Geopolitica

Il ciclone Trump sul sistema internazionale. Europa: che fare?

10 Febbraio 2025

Dopo oltre due mesi di lunga e fremente attesa, la seconda era Trump è finalmente planata sulla scena della Storia, inaugurata con un discorso di insediamento a dir poco esplosivo, seguito da settimane altrettanto scoppiettanti, a fungere da segnale di quello che sarà il prossimo quadriennio. Dal Campidoglio, edificio che solo quattro anni fa era stato oggetto dell’incredibile assalto da parte dei suoi sostenitori, il neo-presidente ha arringato l’autorevole platea con un discorso, che ha lasciato poco spazio alla diplomazia e alla tradizionale retorica unificante, per virare invece decisamente verso durissimi attacchi alla precedente amministrazione e annunci di un programma a dir poco dirompente, sia in politica interna che estera. In particolare, è proprio su quest’ultima che il Trump 2.0 sembra volersi differenziare maggiormente dalla sua prima esperienza alla Casa Bianca, quando le questioni di politica internazionale erano affrontate perlopiù sotto l’aspetto delle rivendicazioni nei rapporti commerciali con i partner e riflettevano una chiara volontà di disimpegno in fatto di missioni militari all’estero. Ebbene sì, il nuovo The Donald, come già si era potuto intravedere dalle ultime uscite pubbliche del mese di gennaio, si prefigura come il leader di un’America imperialista. Altro che isolazionismo, come qualcuno qui in Europa temeva, preoccupato di assistere all’abbandono degli alleati al di qua dell’Atlantico da parte di uno zio Sam ripiegato su sé stesso. La cifra della nuova presidenza sembrano essere invece le rivendicazioni territoriali e le minacce velate, ma non troppo, all’uso della forza, anche nei confronti di alcuni tradizionali alleati, come hanno confermato dichiarazioni, iniziative diplomatiche e ordini esecutivi emessi nei primi giorni di presidenza. “La pax americana è finita”, scrivono Ivo H. Daalder e Martin M. Lindsay nell’incipit del loro pezzo su Foreign Affairs. Una vera e propria svolta nel sistema internazionale globale, con cui in Europa saremo presto obbligati a fare i conti.

 

Gli USA, da quando, con il coinvolgimento nel primo e poi nel secondo conflitto mondiale, sono ascesi al ruolo di protagonisti e massimi attori globali, si sono sempre caratterizzati come potenza fautrice di un ordine internazionale liberale, salvo brevi periodi di relative tendenze isolazioniste, come negli anni ’20. Dal 1945 in poi, hanno ricoperto inoltre il ruolo di superpotenza cardine del sistema, garante della sicurezza degli alleati e del libero commercio sui mari, a fronte naturalmente dei vantaggi dell’egemonia globale. Una vera e propria repubblica imperiale, come abilmente descritto da Mario Delpero nell’autorevole e fondamentale volume di qualche anno fa, Libertà e impero. La seconda presidenza