Geopolitica
Il fantasma di Ahmadinejad continuerà ad agitare l’Iran?
«C’è una vecchia storia che mia madre mi raccontava sempre prima di andare a letto: quella di un re indiano che decide di regalare al re di un altro paese un elefante bianco. Il prezioso animale è un dono sacro, ma per il suo mantenimento servono molti soldi. Quando dopo dieci anni il popolo si chiede per quale ragione si continui a dare da mangiare all’animale, nonostante manchino le risorse per sfamare i bambini, nessuno sa cosa rispondere. Dobbiamo dargli da mangiare fino a quando non va via. E’ un dono di Dio. E’ un regalo. Ecco questo è l’Iran. Ci sono molte persone che hanno dato la vita per la Rivoluzione Islamica. 40 anni fa hanno fatto la guerra perchè non volevano che la ricchezza fosse concentrata esclusivamente nelle mani dello Shia e dei suoi famigliari, considerati sudditi degli Stati Uniti. Volevano dare il potere al popolo ma si ritrovano di nuovo in un paese dove tutto è nelle mani di poche persone, quasi tutte vicine al clero sciita, che con i soldi degli iraniani per ragioni politiche continua a finanziare altri stati esteri come la Siria o la Palestina. Per queste persone, quello che è accaduto è molto difficile da accettare. Hanno lottato per un ideale e ora si ritrovano, come nella favola, con un elefante bianco, che non possono abbandonare. Perchè per quell’elefante c’è chi ha perso la vita. Poi c’è una nuova generazione di giovani che, al contrario, è pronta a mettere in discussione l’ordine costituito senza però avere le idee chiare. Non sono la maggioranza, che continua ad essere immobile. Ma ci sono, fra quelli che se ne sono andati, come fra chi è rimasto. Allevati sotto i dogmi della rivoluzione, ma cresciuti in un paese dominato dalla corruzione, aspettano solo un leader che li guidi. Per loro il mito della porta di casa dell’ayatollah Khomeyni, che rimaneva sempre aperta per aiutare i bisognosi, è solo una favola. Almeno per me, che sono nata subito dopo la Rivoluzione, è sempre stato così». Marzieh, Esfahan
In principio erano le uova, il cui prezzo è raddoppiato in pochissimi giorni. Poi la benzina. C’è spesso un problema economico quando esplodono le proteste in Iran. Tre anni fa accadde col pollo. Poi il governo calmierò i prezzi e la situazione rientrò quasi subito. «Ma stavolta è diverso», raccontano da Tehran, la capitale del paese, ma non il centro di questa ondata di malessere che nessuno, nemmeno le autorità religiose, sa decifrare con precisione. I primi tumulti sono partiti più di dieci giorni fa, in quella che viene considerata la capitale religiosa del paese, Mashad, ogni anno meta di pellegrinaggio per decine di milioni di musulmani sciiti. Mashad, insieme a Qom, è una delle città più conservatrici dell’Iran, ma anche la più ricchia grazie alla fondazione religiosa legata al mausoleo dell’Imam Reza, capace di incamerare con le donazioni dei fedeli decine di miliardi di dollari all’anno. Ma da Mashad il malessere contro il presidente Hassan Rohani, in poche ore si è allargato anche alle altre città della regione del Khorasan, bacino elettorale di Ebrahim Raisi. «Dietro le proteste c’è lui», dicevano in tanti, il candidato appoggiato dagli Ayatollah che alle scorse elezioni venne sconfitto dall’attuale presidente. Poi però, nel giro di pochi giorni il vento è cambiato.
Dal Khorasan le proteste si sono estese a macchia d’olio in molte altre città. Dal carovita, all’assenza di Welfare, fino alle imposizioni religiose. In piazza c’è chi è sceso a rivendicare un po’ di tutto. Dalla ragazza che toglie l’hijab e viene arrestata, divenendo l’icona mendace delle proteste. Fino ai manifestanti che nella piccola cittadina di Qazvin abbattono uno dei tanti manifesti giganti che raffigura la guida Suprema. Ci sono le famiglie di Tehran che urlano fuori dal carcere di Evin per protestare contro gli arresti dei giorni precedente. Ma anche i poliziotti di una cittadina a nord della capitale che si confrontano con i manifestanti: «Stiamo dalla vostra parte per questo andate a casa», dicono in uno dei tanti video amatoriali rilanciati dal canale Telegram «Azadi», ossia Libero, la principale cassa da risonanza dei dissidenti . E le persone iniziano a crederci, condividendo il più possibile i link segnalati (nella foto che segue le braccia liberano la Torre Azad di Tehran dalla morsa del tradizionale copricapo indossato dal clero sciita).
