Geopolitica
Il labirinto spagnolo come chiave di lettura del referendum catalano
C’è un quadro di Goya del 1823 che descrive bene l’attuale situazione spagnola ed è Duelo a garrotazos. Fa parte delle pinturas negras ed è stato interpretato come il simbolo della tendenza fratricida del popolo spagnolo, incline com’è da sempre a farsi la guerra da solo. All’epoca di Goya erano liberali contro assolutisti; un secolo prima, all’inizio del 1700, erano filo Borbone contro filo Asburgo (la battaglia del 1714 a Barcellona fu solo l’ultimo capitolo della guerra di successione che coinvolse la Spagna intera e una buona parte del continente europeo). Nel XIX secolo sarebbero stati monarchici contro repubblicani; nel XX repubblicani contro franchisti. Nel XXI nazionalisti catalani contro nazionalisti spagnoli. Ciclicamente la Spagna vive un conflitto al suo interno, un conflitto in cui due posizioni contrapposte e immobili si affrontano fino alle estreme conseguenze, senza mai volere o potere trovare una posizione intermedia di dialogo.
Forse l’unico momento in cui davvero gli spagnoli non si preoccuparono degli interessi di parte e guardarono al bene comune fu dopo la morte di Franco, quando il ricordo della recente dittatura e della guerra che l’aveva instaurata erano vivi nella memoria di molti di loro. Fu la tanto vituperata e certamente imperfetta Transizione che diede vita alla tanto vituperata e certamente imperfetta Costituzione spagnola del 1978. Chi sostiene che quella Carta non sia legittima, sbaglia. Sbaglia perché è figlia di una movimentazione popolare che chiedeva pace, amnistia, Costituzione e statuti di autonomia. Sbaglia perché è da quella Costituzione che nascono le Comunità Autonome (e con esse istituzioni come la Generalitat della Catalogna) e gli Statuti d’Autonomia che permettono loro di autogovernarsi, il tutto all’interno di un quadro comune di regole di convivenza.
Dicono i detrattori della Carta che la scrissero i franchisti. Vero, ma solo in parte. Al tavolo vi erano anche loro, ma non poteva essere altrimenti, visto che il Generalissimo morì nel suo letto e loro rappresentavano, di fatto, una parte importante del Paese.
Ma allo stesso tavolo di quell’assemblea costituente eletta nel 1977 vi erano anche gli esponenti di tutti i partiti che il Regime aveva dichiarato illegali. Vi era anche Santiago Carrillo, il presidente storico del Partito Comunista Spagnolo (PCE). Per questo la Costituzione spagnola non accontenta tutti, ma ha garantito a tutti quarant’anni di convivenza pacifica. Non dimentichiamo che è stato lo scudo che ha protetto il Paese dal tentato colpo di stato del 23 febbraio 1981.
Forse fu grazie a un momento di straordinaria lucidità che poi, tra il 1977 e il 1978, i costituenti decisero di rendere estremamente semplice il meccanismo di modifica della Carta, per facilitare la soluzione di future contrapposizioni e offrire ai politici del domani una via d’uscita dialogata. O quanto meno far sì che la Costituzione non costituisse un freno alla soluzione delle controversie che, inevitabilmente, vista la naturale propensione degli spagnoli al conflitto, sarebbero emerse nel tempo.
Com’è sotto gli occhi di tutti, così non è stato e l’1 ottobre 2017 in Catalogna si è consumata una delle pagine più tristi della storia democratica spagnola. Una pagina che in molti avremmo pensato di non dover vivere e della quale non avrei mai voluto scrivere. Una pagina che pensavamo relegata a un passato lontano almeno ottant’anni. Se con una strana macchina del tempo potessimo mettere la Spagna di oggi nel 1975 si consumerebbe, probabilmente, l’ennesima Guerra Civile.
Errori e chapuzas (una cosa fatta male) sono state fatte da ambo i lati negli ultimi sette anni. Dal lato del Govern regionale catalano ne ho già scritto, dal lato di Madrid è sotto gli occhi di tutti che a problemi politici bisogna dare soluzioni politiche e non trincerarsi dietro sentenze e mandati della magistratura. Sicuramente la Generalitat catalana ubbidisce a un mandato popolare e lo vuole fare a tutti i costi; d’altro canto Madrid ha dalla sua la legalità costituzionale e un mandato popolare altrettanto legittimo che è quello del resto della Spagna.