Trump sembra invece voler trasformare gli USA in una potenza imperialista e revisionista, laddove alla leadership egemonica e alla postura cooperativa nelle relazioni internazionali, pare anteporre  atteggiamenti minacciosi e rivendicazioni territoriali, indirizzati verso soggetti tradizionalmente amici e luoghi ben lontani dal territorio nazionale. Pochi analisti e addetti ai lavori avranno evitato di saltare sulla sedia, quando il tycoon, ancora da presidente eletto, ha annunciato al mondo che la Groenlandia sarebbe dovuta diventare territorio sotto il controllo diretto degli USA, eventualmente anche con il dispiegamento dell’esercito. E per chiarire a tutti che non avevano capito male, il nuovo inquilino della Casa Bianca lo ha prima ribadito nel citato discorso d’inaugurazione, e poi ripetuto senza troppi complimenti in una concitata telefonata con la premier danese Mette Frederiksen, giudicata “orrenda” da fonti interpellate dal Financial Times. Altro target delle rivendicazioni trumpiane è Panama. Il piccolo stato centroamericano, secondo la nuova dottrina MAGA, è colpevole di trattare Washington con slealtà, facendo pagare le imbarcazioni americane più di quelle degli altri stati per l’attraversamento del canale e permettendo invece alla Cina di subentrare nel controllo dello strategico istmo. E pazienza se le accuse in merito alle gabelle sulle navi a stelle e strisce sono palesemente false: Panama dovrà restituire il controllo del canale agli USA, che, dopo averlo costruito, lo hanno mantenuto fino al 1999, per poi cederlo alla repubblica caraibica. Non sono mancati, in questi primi giorni, riferimenti ad altri vicini, come il Canada, desiderato, nelle esternazioni del presidente, quale cinquantunesimo stato dell’Unione, e il Messico, minacciato con l’intervento delle forze armate ai confini e anche sul suo territorio, al fine di combattere immigrazione clandestina e cartelli della droga, ora designati come organizzazioni terroristiche. La Colombia è stato invece il primo paese oggetto della immediata ritorsione tramite pesanti dazi sulle importazioni, a seguito del rifiuto di accogliere un aereo di immigrati rimpatriati, secondo il piano di deportation dagli USA, fiore all’occhiello del programma del nuovo GOP targato Trump. Dazi che sono stati poi ritirati, non appena è stato trovato l’accordo per l’accoglimento dei migranti espulsi. Pura tattica dettata da logica transattiva, secondo la modalità di sparare alto, per ottenere poi il miglior risultato possibile, o una vera e propria inversione di rotta nell’approccio alle relazioni estere, improntate ora ai puri e semplici rapporti di forza? Certamente, la retorica dell’attuale Comandante in Capo poggia su un nazionalismo radicale, non privo di venature nativiste e xenofobe, come mai si era verificato negli ultimi cento anni e più di storia americana.

