Geopolitica

Il diritto di resistere

23 Marzo 2022

La guerra è una cosa orrenda. Sempre. Ma chi invade e chi è invaso combattono due guerre differenti. Chi invade aggredisce, chi è invaso resiste. E il diritto a resistere di chi è invaso non può mai essere oggetto di discussione.

Il pacifismo è una dottrina giusta. Sempre. Ma c’è un pacifismo di principio che non ama negoziare con la realtà e un pacifismo realista. Che vede le cose come sono e come dovrebbero essere, ma senza rinunciare a sporcarsi le mani con la profonda ingiustizia che c’è nel mezzo, fatta di infinite sfumature che gli approcci manichei di rado colgono.

Il pacifismo radicale ripudia la guerra per tutta una serie di nobili e sacrosante ragioni: basta con le patrie, basta con la militarizzazione, basta con la corsa agli armamenti, basta con il massacro dei molti a beneficio dei pochi.

Il pacifismo realista ripudia la guerra ma non la rimuove dal suo campo visivo, decide di farci i conti, ha maggior senso della possibilità, non si incatena al dogma. Il che significa riconoscere non solo che la via negoziale supportata dal dispositivo sanzionatorio è l’unica via percorribile sul lungo periodo per arrivare a una cessazione del massacro, ma riconoscere anche che quando le città vengono sventrate, gli ospedali abbattuti, i bambini trucidati e non si può o non si vuole fuggire, ciò che permette all’invaso di resistere all’annientamento è inevitabilmente il sostegno armato. E l’invaso non è un’astrazione come il popolo, la patria o altre creature retoriche da compilare a piacimento, l’invaso è carne da macello in atto o in attesa, senza distinzione di classe, di genere o di età.

Il pacifismo radicale lo sussurra, ma non lo ammette apertamente per non sgualcire la propria nobiltà: il negare le armi agli ucraini significa costringerli a una resa incondizionata, significa costringerli a non avere alcun potere di trattativa. Significa condannare l’Ucraina a un processo di russificazione che, nonostante i giganteschi limiti del paradigma democratico occidentale, resta un’opzione spaventosa figlia di un disegno più ampio in cui si coniugano zarismo di ritorno e paesi vassalli.

Dunque, puzza di mirabile paternalismo la formula secondo cui la potenza russa, di numero e di fuoco, sarebbe talmente soverchiante da rendere l’approvvigionamento bellico a favore degli ucraini una declinazione geopolitica dell’accanimento terapeutico. Così come puzza di mirabile ipocrisia l’etichettare come guerrafondaio da salotto, con annesse esortazioni a raggiungere il fronte, chiunque solidarizzi fino in fondo con la resistenza armata degli ucraini sostenendo l’invio di armi: anche perché gli etichettatori di oggi, sovente, sono gli stessi che ieri, favorevoli alle politiche d’accoglienza in ambito migratorio, storcevano giustamente il naso o sorridevano sarcastici quando gli si replicava “ospitateli a casa vostra”.

Il pacifismo radicale, pur sperando de facto nella capitolazione, schizofrenicamente, loda l’eroismo della resistenza, ma non vuole che la si chiami resistenza perché definirla in tal modo, afferma, significherebbe cedere alla propaganda e alle semplificazioni, significherebbe contribuire al male degli sconfitti predestinati, significherebbe non tener conto del battaglione Azov e delle esercitazioni/provocazioni NATO, significherebbe disumanizzare l’avvelenatore, nonché criminale di guerra, Putin, negandogli qualsiasi credibilità all’interno della faticosa macchina diplomatica, significherebbe, Dio solo sa perché, ignorare gli abomini di guerra perpetrati altrove dagli eserciti occidentali: non la si chiami, quindi, resistenza, la si chiami, abbassando il voltaggio semantico, ritrosia; un vocabolo meno impegnativo, di alleggerimento, che non crea scompensi di prospettiva storica o tentazioni di tifo.

Il pacifismo radicale invoca la complessità, la strategia di lungo periodo, mentre i missili bucano i palazzi, mentre orde di mercenari ceceni e siriani, con capitani di ventura annessi, si fanno largo esaltando la catechesi della strage e della guerriglia.

Vede prostituzione intellettuale in chiunque, da pacifista, non accetti il disarmo mortificante dell’Ucraina.

Forse dimenticando che quando c’è di mezzo la realpolitik, per dirla con Cioran, è difficile pensare ad azioni che non abbiano a che fare con il marciapiede. Forse dimenticando che sono gli ucraini che stanno resistendo a chiedere le armi. Forse dimenticando che è impossibile mirare a una pace perpetua se i negoziati per ottenerla si fondano su rapporti di forza del tutto asimmetrici, ossia sulla capitolazione di una delle due parti.

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