Nonostante il blocco imposto ad internet, Azadi, raggiungibile attraverso i filtri Vpn, al momento conta circa 600mila iscritti, con una media per ogni post che supera le 100mila visualizzazioni. E’ qui che ogni notte viene dettata l’agenda delle proteste che ci saranno in piazza il giorno successivo, tenendo in contatto quel popolo virtuale, ma non solo, pronto a cambiare le cose. Un esercito di uomini e donne, che sembra essere in attesa di un leader che si faccia carico del malcontento, mettendosi a capo della protesta. Ma che si tratti di riformisti, come si è cercato di raccontare sui media occidentali, questo è tutto da dimostrare. «In strada vedo persone strane. Non sono come noi, i ragazzi dell’88». Maryam dalle parti Enghelab, una delle strade di Tehran in cui si sono concentrate le proteste, è costretta per lavoro a passarci ogni giorno. E’ di volta in volta si è ritrovata a cambiare strada per tornare a casa. Per evitare quei tumulti a cui non vuole essere accomunata. «Non ci sono gli studenti, non c’è il ceto medio o la borghesia. Ci sono persone strane, senza rivendicazioni precise. Sembrano più che altro lavoratori, sono poveri. Sembrano gli elettori di Ahmadinejad».
Già, l’ex presidente, che senza essere nominato, ora viene indicato dalle autorità religiose come il mandante occulto delle proteste. Già nel 2005, quando vinse le elezioni a sorpresa, non era un uomo ben visto dal clero sciita. Al contrario, l’ex sindaco di Tehran aveva impostato tutta la sua campagna elettorale contro gli sprechi della casta religiosa e del ceto politico. In uno dei tanti manifesti elettorali appesi nelle strade era immortalato nella sua modesta abitazione, messa a confronto con le case sfarzose dei suoi rivali. Poi però nel 2009 il clero conservatore fu costretto a puntare su di lui per fronteggiare il crescente malcontento dei riformisti. Quell’onda verde capitanata da Mir-Hosein Musavi, tuttora agli arresti domiciliari, che fece scendere tantissime persone in piazza, ma di cui, stavolta, non c’è traccia. Anzi, uno degli slogan principali prende di mira proprio i progressisti accomunandoli alla fazione opposta.
«Eslahtalab, Usulgara, dige tamume majara», gridano quasi ovunque i manifestanti in strada: “Riformisti, conservatori, la vostra storia è finita». Sembra un semplice dettaglio, ma è un passaggio fondamentale per comprendere i possibili sviluppi futuri di questa massa scomposta che al grido di «Na be Velayate faqih, ari be referendum» chiede di poter votare per l’abolizione della «Velayat Faqih», la dottrina ideata da Khomeini secondo cui il giurista musulmano ha il compito di sovrintendere ad ogni azione del Parlamento, in quanto esperto della legge (shari’a) che è emanata direttamente da Dio, della quale egli è l’autentico interprete. A mettere paura al regime, quindi, non sono più loro, i ragazzi dell’88 (nel calendario persiano il 2009 coincide con il 1388), che a distanza di anni conservano ancora le ferite di quella stagione. Ma il vecchio presidente che, da quando è stato escluso dalle ultime elezioni, non perde occasione per puntare il dito contro le autorità. «Noi abbiamo fatto rivoluzione nel 1979 affinché la gente prendesse il potere, non per diventare gli schiavi di alcuni che sono seduti in alto», ha più volte detto Ahmadinejad, che in una lettera pubblica ha anche accusato direttamente l’Ayatollah Khamenei per lo stato di salute del paese: «Tutti gli organi del governo sono dei ladri e i tre organismi fondamentali (il potere legislativo, potere esecutivo, potere giuridico) che sono sotto le tue mani ogni giorno peggiorano la vita della gente invece di migliorarla».
In questa battaglia, lui sa che può contare sul supporto delle classi più povere, quelle a cui concesse contributi assistenzialistici a pioggia, che il governo ora vuole togliere. Ma sa che può fare affidamento, ed è questa la preoccupazione più grande, su un discreto esercito, quello dei Basiji, i giovani al servizio dei Pasdaran. Gli stessi che ieri hanno manifestato in tutte le città in favore dell’ayatollah Ali Khamenei in una parata di regime che ha fatto fatto gridare alla vittoria, forse troppo presto. «La rivolta è stata sconfitta», hanno assicurato infatti i leader dei Pasdaran, le guardie dell’Ayatollah. Ma sui canali della propaganda il fuoco sembra tutt’altro che sopito. Solo ieri in un sondaggio virtuale a cui hanno partecipato quasi 80mila persone, l’87% si è dichiarato favorevole a proseguire le proteste. Secondo i dissidenti il fiume filogovernativo sceso per le strade del paese sarebbe stato costituito per lo più dai ragazzi delle scuole costretti con la forza a manifestare. E nel frattempo si chiede ai militari di prendere una posizione netta: «Il dovere dell’esercito è quello proteggere la gente e il paese – si legge in uno dei tanti meme da condividere – Per questo unitevi ai manifestanti contro il dittatore». Insomma, più che un epilogo, potrebbe essere solo l’inizio di una profonda crisi interna, una frattura in cui il presidente americano Donald Trump sta cercando di infilarsi da giorni. Come dimostra anche il suo ultimo tweet in cui promette il suo sostegno al popolo iraniano. Un supporto che arriverà al momento giusto, assicura.
P. S. In uno dei tanti meme che raffigurano l’Ayatollah Khamenei viene evidenziata l’ipocrisia della Guida Suprema. Che negli anni della Rivoluzione islamica inneggiava al coraggio del popolo che metteva a ferro e fuoco Tehran. Mentre ora tuona contro i manifestanti accusandoli di «distruggere i tesori del popolo».
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