori dai canali d’informazione, nelle strade, nei classici luoghi di aggregazione?
La gente comune, quella del Midwest quantomeno, beve birra e guarda il football. In pubblico si espone poco. Anche se il loro giardino parla.
L’America, terra del sogno democratico e contemporaneamente luogo dalle tante contraddizioni. In queste settimane passate lì, ti sei fatto un’idea più approfondita di quali sono le contraddizioni più evidenti e quali siano i problemi più reali dell’America di oggi, che magari a chi è lontano non sono così evidenti?
Il problema principale di questo Paese, a mio avviso, continua a essere l’assenza di una coesione sociale basata, come accade in buona parte dell’Europa, sull’accesso universale a un’istruzione pubblica di qualità, sulla salute dell’individuo come bene comune e, dunque, sull’accesso universale alla sanità pubblica, sull’universalità dei diritti civili (penso alle donne, alle comunità LGBTQ+, alle fedi etc). Insomma, l’assenza di diritti universali e la delega di questa a singoli stati rende più evidente le questioni di classe e, di conseguenza, quelle razziali. Credo che il mito del sogno americano sia un sogno per bianchi, basato sulla marginalizzazione e sulla vittimizzazione della povertà. Un veterano che ho incontrato in Ohio, in un’area economicamente depressa, con un tasso di diversità dell’1%, mi ha detto: “Vedi, il problema dei neri è che non vogliono lavorare, capisci, questa gente non merita di curarsi o di mandare a scuola i figli”. In questa affermazione c’è tutto. Soprattutto perché il veterano era nero.
Hai un tuo pronostico personale sull’esito delle elezioni?
Vincerà Trump. Anche in caso di sconfitta.
Foto di Mercedes Corveddu
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