 

Si può facilmente verificare come l’attitudine alla ricerca del deal vantaggioso continui a essere alla base del modus operandi di Trump, specialmente sui temi legati all’economia e al commercio internazionale, similmente a quanto accaduto tra il 2017 e il 2020. Anche nella campagna presidenziale che lo ha nuovamente portato alla Casa Bianca, il candidato repubblicano ha prefigurato l’adozione di pesanti dazi, praticamente su tutti i partner mondiali e sulla generalità dei settori merceologici. Se nel corso della prima presidenza la sua amministrazione si era concentrata principalmente sulla Cina, limitandosi ad ingaggiare l’UE solo su acciaio e alluminio, ora la spada di Damocle della tariff campeggia un po’ su tutti, sempre con maggior predilezione per Pechino, minacciata con un’ipotesi del 60% su tutte le merci, per il Messico, nuovo grande esportatore negli USA, perno delle triangolazioni con il gigante asiatico, e finanche per il Canada, altro stato con una bilancia commerciale fortemente positiva verso Washington. Le tre nazioni sono state puntualmente oggetto dell’ordine esecutivo della scorsa settimana, giustificato formalmente da motivazioni di emergenza nazionale, legate ai traffici di migranti e droghe pesanti alle frontiere, con il quale hanno subito dazi incrementali del 10%, nel caso della Cina, e di ben il 25%, di Ottawa e Città del Messico. Queste ultime due in palese violazione dell’accordo USMCA, negoziato proprio da Trump nel 2019 al fine di rivedere il trattato NAFTA del 1992. La nuova linea MAGA non disdegna però di mettere nel mirino “tutti quei bei paesini europei che si uniscono… non prendono le nostre auto, i nostri prodotti agricoli…”. “Dovranno pagare”, Donald dixit. Rimane da capire innanzitutto se le nuove politiche tariffarie siano finalizzate a garantire ulteriori sensibili entrate al tesoro di Washington, o se invece debbano favorire la reindustrializzazione sul territorio nazionale, già incentivata dal Chips Act e dall’Inflation Reduction Act di Joe Biden. Il perseguimento di tutti e due gli scopi pare infatti essere complicato e contraddittorio, sebbene Trump li abbia classificati entrambi come obiettivi, e non andrebbe dimenticato come i dazi non cadano su un sistema economico internazionale fisso e immobile, ma abbiano ricadute sui cambi, sull’inflazione, e possano nondimeno determinare ritorsioni delle controparti. Senza trascurare poi l’interrogativo su quale sia l’orizzonte strategico per l’utilizzo dei dazi: essere introdotti stabilmente, finalizzati a sé stessi, per una qualsiasi delle ragioni esposte sopra, oppure essere agitati come arma negoziale, allo scopo di ottenere risultati su altre questioni di politica estera, o ancora un mix delle due ipotesi, con la possibile modulazione dell’entità della tariffa? Le prime impressioni sono discordanti, soprattutto su Canada e Messico, per le quali il chiaro monito del presidente, secondo cui “non c’è nulla che essi possano fare per modificare la situazione”, sembrava far propendere per la prima ipotesi. Una linea dura, che però veniva apparentemente sconfessata da un rapido rinvio dell’entrata in vigore dei provvedimenti, deciso a seguito di telefonate con i leader dei due paesi, disponibili a fare concessioni sulle misure di contrasto ai traffici di droghe e migranti, e forse anche in conseguenza delle pessime reazioni dei mercati. Più chiaramente sfumata sembrerebbe invece la posizione nei confronti di Pechino, verso la quale il ridotto importo del dazio lascia intravedere ampi spazi per un nuovo negoziato. Ma l’offensiva della nuova amministrazione USA non si limita ai dazi: tra la raffica di ordini esecutivi firmati da Trump successivamente all’insediamento c’è anche l’uscita dall’accordo internazionale, negoziato in sede OCSE nel 2021, dopo anni di faticose trattative, con cui era stato dato avvio alla Global Minimum Tax, e attraverso il quale era stata concordata l’adozione di misure per la tassazione delle multinazionali del settore Tech da parte dei paesi dove venivano realizzati realmente i guadagni. Nello stesso documento il Presidente ha inoltre dato mandato al Segretario al Tesoro, Scott Bessent, di elaborare strategie ritorsive nei confronti di quei paesi che si accingessero a utilizzare tali tipologie di prelievi ai danni di imprese americane. Cosa che stanno già facendo vari paesi europei, tra cui la Francia, il Regno Unito e l’Italia. L’atteggiamento conflittuale e non cooperativo di Washington, del resto, non sarà limitato alle questioni commerciali e tributarie, ma si può già osservare anche nell’immancabile volontà di uscire dagli accordi di Parigi sul clima (di nuovo), accompagnata dal quanto mai chiaro invito agli operatori del settore energetico ad aumentare il più possibile la produzione di petrolio e gas naturale, al grido di Drill, baby, drill!, e nella decisione di abbandonare l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), con tutti i problemi che la cessazione dei finanziamenti USA significheranno per il suo funzionamento.

 

