Geopolitica
Il to be or no to be perenne degli inglesi. Orwell e l’english genius
Gli inglesi si sono fottuti da soli con la Brexit? E noi italiani con che cosa ci fotteremo?
Quando Carl Schmitt scrisse il suo saggio Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo (1942) ove si legge «La storia del mondo è storia di lotta di potenze marinare contro potenze di terra e di potenze di terra contro potenze marinare»- il confronto tra le due potenze europee, l’Inghilterra che s’era indirizzata fin dai tempi di Elisabetta I alla via del mare e la Germania che s’era insediata egemonicamente sul continente europeo, sembrava aver raggiunto l’ultimo “combat” di una centenaria storia in cui la potenza tellurica era stata rappresentata ora dalla Spagna (andata a sbattere proprio sulle coste inglesi con la sua Armada Invencible ), ora dalla Francia e in ultimo dalla Prussia e dalla Germania unificata, mentre la potenza marinara era rimasta sempre l’Inghilterra, nazione autotalassica, determinata dal mare, per eccellenza. (Sul tema del mare, della mancata proiezione sul mare come origine della nostra “questione meridionale” non posso non segnalare il godibilissimo libro di Tino Vittorio Storia del mare. Questione meridionale come questione mediterranea, Selene, Milano 2010, di cui ho discusso qui) .
Gli inglesi, appartati nella loro isola flagellata dal maltempo e in possesso di una lingua articolata da paroline brevi come degli squittii di uccello (tweet), se avevano un occhio puntato (non perso né sognante, ma sempre “pratico”) sugli equorei e oceanici orizzonti (di “mentalità oceanica” parlerà sempre Schmitt), dirigevano sempre l’altro, vigile e insonne, sulle cose continentali. Anche quel tratto di mare che li separa dall’Europa, e che loro chiamano channel, è stato ristretto o allargato a loro piacimento. Splendido isolamento ma anche vigilanza occhiuta sulle sorti del Continente, nel perseguimento della politica di “equilibrio”, il loro beninteso: impedire in ogni modo che si formasse una potenza continentale. Dalle guerre di Successione spagnola (1701-1711), in cui il pericolo, ricordiamo, era costituito dalla Francia che ereditava la corona borbonica spagnola, fino a Napoleone, a Hitler, ecc. è stato sempre così. Sotto questo segno si è collocata anche questa guerra combattuta “con altri mezzi” che è il mercato unico europeo, verso il quale non hanno mai saputo decidersi, neanche con il referendum sulla Brexit, che è diventato il loro singolare e amletico to be or no to be che li vede, sia detto con inglese maccheronico, “lost in votation”- e che forse segnerà il loro punto di non ritorno o forse anche no
Orwell e il carattere nazionale inglese
Dal ‘700 in poi (da Hume che fu il primo a usare la locuzione “national character”*** , a Montesquieu e Voltaire) sì è diffusa nella pubblicistica francese, e da lì anche in Italia – il primo a parlarne fu Giacomo Leopardi -, la nozione di “carattere nazionale”. Ma si useranno anche altre formule, come génie, grain, come farà l’americano Dwight Macdonald che contro l’american grain, la tendenza americana scaglierà un affilato e sfottente libro (Against american grain; trad it. Controamerica, Milano 1969 ); in ultimo si adotterà il neutro e sociologico identità: l’identità tedesca, francese, italiana, ecc., al fine di non scadere in facili psicologismi o nelle trivialities come temeva Orwell, il quale proprio in The Lion and the Unicorn – Il suo bel libro sul “carattere nazionale” inglese – affronterà le caratteristiche nazionali del proprio Paese mettendo nel sottotitolo il richiamo all’english genius.
