Geopolitica
Il mediatore indispensabile. Il Qatar nel Medio Oriente in fiamme
Durante la seconda guerra mondiale, al centro di un continente in fiamme, la piccola Confederazione Svizzera fungeva, tra le altre cose, da importante nodo di comunicazioni, trattative e trame segrete, intercorse tra esponenti delle opposte alleanze militari impegnate nel conflitto. Come l’operazione Sunrise, che, nelle intenzioni di chi la condusse, doveva portare al ritiro delle armate germaniche dal nord Italia nella primavera del 1945 e aprire il fronte agli Angloamericani, prima di fallire per le titubanze tedesche e le diffidenze degli Alleati. Oggi, nel complicato mondo degli anni ’20 del presente secolo, un ruolo non molto diverso viene ricoperto da un altro piccolo stato, adagiato sulle rive del Golfo Persico: il Qatar. Piccolo, sì, ma non per questo rassegnato a rinunciare a partecipare al grande gioco mediorientale, né a svolgere un ruolo da protagonista nell’economia mondiale. Come la Svizzera ottant’anni fa, Doha può vantare una notevole forza economica e finanziaria, una posizione geografica al centro dell’area geopolitica forse più calda del globo e un’inclinazione al pragmatismo nella conduzione dei rapporti internazionali da parte della dinastia Al Thani, al potere da sempre, che le permette di dialogare con tutti, con grande utilità per sé stessi, ma anche per gli altri. Nell’odierna guerra di Gaza, e prima ancora durante le trattative di pace tra USA e Talebani in merito all’Afghanistan, il Qatar si sta affermando come il mediatore perfetto, affidabile e rispettato da tutti i soggetti in campo, fino a dimostrarsi addirittura quasi indispensabile al raggiungimento di un qualche concreto risultato. Ma come è giunto un emirato di dimensioni limitate, una volta dedito quasi unicamente alla pastorizia e alla pesca delle perle, ad essere capace di svolgere un tale ruolo?
Il Qatar entra sulla scena politica internazionale con l’inizio dello sfruttamento del petrolio, negli anni ’40 del secolo scorso, dopo secoli caratterizzati da dominazioni persiane, portoghesi, ottomane e da guerre con Sauditi e Bahrein. Sotto il protettorato britannico, nei decenni successivi l’emirato sviluppa un’importante industria, trasformando la propria economia e giungendo ad ottenere l’indipendenza da Londra nel 1971. Tuttavia, dopo un ulteriore ventennio passato all’ombra dell’Arabia Saudita, è negli anni ’90 che la lingua di terra affacciata sul Golfo Persico diventa protagonista in Medio Oriente, quando prende il comando, con un golpe incruento, l’emiro Hamad bin Khalifa al-Thani, dopo aver deposto il padre, nel 1995. A Doha comprendono il grande potenziale degli enormi giacimenti di gas naturale su cui sono adagiati e iniziano a sfruttarlo, diventando nel giro di pochi anni il primo produttore di GNL al mondo, fornitore in gran quantità di Europa e Asia. Negli stessi anni l’emiro ha l’intuizione di avviare un canale televisivo all news in lingua araba, Al Jazeera, che sarà di lì a poco diffuso in tutto il mondo a attraverso il quale Doha non mancherà di profondere il suo soft power presso l’opinione pubblica araba e musulmana. Se i giganteschi introiti generati dall’esportazione del GNL permettono ai Qatarini di fare l’ingresso nei salotti buoni della finanza internazionale, con investimenti in una pluralità di settori, dalla moda al calcio, e garantiscono a Doha uno tra i più alti PIL pro capite al mondo, il network televisivo, insieme a generosi finanziamenti, contribuisce a sostenere una linea politica che guarda con simpatia i movimenti di ispirazione islamica impegnati a sovvertire l’ordine dei regimi autocratici in Nord Africa e Medio Oriente. Dal 2011, con l’appoggio alle primavere arabe e in particolare ai Fratelli Musulmani, lo scontro con i regni conservatori del Golfo Persico, Arabia Saudita in testa, inizia a farsi serio, mentre si tengono rapporti stretti con la Turchia di Erdogan e per lo meno cordiali con l’Iran. Proprio a causa dei legami con l’Iran e del supporto fornito da Doha a movimenti islamici radicali in tutto il Medio Oriente, nel 2017 esplode la crisi con gli altri stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), che, su spinta di Sauditi ed Emiratini, decreta l’embargo e l’isolamento del paese, dal 2013 guidato dal nuovo emiro Tamim Bin Hamad Al Thani in seguito all’abdicazione del padre. I rapporti tornano buoni nel 2021, anche su impulso americano, per i quali il Qatar si conferma importantissimo alleato, fin dai primi anni ’90. Il resto è cronaca recente, con la grande vetrina dei campionati mondiali di calcio del 2022 e poi l’incessante lavoro diplomatico svolto durante la guerra di Gaza tra Israele e Hamas.