Se nei rapporti economico-commerciali la prassi di Donald Trump ricalca sostanzialmente le azioni già viste in passato, pur con accresciuta intensità, la principale novità della versione 2.0 del settantottenne presidente risulta essere un impegno e un’assertività ben maggiore in politica estera. Specchio del tempo presente, si direbbe, in un mondo nuovamente piombato nell’atmosfera di guerra e di dura contrapposizione geopolitica. I proclami su Panama e Groenlandia, come già spiegato, ne sono chiara indicazione, e si sbaglierebbe a trattarli come estemporanee rivendicazioni scioviniste. Alla base vi sono infatti precise ragioni di natura geostrategica, legate alla competizione con Russia e, soprattutto, Cina, che si svilupperà nei decenni a venire. Logico appare come il Canale di Panama sia un’infrastruttura da tenere sotto controllo, in un America Latina ove Pechino ha avviato un’importante campagna di acquisizione di asset nel settore portuale, e come ancor più risulti per gli USA di vitale importanza la disponibilità all’utilizzo della Groenlandia quale base strategica, e possibilmente pure quale fonte di risorse naturali, in uno scenario che prevede la futura apertura della rotta marittima artica, in seguito al progressivo scioglimento dei ghiacci. Date le motivazioni strategiche, naturalmente però le modalità del perseguimento degli interessi americani da parte di Trump sono ben diverse da quelle che avrebbe messo in atto qualsiasi altro suo predecessore, e tanto basta per definire una nuova era nella politica estera di Washington. Del tutto evidente, e non è una novità, è comunque che i prossimi decenni saranno sempre più caratterizzati dalla rivalità con Pechino, la quale condizionerà le azioni degli USA, e non solo, in ambito militare, industriale, commerciale ed energetico. Sarà interessante capire quale sarà l’approccio della nuova amministrazione al rovente dossier Taiwan, e se prevarrà maggiormente nell’inquilino della Casa Bianca l’attitudine ad entrare in facile sintonia con gli “uomini forti” in giro per il mondo, quale è senz’altro Xi Jinping, oppure l’ostilità ad una nazione che inonda l’America con la propria merce, “derubando” i bravi cittadini della superpotenza, secondo la nota retorica MAGA. Nel dubbio, ristabilire il dominio sul continente americano, senza troppi fronzoli e spazi per le buone maniere, in virtù di quella che qualcuno ha definito una dottrina Monroe 2.0, potrebbe essere uno degli obiettivi della sua presidenza. L’altro enorme interrogativo, che ci riguarda più da vicino, verte sul futuro dei rapporti con l’Europa, e, di conseguenza, con la Russia di Putin, in termini di alleanze militari e politiche di sicurezza. Con Mosca quanto mai in postura revisionista e impegnata nell’invasione dell’Ucraina, i temi della vitalità della NATO e della conferma della garanzia militare americana sul vecchio continente si pongono in maniera non eludibile, e in passato Trump ha più volte fatto capire di non volerle dare affatto per scontato, vagheggiando di condizionarle ora ad una ben più elevata compartecipazione dei paesi europei alla spesa militare dell’alleanza, ora ad un riequilibrio nella bilancia commerciale. Quanto il tycoon si vorrà impegnare in Europa lo si potrà già capire dalla piega che prenderà la ormai prossima trattativa con la Russia per la cessazione delle ostilità in Ucraina. Non sarà certamente un negoziato facile, in virtù dei sensibili progressi nell’avanzata delle truppe di Mosca in Donbass degli ultimi sei mesi e delle gravi difficoltà di Kiev a mantenere la compattezza, sia delle linee al fronte, che dell’opinione pubblica interna. Trump ha fatto capire di voler spingere entrambi i contendenti a importanti concessioni, ma, se da un lato ciò non dovrebbe essere difficile con Zelensky, dall’altro sarà più complicato con una Russia, che, nonostante le fragilità economiche e gli enormi costi umani e strategici messi sul piatto, intravede vicina la possibilità di ulteriori acquisizioni territoriali, o addirittura di uno sfondamento delle difese ucraine in direzione del Dnepr. Sarà probabilmente necessario minacciare Putin con un’escalation delle forniture militari a Kiev, per condurlo a più miti consigli, ma il successo di tale mossa non sarebbe affatto garantito, né privo di rischi. Per finire, rimane sempre caldo lo scenario mediorientale, dove il neopresidente è riuscito a favorire una tregua tra Israele e Hamas, in collaborazione con l’amministrazione Biden, ma in cui la sfida sarà riuscire a portare a termine l’ampio conflitto coinvolgente Israele e determinare la ripresa dello strategico avvicinamento con l’Arabia Saudita, riuscendo poi a isolare o, se possibile, addirittura a rovesciare il regime iraniano. Tutte questioni che si tengono l’un l’altra, ma che sottendono non lievi rischi di guerra regionale e rappresentano certamente un vaste programme, tanto più che le reiterate e talvolta poco ortodosse posizioni apertamente filoisraeliane di Trump non favoriscono un clima sereno in negoziati che si pongano il tema del futuro di Gaza e della Cisgiordania.

