Geopolitica
Il declino della politica nelle società contemporanee
Come è basso il livello della politica.
Già guardando soltanto al nostro orticello italiano, ove gli statisti sono scomparsi assieme alla Prima Repubblica e ci siamo ritrovati in un trentennio contraddistinto da leader poco capaci, quando non proprio inadatti, abili solo ed esclusivamente ad arringare una folla, a intrattenere una piazza e, molto spesso, a diffondere odio, troviamo conferma all’affermazione in apertura. La nuova leva della classe politica tricolore è caratterizzata da giovani oratori, discretamente carismatici, i quali però hanno poche idee e molto confuse quando si tratta di governare. Un premier in grado di rispettare il suo mandato per l’intera durata della legislatura è divenuto una rarità. Addirittura spesso siamo sollevati, finanche contenti della caduta di un governo, poiché sembra che chiunque finisca a Palazzo Chigi – sia esponente di questo o quell’altro colore, di un partito o dell’altro movimento, come va di moda definirsi oggigiorno – non sia in grado di governare.
Non è rimasto nulla della ars politica greca, del buon governo della polis e del politico come vocazione. Oggi è divenuta una professione, non più un mandato, una scelta di vita, non più una missione di rappresentanza, nessuno mira più al bene comune ma a quello del proprio portafoglio. Mala tempora currunt.
Stati Uniti: una politica allo sfascio
Tutto il mondo sembra essere paese. Ovunque si stanno imponendo leader che parlano alla pancia delle persone, dicendo loro quel che desiderano sentirsi dire, coalizzandole contro un nemico che ha vari nomi e aspetti ma che quasi mai è il vero responsabile dei drammi quotidiani che affliggono i Paesi: disuguaglianza, mancanza di lavoro, sanità, tensioni sociali… quasi sempre questo nemico è il diverso: l’africano che ci ruba il lavoro, il cinese che esporta il virus, l’omosessuale che mina lo status quo. È una politica che distrugge, poiché ormai non sa più costruire.
Ne abbiamo avuto un esempio cristallino la scorsa notte; con il primo dei dibattiti programmati in vista delle elezioni presidenziali di novembre. Donald Trump e Joe Biden, uno affianco all’altro, si sono confrontati in un auditorium di Cleveland di fronte agli occhi del loro Paese e del mondo intero. I due hanno fornito uno spettacolo pessimo. Tanto il presidente uscente quanto il suo sfidante sono ricorsi al turpiloquio e ad attacchi personali, hanno preferito bullizzare l’avversario piuttosto che proporre una qualunque traccia di programma per i prossimi quattro anni. La rivista Politico ha definito il dibattito una vergogna nazionale, senza troppi giri di parole.
Nella notte italiana si è rotta quella metaforica diga che arginava l’impeto personale e la maleducazione, impedendo loro di inondare il laghetto del civile dibattito politico. Donald Trump, è stato lui a cominciare, ha sempre interrotto lo sfidante, ricorrendo più volte ad insulti più o meno velati e rafforzandoli con commenti ed esternazioni irrilevanti, di quelle che spesso accompagnano i suoi interventi sulle tv via cavo o su Twitter. Inizialmente Biden ha tentato di restare calmo e di seguire le regole, salvo poi iniziare a rispondere al Presidente, prendendo parte al suo stesso gioco e definendolo pagliaccio. Il livello è stato davvero molto basso tanto che a questo punto è lecito anche domandarsi quale utilità possa avere una simile iniziativa; se durante le precedenti tornate questi confronti potevano avere un significato, ormai sono praticamente risse da saloon dove si utilizzano le parole invece dei pugni chiusi. Le incomplete risposte date su economia e pandemia, da entrambi i candidati, non cambiano certo l’impressione data da questo dibattito tra zotici.
Dall’altra parte del mondo a prendere esempio
Osservando la situazione mondiale, è facile restare scoraggiati di fronte ai segnali che ci manda la geopolitica. Esempi negativi che arrivano da est e da ovest ci fanno temere il peggio per il futuro politico della nostra società, arrivando persino a minare la fiducia nel concetto stesso di democrazia. Ragionamenti del tipo: “se il suffragio universale manda al potere certi soggetti, non è meglio evitare di far votare chiunque?” prendono sempre più piede.
Non rassegniamoci però al peggio, non commettiamo l’errore di abbandonarci alla sfiducia più becera e generalizzata. Per rari che appaiano, abbiamo ancora degli esempi di buona politica, di amministrazione pubblica come dovrebbe essere fatta. Uno di questi ci giunge da lontano, dall’altra parte del mondo; si tratta del buon lavoro che stanno facendo i laburisti neozelandesi e il loro Primo Ministro, Jacinda Ardern.
Un’amministrazione al passo con i tempi
La Nuova Zelanda è un piccolo Paese; conta meno di 5 milioni di abitanti e presenta questioni meno spinose rispetto ad altri Stati. Eppure la sua premier ha moltissimo da insegnare ai colleghi. Si tratta di un Primo Ministro giovane ed estremamente progressista. Naturalmente questo può essere un aspetto positivo o negativo a seconda delle inclinazioni personali. Indipendentemente dalle convinzioni di ognuno, però, è il modo di fare politica di Ardern che incanta, appassiona e le porta tantissimo seguito. È stata addirittura coniata un’espressione: Jacindamania, per definire il boom di consensi che ha ottenuto al suo primo trionfo, nel 2017.
Nelle prossime elezioni – il 17 ottobre la Nuova Zelanda sarà chiamata alle urne per riconfermare Ardern e la sua squadra, oltre che per esprimersi relativamente a due referendum: uno per autorizzare l’eutanasia e l’altro per legalizzare la cannabis – il Primo Ministro potrebbe essere ancora più forte, portando al suo partito la maggioranza assoluta in Parlamento. La popolarità di Ardern si deve non soltanto alle sue sapienti decisioni politiche: una buona gestione della pandemia nel Paese, la pronta risposta ad una preoccupante eruzione vulcanica e l’accorato appello all’unità in seguito alla strage razzista di Christchurch (in quell’occasione pronunciò uno storico discorso sull’importanza di nominare le vittime e mai il carnefice, per evitare di dargli qualunque notorietà, togliendogli persino quella del nome) ma anche – e probabilmente – soprattutto, ai suoi modi semplici di premier – mamma.
Il Primo Ministro, infatti, fece parlare di sé quando 2 anni fa, in occasione della nascita di sua figlia Neve, si prese un congedo di maternità dal lavoro, per stare assieme alla neonata e a suo marito Clarke. La scelta le diede grande popolarità e da allora Ardern si è sempre dimostrata molto attaccata alla sua famiglia, guadagnandosi l’empatia di tante madri e donne in carriera che vivono le sue stesse difficoltà. Sul piano umano è davvero difficile, infatti, non sentirsi legati a questa quarantenne che attraversa problemi e vicende note ad ognuno di noi; non è un caso se la campagna elettorale l’ha voluta iniziare nella cittadina rurale di Morrinsville, ove è nata e cresciuta prima di spostarsi ad Auckland e dove ancora dimorano i suoi genitori, in modo da poter lasciare la bimba con i nonni mentre lavora.
Senza toni forti, senza strappi alle regole, senza urlare, si può anche fare politica con umanità e dedizione pari a quelle che si riversano in ogni altra professione. Non bisogna essere speciali per diventare buoni politici, basta restare sé stessi senza eccessi, evitare di comportarsi secondo i primi esempi elencati e ispirarsi di più ad una politica normale e lineare come quella messa in atto da Jacinda Ardern.
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