Geopolitica
Il prezzo della pace può essere la schiavitù di un popolo?
Provo una certa apprensione per chi in queste settimane vanta soluzioni e ci spiega come si dovrebbe mettere fine all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin. È la stessa apprensione che provavo per i virologi mandati allo sbaraglio in televisione a fare previsioni sulla fine della pandemia e poi venivano puntualmente smentiti nel giro di pochi giorni.
Premessa: sull’invasione russa in Ucraina è in corso un confronto tra voci molto autorevoli mischiate alle solite fazioni ideologiche, con gli esperti di geopolitica laureati all’università della strada a fare da cacofonico sottofondo. Particolarmente urticanti le posizioni più estreme, una macedonia avariata con dentro invasati che osano mettere in discussione personalità del calibro di Lucio Caracciolo bollandole come filo-Putin e invasati “no-vax” convertiti a sostenitori della sporca guerra dello “zar”; gente che non saprebbe neanche indicare la Russia su un mappamondo, per intenderci. Lascerei entrambi i gruppetti a litigare tra loro in quell’acquario che sono i social network, osservandoli con lo stesso sguardo di curiosità mista a disgusto che usavamo quando da piccoli scoprivamo che le code delle lucertole si staccano o che le anguille continuano a muoversi anche quando vengono tagliate a pezzetti.
Nel racconto di questa guerra si mischiano tante cose: c’è il mito di Putin cavalcato per anni dalle destre europee, da Orban a Le Pen, fino ai nostri patetici sovranelli; c’è l’anti-atlantismo covato da una parte della sinistra in maniera più o meno esplicita; c’è l’atlantismo senza se e senza ma dei soliti noti che giustificano le bombe a grappolo solo quando a lanciarle sui civili ci sono gli autoproclamati difensori della civiltà; ci sono le centrali di distribuzione delle fake news che stanno lavorando alacremente per inquinare i pozzi; ci sono la debolezza politica dell’Europa e le Nazioni Unite rese impotenti dai veti; ci sono i nazionalismi, quelli dei Paesi direttamente coinvolti e quelli degli altri, che approfittano delle crisi per espandere i loro spazi politici ed economici.
Al netto dei deliri degli ultras, tra le vittime delle bombe dell’esercito russo ci siamo, purtroppo, noi pacifisti. Perché il pacifismo senza eccezione alcuna ha sempre funzionato bene quando le guerre erano “cose dell’altro mondo”, quando riguardavano città completamente diverse dalle nostre, zone del pianeta lontane dal nostro endemico etnocentrismo. Ovvio, il pacifismo muore un po’ in tutte le guerre; ma in questa guerra i pacifisti sono divisi, lacerati, schiacciati da convinzioni nobili che si scontrano con la cruda realtà. Convinzioni nobili che si scontrano con i corpi dei civili ucraini ammazzati dall’esercito di un tiranno criminale e lasciati sull’asfalto di Bucha; con quelli dei giovanissimi soldati russi mandati al macello da quel tiranno criminale; con le sofferenze atroci di chi è stato costretto dal tiranno criminale a scavare trincee su un terreno radioattivo; con quelle di chi fino a ieri viveva una vita normale e ora non ha più una casa perché le bombe di quel tiranno criminale l’hanno distrutta. A nostro modo noi pacifisti viviamo un conflitto interiore: disprezziamo quel tiranno criminale ma tra noi c’è chi contesta l’invio delle armi alla resistenza ucraina perché “alla guerra non si risponde con la guerra” e chi pensa che mandare delle armi che impediscano a dei caccia di radere al suolo una città o a dei carri armati di sparare su dei civili indifesi o su un ospedale sia qualcosa di terribile ma necessario.
Se dovessi seguire la mia indole, il mio credo politico, le mie più radicate convinzioni, dovrei essere tra i primi, senza se e senza ma. Poi però – colpa del pragmatismo instillato in me da una certa scuola politica – trovo delle enormi falle nei discorsi di chi ripudia la guerra in ogni sua forma e contesta l’aiuto esterno a chi sta cercando di difendersi. Delle falle che mi riportano sempre e solo a una parola, alla parola “libertà”. Mi chiedo, ad esempio, come si possa chiedere a un popolo che ha respirato la libertà di piegarsi a un regime totalitario, al dominio di un Paese dove un giornalista rischia quindici anni di reclusione se scrive una parola non gradita a chi comanda, un Paese in cui il leader dell’opposizione è in carcere senza motivo dopo essere stato avvelenato, un Paese in cui ogni forma di protesta viene repressa e i dissidenti, quando non vengono ammazzati, subiscono torture e stupri da parte delle autorità. Mi chiedo come si possa lasciare al suo destino il popolo ucraino senza essere coscienti che da quel momento ogni sopraffazione diventerebbe lecita, giustificata dalla legge del più forte con il benestare implicito di chi, pur spinto da buoni sentimenti, alza le mani o si sdraia con fare gandhiano nelle piazze del mondo libero sotto un tiepido sole primaverile, in nome della pace.
C’è chi sostiene che non bisogna dare armi agli invasi, ma mettere in campo la diplomazia: faccio sommessamente notare che da un mese e mezzo i capi di stato di tutto il pianeta provano invano a far ragionare Vladimir Putin con risultati pressoché nulli. La verità è che la diplomazia ha bisogno di basi solide e di “merce di scambio”, altrimenti è resa incondizionata al vincitore: oggi la Russia ha abbandonato l’idea di conquistare tutta l’Ucraina e si è ritirata da parte del territorio. Che piaccia o no, a far cambiare i piani dei generali russi sono state le ingenti perdite militari e l’inaspettata resistenza del popolo ucraino, una resistenza, che piaccia o no, resa efficace anche dall’invio di armi e tecnologie all’esercito dello Stato invaso. L’idea che la libertà di un popolo sia qualcosa di sacrificabile sull’altare della pace contraddice in primo luogo la nostra Costituzione, che sì “ripudia la guerra”, ma “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Offesa alla libertà di altri popoli, appunto.
C’è poi la paura che il conflitto possa allargarsi, che possa degenerare addirittura in una terza guerra mondiale con utilizzo di armi nucleari. Ovviamente nessuno può azzardare previsioni in tal senso, la storia ci ha insegnato che le escalation possono dipendere da fattori imprevedibili e da fatti all’apparenza marginali. Tuttavia, una delle immagini più evidenti di questa guerra è un esercito, sulla carta invincibile, che avrebbe dovuto risolvere la questione con una semplice passeggiata nel territorio invaso, arrancare e subire pesanti sconfitte, sconfitte confermate persino delle autorità militari russe. Lo strapotere militare, almeno sul campo, non c’è. Vero, la Russia ha le testate atomiche, ma le ha anche la Nato, che negli ultimi trent’anni ha lavorato a un sistema di difesa molto avanzato per prevenire eventuali attacchi missilistici da Est. I primi test sugli intercettori, datati 2001, scatenarono le ire di Mosca che in quello che veniva volgarmente definito “scudo spaziale” (al secolo Strategic Defense Initiative) vedeva una minaccia alla sua sicurezza. La deterrenza nucleare, insomma, vale per tutti.
La Pace può essere barattata con la libertà? È questo il tremendo interrogativo che sta lacerando noi pacifisti. Perché la libertà, a differenza dell’aria condizionata, per noi è qualcosa di sacro e inviolabile. Come la pace.
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