Things that could happen in one country could not happen in another
«Alcune cose possono accadere in un paese e non accadere in un altro» ricordava Orwell nel suo saggio sul “genio” inglese, per il quale finanche «il fatto che l’Inglese ha cattivi denti potrebbe dirci qualcosa circa la realtà della vita Inglese”, in ciò conformandosi al pensiero di Hegel che nell’ Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio asseriva: «Spesso, le singolarità di un piccolo avvenimento, di una parola, esprimono, non già una particolarità soggettiva, ma un tempo, un popolo (corsivo mio), una civiltà in modo conciso e vivacemente intuitivo».
In The Lion and the Unicorn (1941) George Orwell riassume perciò la peculiarità della Englishness (che non so quanto coincida con la Britishness ) o meglio dire enuclea, con il suo inconfondibile acume, i tratti caratteriali di questo popolo dalle facce irregolari e bitorzolute (knobby faces). Evidenziava perciò Orwell in esordio l’assenza presso gli inglesi di estro artistico: non hanno propensione per la musica gli inglesi (ma non aveva ancora visto i Beatles e i Rolling stones, o forse non amava Purcell) come gli italiani o i tedeschi, o per la pittura come i francesi. Hanno orrore del pensiero astratto, e non sono dominati da nessuna “visione del mondo”. Nessun “sistema” filosofico, aggiungo io, può catturare delle menti come quelle inglesi profondamente radicate nell’empiria. Non hanno assiomi, non deducono il mondo dalle idee, seppur chiare e distinte, come i cartesiani francesi, né per formule triadiche dal Geist più o meno assoluto come i filosofi tedeschi usciti dagli Stift luterani, ma inducono il mondo delle idee dall’osservazione empirica del reale sotto sforzo di scetticismo e fino a prova contraria dell’evidenza, o, secondo le leggi associative dell’abitudine come avvertiva Hume: tutto ciò che ha le sembianze di un elefante e puzza di elefante per loro probabilmente è un elefante è il massimo che si azzardano a proferire come idea generale su alcunché.
Orwell annota amorevolmente per questo suo Paese dove la «birra è più amara, le monetine più pesanti, il verde più verde e la pubblicità più invasiva» anche piccoli tratti minori che girano attorno a quelle «piccole cose di pessimo gusto» cui era affezionato il nostro Gozzano e non solo lui, e dove si estrinseca il culto tutto inglese per la privateness (quella che noi chiamiamo privacy). English characteristic è l’amore per i fiori, la collezione di francobolli, il retro giardino, la passione per i piccioni, per il gioco delle freccette e per i piccoli lavori di carpenteria, il caminetto, e ovviamente the «nice cup of tea» (su cui stilerà un celebre decalogo), abitudini e stili di vita dove si rinserra la privatezza e si estrinseca la libertà dell’individuo.
Stendhal che, sulla scia della De Staël (vedi Corinna) non li amava troppo gli inglesi, ma che aveva però avuto il coraggio letterario, con scelte di lesa maestà francese, di anteporre il genio di Shakespeare a quello di Racine e che aveva dedicato shakespearianamente il suo romanzo La Certosa di Parma “to the happy few”, annotava in Roma, Napoli e Firenze: (1821) a proposito della privateness inglese: «sono convinto che un inglese, Pari e milionario, non osi accavallare le gambe quando è solo davanti al suo caminetto, de peur d’être vulgaire»! aggiungendo più avanti «non un inglese su cento osa essere se stesso; non un italiano su dieci si concepisce altro da ciò che è. L’inglese si emoziona una volta al mese, e l’italiano tre volte al giorno».
L’insularità inglese
Ma nei momenti di snodo della sua esistenza, nella sua Ora fatale (vedi il recente e bel film su Churchill) il popolo inglese si compatta e sa resistere come nessun altro popolo al mondo come seppe resistere con straordinaria mobilitazione di vecchiette e di “vergini britanne” ai bombardamenti tedeschi, che peraltro restituirono con altrettanta ferocia (vedi Dresda).
