Geopolitica
Il discorso del re?
All’uscita della metro mi aspettavo di vedere una folla caotica e rumorosa, invece Omonia Square è fin troppo compita e lo sarà per tutta la durata del discorso di Alexis Tsipras.
La piazza è perfettamente illuminata, come un set cinematografico, da proiettori ad alto voltaggio, sono presenti le televisioni di tutta Europa, mai le elezioni greche hanno dispertato un tale interesse.
Difficile quantificare la gente visto che il palco taglia in due la piazza, alle spalle del palco il traffico continua a scorrere, i caffè pieni di persone indifferenti, magari voteranno ma per il momento sembrano poco eccitate dall’ennesima campagna elettorale.
Il discorso di Tsipras comincia presto, attorno alle sette e mezza, è apprezzabile l’assenza del contorno così desolante di gran parte delle manifestazioni di piazza italiane, soprattutto della sinistra, dove ci si sente in dovere di far parlare mille compagni, ognuno con la propria rivendicazione, confondendo democrazia con velleitarismo. Qui in attesa di Tsipras, unico oratore, gli altoparlanti passano canzoni mescolate a brevi audio fuori campo su alcuni temi chiave della campagna, sulla scelta musicale sono piuttosto perplesso, poco coraggiosa, si rifarà parzialmente solo alla fine con Fought the law dei Clash. Facile Another brick in the wall dei Pink Floyd, inutilmente melensa Nothing else matters dei Metallica, un po’ troppo obamiano un brano di Springsteen.
Obamiano è anche lo sfondo grafico ai lati del palco: colorato, rassicurante, con sagome raffiguranti i protagonisti vittime della crisi, e si spera, del rilancio prossimo venturo della Grecia di Syriza. Anche il portamento di Tspiras trasmette serenità: alto, ben piazzato sulle gambe, ha il fisico dello statista, in grado di fronteggiare le paure e le minacce a corrente alternata provenienti da Berlino.
L’ingresso in scena è sobrio, come sottofondo un pezzo strumentale che non riconosco, Alexis si muove senza troppa disinvoltura sul palco salutando il pubblico con una qualche timidezza, prima di cominciare a parlare.
Devo qui precisare che non avendo al mio fianco un traduttore, mi sono per una volta inevitabilmente concentrato su altri aspetti.
Tsipras è un ingegnere e si vede, non è un oratore straordinario, usa poco le pause, anche quando la gente intona degli slogan che meriterebbero una concessione alla retorica, non cambia quasi mai ritmo e modulazione della voce.
Il discorso scivola via continuo, placidamente monotono, legge per gran parte del tempo, quasi mai si arrischia ad arringare a braccio, anzi non arringa proprio.
La piazza è tranquilla ma non è detto che sia una cattiva notizia per Syriza, il partito ha l’obiettivo di governare il paese, è primo nei sondaggi e non ha bisogno di atti di forza; fra il pubblico nessun pugno alzato, nessun omaggio alla memoria comunista che qui d’altronde è difesa in modo quasi commovente dal KKE, forza politica che potrebbe diventare importante ago della bilancia ma non manifesta la minima intenzione di collaborare con la sinistra radicale e vincente.
Con la sua falce e martello ben incisa sul simbolo e come punti cardine del programma l’uscita dalla Ue e dalla Nato,il KKE è talmente fedele alla linea e ad un’ortodossia di stampo sovietico da rifiutare perfino i trotzkisti, esigua minoranza da tempo inglobata in Syriza.
D’altronde Syriza nasce come una coalizione di minoranze, un rassemblement perfino più arcobaleno di esperienze passate della sinistra italiana: maoisti, ecologisti, componenti del movimento studentesco e no global, espressioni differenti e talvolta contrastanti con il loro punto d’equilibrio in questo quarantenne che intende sfidare la Bce, la Merkel e il Fondo Monetario Internazionale, vocabolo per addetti ai lavori che ad Atene senti continuamente pronunciare da baristi e tassisti.
La differenza sostanziale con l’Italia è che questa federazione di liste, diventata partito solo nel 2012, è in procinto di farcela e per questo a tributargli onore ci sono più di duecento italiani, si sono nominati Brigata Kalimera.
Il loro viaggio di testimonianza ha forse anche una connotazione scaramantica, eppure qualcuno di loro deve sicuramente essersi posto delle domande quando sul palco è stato chiamato Pablo Iglesias, il leader di Podemos omaggiato dalla piazza come fratello e futuro compagno di squadra nella rivolta dell’Europa del sud.
Un altro giovane, 36 anni, professore universitario, abile stratega di comunicazione, amante di Games of Thrones; usa nei suoi discorsi spesso un termine italiano, casta, in Italia usato da altri, anche lui sembra capace di intercettare quel voto di protesta, ed a tratti di disperazione, che certa sinistra rifiuta di accettare quasi per principio.
Pablo e Alexis si abbracciano, Pablo dice una frase in greco, raccogliendo l’applauso più forte della serata, si conclude l’evento elettorale e parte ad altissimo volume Bella Ciao. E’ la solita versione ballabile dei Modena City Ramblers, una versione che detesto, che ha trasformato il bellissimo e triste canto guerresco in un brano di intrattenimento più o meno qualsiasi, buono per divertirsi alla festa del Primo Maggio con il bottiglione di vino scadente, ma è comunque il momento per gli italiani di una rivalsa; alcuni greci si avvicinano, mandano baci, cantano il ritornello.
Agli italiani resta la storia, il fascino delle parole, le azioni sempre così difficili da realizzare.
Quando torneremo a Roma, comunque vada, ascolteremo il solito chiacchiericcio sul patto del Nazareno, l’egemonia culturale di Berlusconi impersonata alla perfezione da Renzi, i vani distinguo da parte della minoranza Pd che si è scoperta da pochi giorni solidale con Syriza e con il popolo greco, pronta a sottoscrivere qualsiasi appello per fini puramente strumentali di lotta interna.
Forse domenica arriverà Fassina, l’ex sottosegretario.
Una pernacchia lo seppellirà?
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