Dal 2011 Doha è diventata la sede della leadership politica in esilio di Hamas, costretta ad abbandonare la Siria a seguito delle azioni della posizione assunta dall’organizzazione palestinese durante la guerra civile in quel paese. Negli anni successivi il Qatar è si è caratterizzata quale principale e determinante fonte di finanziamento per il funzionamento dei servizi a Gaza, della quale ha naturalmente beneficiato la stessa Hamas, sia per il mantenimento dell’ordine nella striscia, che per lo sviluppo delle sue attività militari contro Israele. Tale supporto è stato peraltro realizzato non senza il tacito consenso del governo israeliano, il cui premier, Benjamin Netanyahu, ha scientemente permesso alla milizia palestinese di finanziarsi tramite Doha, al triplice scopo di allontanare dallo stato ebraico l’onere di fornire il sostentamento della popolazione di Gaza, garantirvi una relativa calma e, soprattutto, di mantenere al potere nella Striscia un’organizzazione ostile e radicale, utile allo scopo di rifiutare la ripresa di colloqui finalizzati alla creazione di uno stato palestinese caratterizzato da continuità territoriale. La disponibilità al dialogo con Israele non è una novità recente ma risale almeno alla metà degli anni ’90, quando a Gerusalemme fu permesso di aprire una rappresentanza commerciale nell’emirato, poi ridotta a seguito della seconda intifada e infine chiusa durante l’operazione piombo fuso del 2008-2009. Diversamente da altri regni ed emirati della regione, il Qatar non ha comunque aderito agli accordi di Abramo, sebbene i contatti commerciali con Israele non siano stati completamente abbandonati, e abbiano permesso il saltuario sbarco di delegazioni ebraiche nel paese. Ma il principale legame di Doha con l’emisfero occidentale è senza dubbio direttamente con gli USA. A partire dalla Guerra del Golfo del 1990 gli Al Thani ospitano istallazioni militari americane sul proprio territorio, tra cui quella di Al-Udayd, a sud della capitale, la più grande base aeronautica statunitense in Medio Oriente e sede avanzata del comando centrale delle forze armate (CENTCOM). Washington, all’inizio del 2022, ha conferito all’emirato lo status di major non-Nato ally, riconosciuto a pochissimi altri paesi, in virtù del supporto ottenuto durante le difficili trattative di pace in Afghanistan con i Talebani, concluse nel 2020 proprio a Doha, e dell’assistenza ottenuta nel corso della grande operazione di evacuazione di massa da quel paese, nell’agosto 2021. Saldo, nonostante le divergenze su vari temi, per il Qatar il rapporto con gli USA è una vera e propria assicurazione sulla vita.
