Geopolitica
Il Collio, il vino, la memoria e l’autentico senso dell’Europa Unita
“Benvenuti in Slovenia: ti informiamo che la tua offerta nazionale è valida anche qui senza sovraprezzo…”. Trillarono tutti insieme gli smartphone sullo spompatissimo Ducato che in un pomeriggio caldo di mezzo Settembre del ’19 (ma 2019) arrancava sul monte Calvario da Gorizia verso Oslavia con il suo carico di amici (miei) che cantavano allegramente come ogni anno “Bella figlia dell’amore”. Se Italia o Slovenia poco si capisce girando sul Collio tra cantine e vigneti affollati per la vendemmia, quasi irriconoscibili sono le tracce della Linea Morgan che l’Unione Europea ha felicemente consegnato ad una storia dolorosa, dimenticata ovunque tranne qui.
Era la mattina presto di un tardo Giugno o giù di lì del ’91 (il millenovecentonovantuno. L’anno in cui “inventarono” il web, per dire) e la terrazza dell’Hotel Metropole di Portorose era inondata dall’azzurro chiaro di un cielo non ancora velato dalla calura estiva e il profumo della macchia mediterranea insieme alla salsedine di un mare calmissimo lavava i ricordi dell’inverno padano quando due Mig apparvero ruggendo nel golfo e da poco congedato da ufficialetto dell’Aeronautica guardavo con che perizia stessero bassi nonostante l’armamento sotto le ali per poi sparire dietro la collina del promontorio. Il silenzio, il profumo e poi quattro distinte esplosioni. Era il momento di svegliare rapidamente i soliti amici (miei) con cui da anni si trascorreva l’annuale week end sloveno in compagnia per correre al Ford Transit parcheggiato da basso, senza poter chiedere il conto alla reception perché abbandonata, lasciando un biglietto “pagheremo!” sull’enorme bancone sovrastato dalla pittura del socialismo reale che adornava l’ancor più enorme hall dell’albergo di regime. Poi di corsa, tra le camionette della Milicja a incontrare i carri armati serboyugoslavi M84, versione autoctona dei T72 del Patto di Varsavia, che si muovevano sulle stradine del monte e passare l’abbandonata barriera di caselli del confine italosloveno tra il suono metallico delle sventagliate, fermati dopo poco da due carabinieri nascosti dietro un Fiat 900 T di servizio: “Che succede di là? qui si sente sparare!” La Slovenia voleva l’indipendenza, gli Jugoslavi serbi no di certo, europei e americani non sapevano che pesci pigliare perché ben conoscevano il sanguinario nazionalismo che scorreva tra i monti balcanici.
Il Collio a Settembre del ’19 cento anni dopo è meraviglioso e cammini tra le vigne accompagnato dal “padrone friulano” che ormai lascia ai figli la gestione ma la storia se la sente addosso e te la racconta senza neanche saperlo tra i calici del giro di degustazione dei suoi gran vini, le risate parlando di un vignaiolo amico comune nel Lugana, un passo sicuro nel terreno scosceso. “Qui il vino lo facciamo da sempre. Guarda, quello è il San Michele, il Monte Santo, di lì la Bainsizza e poi il Sabotino” e mentre il braccio gira a indicare rimani fulminato dalla leggerezza nella pronuncia di quei nomi che non sai nemmeno se stanno di qua o di là. ”Mio nonno ricominciò nel ’19, era tutto distrutto. Prova questo Pinot Bianco” e un bicchiere passa di mano. “Mio padre ricominciò nel ’45, era tutto distrutto. Vuoi ancora del formaggio? A Brescia siete bravi coi vini, col Franciacorta ma io preferisco il Lugana”. Per entrare nella cantina passi davanti a una vetrinetta di elmetti, mazze ferrate, pugnali dalla lama seghettata, ogive di ogni calibro, caricatori che l’occhio bresciano che fa vino ma dove le armi sono il pane quotidiano riconosce essere non solo del ’18 ma anche del ’45. “Poi sono arrivati i miei figli, adesso vanno avanti loro” e lo dice sapendo di mentire mentre l’espressione del viso passa dal gioviale al serio per annusare il bouquet di un bianco che fa lui e che giudica come fosse di un altro. “Loro li aiutavamo, dovevano portare le uve alla cantina sociale ma un po’ le davano di notte a noi giù lì sotto sul confine e noi facevamo il vino più facile perché loro non le sapevano ancora fare bene ma arrotondavano con le nostre lire. Adesso un po’ si fidano di noi e un po’ dei francesi; mah vedremo”. Non è storia quella che racconta, è la memoria di chi sa cosa è cambiato, di quella gente di confine che la libertà e la pace non c’è bisogno di spiegargliela. Dopo il ’45 in quell’angolo della collina si arrivava solo a piedi perché la strada seguiva l’orografia ma non la geopolitica e attraversava di continuo il confine senza senso se non per il sangue che lo disegnò. E quando esci dalla cantina un po’ più su ma non troppo ti aspetta immobile a quota 153 tra i cipressi un mausoleo, un sacrario, un ossario, un cimitero, un monumento alla follia umana eretto dal nazionalismo del ’38 dalla quale germogliò e nel quale trovi Achille Papa, generale bresciano nato tra le colline del Lugana e colpito sul Collio da un cecchino nell’ottobre del ’17 circondato nel marmo bianco da 57.741 caduti, 36.000 dei quali riposano senza un nome. Se c’è un posto dove capisci la stupefacente grandezza del sogno europeo realizzato con l’Unione, dove la memoria ti fa capire la drammatica attualità di quel disegno ridotto nella volgare quotidianità alla “dittatura di Bruxelles”, dove la violenza inumana di almeno due e non un solo ricordo cementa un irrinunciabile bisogno di pace e rende la libertà che ha vinto in Europa i totalitarismi un pane quotidiano è lì, sulla carrozzabile tra Piuma e Oslavia dove gli smartphone si agganciano a tecnologie senza confini e i figli sono la prima generazione che per la prima volta non ha ricominciato dove tutto era distrutto. Il Ducato scende scricchiolando per il carico di bottiglie le curve strette senza confine e si dirige verso Postumia, le grotte che nel mio sussidiario degli anni sessanta erano ancora italiane e che, quando parcheggi nel verde un po’ austriaco e ben tenuto ti rendi conto che sì, furono, italiane, ora sono slovene ma prima austriache e prima ancora…aspetta, non ricordo; ma a che serve, non ho nemmeno usato la carta di identità, alla faccia dell’ignoranza insopportabile di un manipolo di ricchi sovranisti con bandiere e crocifissi che il confine lo vedono in aeroporto per andare alle Maldive in vacanza, non in fondo a una vigna che ha cancellato almeno tre volte il filo spinato.
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