Annota Orwell sui propri connazionali:
Essi hanno una certa capacità di agire senza pensarci sopra più di tanto. La loro ipocrisia famosa in tutto il mondo – il loro atteggiamento a doppia faccia verso l’Impero, per esempio – è legata a ciò. Inoltre, nei momenti di crisi suprema l’intera nazione può improvvisamente compattarsi e agire d’istinto, in realtà seguendo un codice di condotta, che è compreso da quasi tutti, anche se non formulato. La frase che Hitler ha coniato per i tedeschi “un popolo di sonnambuli”, sarebbe stata meglio applicata agli inglesi.
Fra i piccoli tratti di questi sonnambuli a tutti noti c’è l’attitudine alle scommesse. Ultima forse la Brexit? Tratto che probabilmente nasce – come i Lloyd di Londra che fondano la moderna attività delle Assicurazioni e delle Riassicurazioni proprio sui calcoli probabilistici dei carichi marini a rischio di andare dispersi nelle tempeste o di raggiungere i porti -, dalle incertezze della vita di mare. Proverbiale la loro ostinazione per l’azzardo. Scommettono su tutto finanche sulle gocce d’acqua che scorrono sui vetri. Avranno dato le loro “quote” anche in quest’ennesimo azzardo del referendum della Brexit che li potrebbe salvare o sconfiggere definitivamente oppure consegnarli al ridicolo del to be or no to be perenne.
Ma Orwell avvertiva con lucidità e con una certa punta di orgoglio isolazionista (non sapremo mai però come avrebbe votato nel referendum sulla Brexit):
L’insularità degli inglesi, il loro rifiuto a prendere gli stranieri sul serio, è una follia che occorre pagare a caro prezzo di tanto in tanto. Ma gioca la sua parte nella mistica inglese, e gli intellettuali che hanno tentato di combatterla in genere hanno fatto più male che bene. In fondo è la stessa qualità nel carattere inglese che respinge il turista e tiene fuori l’invasore.
È singolare osservare che un popolo trionfa per le sue caratteristiche, con la massimizzazione dei propri vizi più che paradossalmente con le proprie virtù. Che sono gli stessi vizi che potrebbero, se spinti all’eccesso, portarlo alla rovina. Gli inglesi con la loro fiera insularità, noi italiani con il nostro “particolarismo” e “antipoliticismo” abbiamo scommesso su noi stessi.
Che Dio salvi oltre la regina anche gli inglesi (e noi con loro) da questa ennesima scommessa.
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*** Nota al testo
La nozione di “carattere nazionale” è una bestialità per idealisti italiani come Benedetto Croce, il quale scriverà: «Qual è il carattere di un popolo? La sua storia, tutta la sua storia, nient’altro che la sua storia. Quando si descrive il carattere di un popolo in questa o in quell’età, o nell’intero corso della sua età, si traccia come una delineazione generica (e coi difetti del generico) dell’attività che esso ha spiegato, dell’opera che ha compiuta, ossia, appunto, della sua storia. E non di meno si cade nell’errore di staccare il carattere di un popolo dalla sua storia e rappresentare prima il carattere, con l’intento di cercare poi come questo abbia agito e reagito agli avvenimenti, cioè quale storia abbia avuto. Ma se il carattere si pone come bello e pronto, nessuna narrazione storica può seguire» [B. Croce , Teoria e storia della storiografia, Adelphi, Milano 1989, pag.378-380] .
Epperò siamo sempre lì: gli spagnoli si comportano da spagnoli, i tedeschi da tedeschi, gli inglesi da inglesi, e gli italiani da italiani. Ognuno tira nella propria direzione: un “carattere nazionale” europeo l’hanno intravisto solo i volenterosi, i visionari, gli “idealisti” e i monetaristi che poco sanno di storia e di antropologia, ma il muso lo sbattiamo sempre su queste resistenze antropologiche di lunga durata (e le mentalità, avvertiva Braudel sono “le prigioni della lunga durata”). Ognuno continua a fare “il suo dio” in questo basso mondo e sembrerebbe ancora che “Things that could happen in one country could not happen in another”.
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