Nel settembre dello scorso anno Doha, insieme a Svizzera e Oman, è stata fondamentale per facilitare uno scambio di prigionieri tra Iran e USA, e il ruolo di ponte tra lo stato persiano e l’Occidente è un altro esempio di capacità di mediazione svolta dal Qatar nell’arena mediorientale. I rapporti tra Iran e Qatar sono buoni da oltre trent’anni ed è proprio il legame con Teheran uno dei motivi alla base del già citato duro scontro diplomatico intercorso sette anni fa tra il piccolo emirato e le altre monarchie del Golfo, avvenuto in uno dei momenti di più grave tensione in Medio Oriente, con l’amministrazione Trump in procinto di denunciare il trattato JPCOA, stipulato due anni prima al tempo della presidenza Obama. Con il regime degli Ayatollah Doha condivide il gigantesco giacimento di gas denominato Pars, vera gallina dalle uova d’oro, ed è facilmente comprensibile come la cordiale collaborazione tra i due paesi sia fondamentale per entrambi. L’altro partner internazionale imprescindibile per il Qatar è la Turchia di Erdogan, decisiva nel puntellare l’indipendenza dell’emirato nell’ultimo decennio. Ankara è presente nel paese dal 2015 con un contingente militare dislocato nella base di Tariq Ibn Ziyad, giunto a contare cinquemila soldati. La saldatura tra i due stati è risultata reciprocamente cruciale in questi ultimi turbolenti anni, in cui ha fornito a Doha un baluardo contro le eventuali velleità di interventi militari da parte dei vicini del CCG, e ha garantito a Erdogan il pronto sostegno qatarino in occasione del golpe del 2016, seguito dal fondamentale soccorso finanziario inviato dagli Al Thani nel 2018 all’amico Rais, in quel momento in gravi difficoltà economiche dovute alla crisi diplomatica con gli Usa a causa della vicenda del pastore Brunson. Sono stati invece difficili, come detto, a partire dall’inizio del secolo in corso, i rapporti con gli altri paesi del CCG, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti in primis. La linea politica impressa dopo la metà degli anni ’90 da Hamad bin Khalifa al-Thani è infatti entrata in rotta di collisione con gli interessi dei vicini. Dagli schermi di Al Jazeera, Doha ha diffuso informazione a flusso continuo in tutto il mondo arabo, dando voce a settori delle società mediorientale e nordafricana fino ad allora esclusi dalle tradizionali tv di regime. Il sostegno mediatico ad organizzazioni come i Fratelli Musulmani è risultato manifesto nel 2011, in occasione delle rivolte e rivoluzioni che hanno Tunisia, Egitto, Libia, Siria, Yemen e Bahrein, dove erano al potere governi allineati con le monarchie conservatrici del Golfo. Contemporaneamente dal Qatar hanno ricevuto finanziamenti numerose milizie di matrice islamica, impegnate nelle guerre civili di Siria e Libia. Nel paese nordafricano l’aviazione qatarina ha perfino attivamente partecipato alla campagna di bombardamenti della coalizione guidata dalla Nato, che ha portato alla dissoluzione del regime di Gheddafi. Decisamente troppo per Riyad e alleati, che già nel 2014 sono giunti a ritirare gli ambasciatori da Doha per alcuni mesi, e poi, nel 2017, nel momento di massima tensione con l’Iran, hanno messo in atto un embargo economico e un vero e proprio isolamento ai danni dell’emirato, terminato solamente quattro anni più tardi con la ripresa dei contatti dopo il vertice di al-Ulà del gennaio 2021.
Un tal complesso e variegato portafoglio di relazioni diplomatiche mette il piccolo Qatar al centro dello scenario geopolitico mediorientale e lo rende idealmente adatto a ricoprire un ruolo cruciale di mediazione anche nella presente guerra di Gaza tra Israele e Hamas. Il posizionamento storico di Doha di fronte al pluridecennale conflitto, non è un mistero neanche per Gerusalemme, è pendente dalla parte dei Palestinesi. Il Qatar sostiene naturalmente la soluzione dei due popoli e due stati, conformemente alle risoluzioni ONU, come enunciata nell’Iniziativa di Pace Araba del 2002, e non aderisce, come già detto, agli Accordi di Abramo. Gli stessi rapporti intrattenuti con Israele sono giustificati per lo più di fronte alle opinioni pubbliche arabe con la necessità di tutelare il popolo palestinese, di cui Doha ha inequivocabilmente sempre preso le difese, anche condannando duramente le azioni militari israeliane e l’alto numero di vittime civili da esse provocate. Il pragmatismo degli Al Thani è comunque evidentemente ben accetto dal governo israeliano, che ha sfruttato il canale da loro offerto per stabilire contatti con Hamas, pur nella durissima e tragica situazione bellica perdurante dal 7 