Se però da un lato è totalmente condannabile l’uso della forza per impedire ai catalani di votare, dall’altro lato è deprecabile l’irresponsabilità della Generalitat che ha messo i catalani in fila verso uno scontro certo. Ma tra i due considero che la colpa più grave, e per questo ingiustificabile, ce l’abbia proprio il Governo di Madrid.
Per come si erano messe le cose, la cosa più logica per mantenere l’ordine pubblico sarebbe stata, banalmente, lasciare che i catalani votassero. Nulla vietava a Madrid di disconoscere poi il risultato della consultazione, dichiararla nulla in quanto illegale e incostituzionale. Ma sì che l’avrebbe obbligato a guardare in faccia la realtà di una Comunità Autonoma che rappresenta il 19% del Pil e che, in parte, vuole separarsi dal resto del Paese. Avere i numeri sotto gli occhi avrebbe obbligato Madrid a sedersi a un tavolo e aprire una trattativa per cercare di convincere, con la forza della ragione, i catalani a restare dentro la Spagna. Invece, militarizzando una città da un milione e mezzo di abitanti, e mandando polizia e guardia civile in tenuta antisommossa a impedire che la gente votasse, si è badato solo a vincere con la ragione della forza.
D’altra parte, i numeri che sono emersi e che parlano di circa 2 milioni di catalani a favore dell’indipendenza sono comunque viziati dal fatto che, viste le condizioni in cui si è votato, possono non rappresentare del tutto correttamente il volere società catalana. È questo un fallimento su tutta la linea, una totale mancanza di lucidità politica e una propaganda eccezionale per l’indipendentismo catalano, ma non solo: nei Paesi Baschi sono state diverse le manifestazioni di appoggio al referendum del primo ottobre (per assurdo, nel tentativo di difendere l’unità del Paese, il governo presieduto da Mariano Rajoy l’ha messa ulteriormente a repentaglio).
Sorprendono, per questo, le dichiarazioni di ieri a caldo del segretario del Partito Socialista (PSOE), Pedro Sánchez, che non condanna la violenza usata dalle forze dell’ordine per ordine del Governo e anzi ribadisce il suo appoggio nel rispetto della legge, pur evidenziando la mancanza di dialogo. Dialogo che dovrebbe cominciare ora, il più presto possibile, ma che probabilmente non avverrà mai. Da Pedro Sánchez, che è il segretario del principale partito d’opposizione, mi sarei aspettato una chiara richiesta di dimissioni di Rajoy e nuove elezioni. Ciò non è stato e l’onere e onore di portare in Parlamento la sfiducia nei confronti del Governo toccherà a Podemos.
Molto più incisivo del suo Segretario Nazionale è stato poi Miquel Iceta, presidente dei Socialisti Catalani (PSC), partito federato al PSOE, che ha fermamente condannato la violenza, ma dichiarato non valido il referendum perché carente di qualsiasi garanzia legale e ribadito la necessità di dare una risposta politica a un problema politico. Forse proprio Iceta è l’unico politico che poteva in qualche modo arrivare a un accordo con l’indipendentismo, se solo gli si fosse dato modo e potere di farlo.
Nella tarda sera del primo ottobre l’impressione era quella di vivere in un Paese bipolare. Da Madrid il Governo sosteneva che in Catalogna non si era celebrato alcun referendum, che lo Stato di diritto aveva vinto e l’unità della Spagna era stata garantita. Da Barcellona, Carles Puigdemont parlava di una vittoria della democrazia sulla repressione e la tirannide spagnola, mentre annunciava che nella giornata del 2 ottobre avrebbe trasferito i risultati del referendum al Parlament, affinché si procedesse con la Legge di Transitorietà che dovrebbe portare alla nascita della Repubblica di Catalogna.
