Costume
Il complesso del complessista
Il dibattito sulla guerra in corso è preda di una tendenza alla costante delegittimazione dell’interlocutore. Più che ragionare sugli argomenti, si ragiona sulla corretta disciplina del pensiero di chi li esprime, con accuse di semplificazione e propaganda guerrafondaia da una parte e di giustificazionismo dall’altra.
In questo turbinio di scontri verbali e negoziati semantici, di intellettualità diffusa e diffusiva, di orrori e di veleni, è apparso sulle colonne de Il Fatto Quotidiano persino il “manifesto” dei “complessisti”. La cui autrice è Donatella Di Cesare, docente di Filosofia teoretica, e in cui si denuncia la perdita di qualità della discussione pubblica contemporanea. Che si qualificherebbe, secondo un vecchio adagio, per un bersagliamento costante della complessità e per la restituzione del mondo che ci circonda attraverso schemi di lettura binari, assai comodi ma poco soddisfacenti, soprattutto quando l’oggetto del dibattere è uno scenario bellico.
Così la chiosa: “Se ci fossero più complessisti a interrogarsi sui motivi, forse un po’ delle guerre in corso avrebbero potuto essere evitate”.
Ovviamente, non ci è dato sapere se dalla ristretta cerchia dei complessisti, che porta sulle spalle il peso dell’urgenza di una controstoria da squadernare e di un protagonismo storico a venire, sono esclusi tutti coloro che hanno un’opinione sull’invasione russa differente dall’autrice: in effetti, sarebbe stato troppo semplicistico il dichiararlo apertis verbis.
Tuttavia, possiamo supporlo con buon margine di certezza. Poiché Di Cesare sembra teorizzare idealmente una specie di monopolio della complessità in cui chiunque demonizzi Putin “per pigrizia mentale o malafede” non ha facoltà di integrarsi.
In cui la reductio ad Hitlerum è severamente bandita in ottemperanza a una precisa classifica della disumanità all’interno della quale Putin, nella scala che va dal bastardo ordinario al celebre dittatore tedesco, non raggiungerebbe un piazzamento troppo prossimo alla vetta.
In cui già parlare d’invasione, probabilmente, denota un approccio un po’ leggerino.
In cui qualunque argomento contempli l’invio di armi a chi resiste e la fallibilità del pacifismo metafisico – così definibile per la sua totale mancanza di adattamento dinamico al contesto storico – non trova spazio.
In cui qualunque opinione schierata e discorde è di necessità semplificatoria in quanto schierata e discorde. Come se lo schierarsi fosse un crimine intellettuale e il definire resistenza una forma fattuale di resistenza fosse un pronunciamento poco rispettoso dell’irriducibile diversità novecentesca della resistenza partigiana. Come se una pace per resa fosse una pace credibile.
Di Cesare, nel suo “manifesto”, in quanto “complessista”, in quanto founder del complessismo, quindi, in quanto naturale prosecutrice della migliore tradizione riflessiva occidentale, ci esorta anche a seguire la strada dei maestri del sospetto, di Marx, di Nietzsche, di Freud. “Il che vuol dire meno falsa coscienza e più avvedutezza”. Meraviglioso.
Eppure, temiamo, da sempliciardi indomiti, che seguire quella strada significhi proprio prendere atto della discutibilità, declinabilità, aggiornanbilità e decostruibilità di qualunque categoria in quanto mero prodotto storico tra gli altri. E il pacifismo, in tal senso, non sembra fare eccezione.
Riprodurne, dunque, pedissequamente lo schema classico, immacolato, di non compromesso con l’orrore bellico in corso d’opera, confidando che la realtà, per improvvisa deviazione idealistica, vi si adegui, viene da sé, è fare della metafisica, è fare della pace un attrezzo omeopatico per deodorare le discussioni e igienizzare le coscienze.
Pensare che Putin, Biden et similia risparmierebbero al mondo alcuni degli scenari di guerra in essere “se solo ci fossero più complessisti” a zonzo, viene da sé, è fare, nella migliore delle ipotesi, dell’idealismo ingenuo.
Non accettare, per principio, la fallibilità di un’idea come il pacifismo radicale, rifiutarsi di ragionarne in termini di concreta applicabilità o sostenere un’idea di pace generica da appiccicare su un’idea di guerra generica senza tener contro della specificità e dell’ostinazione di chi combatte più che sembrare una linea di pensiero “sospettosa”, sulla falsa riga dei maestri succitati, sembra invece una linea di pensiero sospetta.
Sospetta perché anziché fare i conti con l’ingiustificabile macelleria putiniana preferisce caprioleggiare in diversivi da par condicio geopolitica (ma allora gli americani?!). Sospetta perché tecnicamente dogmatica. Sospetta perché l’idea del complessificare di cui si fa portatrice somiglia tanto a un declassare qualunque forma di pensiero oppositivo, somiglia tanto a un distorcere con lo stigma della semplificazione e dell’umoralità qualunque riflessione che parta da presupposti differenti, che giunga a conclusioni differenti o che si faccia banalmente carico delle contraddizioni senza per questo rinunciare a una presa di posizione, somiglia tanto, paradosso dei paradossi, a un tentativo si semplificazione binaria (semplicisti/complessisti) dell’ampio spettro delle traiettorie riflessive possibili.
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