ottobre, anche in virtù della stabile presenza nella capitale qatarina della sua leadership politica, con al vertice Ismail Haniyeh. A Doha, a partire dal mese di novembre si sono recati il direttore della CIA, William Burns, e il capo del Mossad, David Barnea, oltre naturalmente al segretario di stato americano Antony Blinken, per condurre le trattative finalizzate allo scambio tra tregua nei bombardamenti e liberazione di ostaggi israeliani, a fronte di quella di detenuti palestinesi nelle carceri dello stato ebraico. Tale importante risultato è stato così raggiunto con l’accordo del 22 novembre, che ha permesso l’interruzione dei combattimenti per una settimana e il ritorno a casa di decine di cittadini israeliani trascinati a forza nei tunnel di Gaza. Dopo la ripresa delle ostilità, a partire dal 1 dicembre, i tentativi di ripristinare periodi di tregua e, con ancor più difficoltà, di giungere ad un cessate il fuoco, sono andati infrangendosi contro la speculare inflessibilità delle due parti, sebbene Doha abbia continuato incessantemente a provare ad avvicinare le parti, insieme all’Egitto. L’ultimo atto delle peripezie diplomatiche è stata la proposta, inoltrata dall’emirato ad Israele ed Hamas il 10 gennaio, per concordare l’esilio dei capi militari dell’organizzazione palestinese, pur con un non definito “orizzonte politico” per essa nella Striscia, e il rilascio degli ostaggi, da attuare con gradualità parallelamente al progressivo ritiro di Tsahal da Gaza. Obiettivo certamente non facile da raggiungere, sebbene da Tel Aviv non vi sia stata ancora una reazione ufficiale, arrivata invece di segno negativo da Hamas.
Il Qatar continuerà certamente, nelle prossime settimane e mesi, a fungere quale mediatore tra i contendenti del conflitto, ma è indubbio che, alla luce delle azioni di Hamas, la politica attuata in questi anni potrebbe aumentare la precarietà della sua posizione. Doha ha fatto della sua capacità di mediazione un punto di forza nelle relazioni internazionali, rendendo il suo pragmatismo e la sua capacità di mantenere contatti ed esercitare influenza su attori non riconosciuti a livello internazionale, indispensabile a potenze globali e regionali. Tuttavia, dopo il grave attacco perpetrato dall’organizzazione palestinese lo scorso 7 ottobre, la copertura e il sostegno ad essa fornita dall’emirato è balzata sotto la luce dei riflettori. In Israele sono numerose le voci, anche all’interno dell’esecutivo, che reclamano un approccio più duro verso di esso, e anche da parte americana sono giunte sollecitazioni in tal senso. Il Segretario di Stato Blinken, a inizio novembre, durante una visita a Doha, pur ringraziando il suo governo per l’importante assistenza garantita, ha ricordato che “non si può più fare affari con Hamas come al solito”, sebbene abbia poi evitato di rispondere alla domanda sull’eventualità che il Qatar dovesse in futuro chiuderne la rappresentanza nel paese. In sostanza, a Washington e a Gerusalemme oggi non possono fare a meno della partnership di Doha con la dirigenza politica del partito che ha per oltre quindici anni comandato a Gaza, ma in futuro un tale rapporto non sarà più presentabile, sebbene anche in Occidente non manchino voci, come Giorgio Cafiero di Gulf State Analytics, che riconoscono come il Qatar sia di gran lunga preferibile all’Iran nel ruolo di principale protettore di Hamas, data l’alta probabilità che questa continui in qualche modo a sopravvivere, anche dopo la fine delle ostilità a Gaza. Il dilemma si pone per tutti gli attori in gioco, ma in particolare per Israele, che, come scrive Yoel Guzansky su Foreign Affairs, deve bilanciare l’obiettivo a breve termine di salvare il maggior numero possibile di ostaggi con l’obiettivo a lungo termine di rovesciare Hamas. D’altra parte, sempre secondo l’analista israeliano, al Qatar potrebbe essere chiesto in futuro di ridurre il supporto a tale organizzazione e convogliare le sue risorse verso una rediviva ANP, come condizione alla sua partecipazione alla governance della Gaza del dopoguerra, ma non è neanche trascurabile l’eventualità che Hamas, valutando probabile il suo abbandono da parte di Doha, si dimostri meno sensibile alle sue pressioni nelle trattative odierne. Una situazione di non facile interpretazione per nessuno, che sarà necessario affrontare con la massima prudenza e discrezione, pena il rischio di provocare pericolose escalation e perdere opportunità di risoluzione del conflitto. Il pragmatismo del Qatar, ad ogni modo, incoraggia all’ottimismo.
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