Riguardo poi a un’eventuale dichiarazione unilaterale di indipendenza, le perplessità che sorgono sono molte: quasi metà del Parlament, che in termini di voti rappresenta un 52% dei catalani, non ha votato né condiviso la Legge del Referendum e quella di Transitorietà. Questa rappresentanza viene ulteriormente suffragata dal voto di ieri che ha visto una partecipazione del 42% degli aventi diritto e una vittoria del sì con il 90% dei consensi. In termini elettorali significa che il 38% degli elettori è a favore del distacco da Madrid. Non è certo, questo, un mandato popolare forte per Puigdemont, pur tenendo presenti la contingenza in cui il referendum si è celebrato. Creare un Paese dal nulla con la rappresentanza parlamentare della metà risicata della cittadinanza delegittima, in parte, l’operazione.
Come se non bastasse, il referendum, a margine delle responsabilità di entrambe le parti, si è svolto con nessuna garanzia legale, né nessuna vigilanza che potesse garantire l’assenza di brogli e, in alcuni casi, votando direttamente per strada a causa della chiusura forzata di alcuni collegi elettorali da parte delle forze di polizia spangole. Ciò toglie al voto qualsiasi legittimità a livello pratico, mentre potrebbe essere usato come campione statistico indicativo per trattare con Madrid e magari strappargli un accordo d’autonomia più vantaggioso. Purtroppo, però, a giudicare dalle prime dichiarazioni, il muro contro muro a cui abbiamo assistito finora è destinato ad andare avanti. Né Rajoy sembra disponibile ad affrontare politicamente la questione catalana, né Puigdemont sembra voler fare un passo indietro e provare, quanto meno, un’ultima via per evitare l’innalzarsi di una nuova frontiera della quale, francamente, non sentiamo il bisogno.
A proposito di frontiere, vi sono, poi, almeno due domande che da mesi rimangono senza risposta: quale sarà la relazione della Catalogna (diplomatica ed economica) con la Spagna e con l’Unione Europea? Quale status giuridico avranno gli stranieri attualmente residenti, che non sono stati interpellati sul processo secessionista, e i cui Stati non riconosceranno la Repubblica di Catalogna?
In conclusione a questo fine settimana elettorale lungo, non rimane che constatare che nessuno dei protagonisti ha voluto fare e farà un passo indietro; chi l’avesse fatto avrebbe dimostrato di saper far prevalere la forza della ragione sulla ragione della forza. Ma non è questo il punto, non è questo perché la questione catalana è talmente intricata che districarla ora sarebbe impossibile. Ha tristemente ragione mio suocero che ieri mattina mi ha scritto che “hanno messo in moto un meccanismo che non riusciranno a fermare”.
Da ispanista, e da ispanista che si occupa di esilio repubblicano del 1939 e Transizione, non trovo altra chiave di lettura all’attuale situazione, altra logica lettura alla giornata di ieri e a quelle che verranno, che quella dell’eterna deriva fratricida della società spagnola, immortalata da Goya nel Duelo a garrotazos. Una deriva che affonda le radici in una complessità che per gli ispanisti stessi diviene a volte oscura, difficile da comprendere. Un labirinto dal quale non sembrano esserci uscite:
Templado: -¿Saldremos de este laberinto?
Cuartero: -¿Qué laberinto?
Templado: -Este en el que estamos metidos.
Cuartero: -Nunca. Porque España es el laberinto.
Così scriveva Max Aub dal suo esilio messicano negli anni ‘60 riferendosi alla Guerra Civile del 1936-1939. E davvero sembra che gli spagnoli, dal labirinto, non siano mai usciti.[1]
[1] Max Aub (Parigi 1903-Città del Messico 1972) è stato uno scrittore spagnolo. Si trasferì in Spagna, a Valencia, nel 1914 e acquisì la cittadinanza spagnola nel 1921. Uomo di teatro e romanziere, nel 1939 decide la via dell’esilio per fuggire alle persecuzioni franchiste. Si rifugia in Francia, dove viene rinchiuso nei campi di concentramento di Vernete d’Ariege e Djelfa. Nel 1942 raggiunge il Messico dove morirà trent’anni dopo. Dedicò la quasi totalità della sua opera letteraria alla narrazione della Guerra Civile e dell’esilio. S’impegnò sempre nella lotta al franchismo e a qualsiasi forma di regime dittatoriale.
Immagine di copertina: “Duelo a garrotazos” di Francisco de Goya. Fonte: wikipedia.org
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