Geopolitica
Il discorso di Dostoevskij che giunge puntuale nell’attualità
Da sempre, il tema della guerra rappresenta il punto cruciale che rivela, più di qualsiasi altro argomento, l’animo di chi ne discute. E pur nella sua complessità e gravità si presta a speculazioni di sorta, al fine di generare una comunicazione di parte, dove gli sprovveduti che odiano e i disinformati che sentenziano fanno finanche la voce grossa. Per ragionare intorno a un primordiale istinto di sopraffazione, a meri interessi geopolitici, a una scarsa considerazione per gli altri – la guerra è tutto questo – occorrerebbe tanta saggezza, onestà intellettuale, pietà per i soldati che la fanno e gli innocenti che la subiscono. In tanti casi, la protesta contro la guerra da parte delle stesse istituzioni, dei media e dei social nasconde il principio stesso di ogni conflitto, radicato in un background culturale e un modo di stare al mondo ben distanti dal sentimento della pace e dalla passione per la vita.
Per quanto mi riguarda sono veramente stanco di sentire le ragioni degli atlantisti e dei russofobi, tendenti non solo a criminalizzare chi tenta di discostarsi dalla campagna mediatica per l’affermazione di un pensiero unico a favore di Zelensky, ma a mistificare grossolanamente lo “spirito russo”, indicandovi, senza vergognarsene, motivi di antieuropeismo, come se nessuno di noi conoscesse la storia e avesse mai avuto a che fare con la letteratura di quella santa madre terra. Credo con tutto me stesso che soffermarsi, in questo frangente, su qualche frammento storico e ripassare qualche passo letterario abbia più valore che produrre nuove invettive a tema. Pertanto, lasciandomi alle spalle la premessa, passo a un Dostoevskij di grande attualità.
Il mondo conobbe, attraverso l’opera di Puškin, quella che genericamente viene definita “l’anima russa”; la stessa che si era andata plasmando nelle esistenze di eremiti, viaggiatori, rivoluzionari, oppure semplicemente annidata nella tradizione contadina. Un’anima che comparirà tra le migliaia di pagine scritte da Gogol’, Tolstoj, Dostoevskij, Čechov e tanti altri, a testimonianza di un sentimento di dolore molto significativo per la mortificazione delle speranze dell’umanità. A riconsegnare alla Russia il suo poeta e la sua anima era stato Dostoevskij, con uno straordinario discorso tenuto nel giugno del 1880, in occasione dell’inaugurazione della statua di Puskin, a Mosca, nella seduta solenne della “Società degli amici della letteratura russa”. Lo scrittore indicò nell’autore dell’Onegin colui che riuscì a “racchiudere in sé, nel suo animo, geni stranieri, come fossero della sua terra”. E, tra quelle parole, ecco un segmento di sconvolgente attualità, a cui non si rende opportuno aggiungere alcunché:
«Sì, la vocazione dell’uomo russo è indubitabilmente europeistica, anzi ecumenica. Diventare un vero russo, significa forse soltanto essere fratello di ogni essere umano, diventare un uomo universale. Tutto il nostro movimento slavofilo e occidentalizzante non è che una grande incomprensione della nostra missione, anche se storicamente necessaria […] il nostro destino è l’ecumenicità, ma non conquistata con la spada, ma con la forza della fratellanza e con il fraterno desiderio dell’unione spirituale di tutti gli uomini.»
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