 

 

Era praticamente scontato che una nuova presidenza di Donald Trump avrebbe messo a dura prova il sistema delle relazioni internazionali, già gravato dalle crisi e dai conflitti in corso, e in particolar modo posto in seria difficoltà stati europei e istituzioni comunitarie. L’Unione Europea, in tale contesto, giace in una condizione ormai cronica di semi-immobilismo, oltre che di mancanza di reale capacità di agire da protagonista nello scenario geopolitico che la circonda. Poco di più, e a fatica, riescono a fare i singoli paesi, contati in ogni caso sulle dita di una mano. Il nostro continente si troverà apertamente sfidato da Washington, sia in materia di governance dei rapporti commerciali, che nelle questioni geopolitiche e di sicurezza. Sfortunatamente, benché tale scenario fosse ampiamente prevedibile, poco si è fatto fino ad ora, al di qua dell’Atlantico, per esservi preparati. La debolezza dell’Europa è resa ancor più grave dall’instabilità che pervade le due storiche nazioni guida dell’Unione, Francia e Germania. Con Parigi in crisi istituzionale da oltre sei mesi e in mano a governi di minoranza, chissà fino a quanto tempo, e Berlino alle prese con elezioni legislative da cui rischia di emergere una complicata coalizione di governo a guida CDU, incalzata da un’agguerrita opposizione di estrema destra targata AFD, il capitale politico da mettere sul piatto per un’efficace azione esterna e per una riforma delle istituzioni comunitarie sembra essere quanto mai scarso. Difficilmente basterà poi quello della neonata Commissione a guida Von der Leyen, la quale detiene ora una posizione più forte che nel passato mandato, ma pur sempre deve fare i conti con le esigenze dei governi, oltre che con la litigiosità della precaria coalizione partitica che la sostiene. Tanto più che l’Unione rimane insidiata dalle spinte centrifughe costituite dai movimenti nazional-sovranisti, ostili a Bruxelles e simpatizzanti per la Russia, oltre che per Trump, ora alla guida di Ungheria e Slovacchia, con un saldo piede nell’esecutivo olandese e in procinto di assumere la direzione di quello di Vienna. Menzione a parte la merita la nostra Giorgia Meloni, che da urlante sovranista filo-putiniana è diventata in pochi anni autorevole personalità di governo, fino a rappresentare il trait d’union tra l’establishment europeo e i governi di destra ostili ad esso. Tuttavia, anche l’aspirazione italiana a vedere in lei la mediatrice tra Trump e l’UE appare vagamente illusoria, data l’ostentata vicinanza della premier italiana al tycoon newyorkese e la plausibile ritrosia degli altri leader a delegarle un così cruciale ruolo di leadership, che, nei timori dei colleghi, potrebbe essere utilizzato per ottenere vantaggi relativi per sé stessa e per il suo paese, e che necessiterebbe perciò di un grado di fiducia reciproca ben superiore a quello reale. I nodi verranno in ogni caso presto al pettine, data la volontà, più volte espressa dal nuovo inquilino della Casa Bianca, di punire l’Unione Europea con i già citati dazi doganali, al fine di riequilibrare il pesante deficit commerciale di beni verso di essa, pari a oltre 150 miliardi di dollari l’anno, sebbene in fatto di servizi Washington sia in netto surplus. Di fronte a tale minaccia, le posizioni nel vecchio continente si sono per ora divise tra chi ha espresso fermezza, almeno a parole, come la Lagarde, alcune voci della Commissione e i governi francese e spagnolo, chi ha mantenuto un basso profilo, come la presidente Von der Leyen e i vertici tedeschi, e chi si sta mostrando ben disposto a venire incontro alle richieste trumpiane, a cominciare dall’esecutivo di Roma, spalleggiato da altri stati, soprattutto del nord e dell’est Europa. Di sicuro, al momento del dunque, si osserverà se i ventisette sapranno mantenere un fronte compatto, tanto più che le trattative in fatto di commercio internazionale sono di competenza della Commissione, oppure se prevarranno i tentativi di correre al cospetto del presidente americano per negoziare trattamenti di favore per il proprio paese, prevedibilmente da questi incoraggiati, a costo di pregiudicare la capacità negoziale dell’Unione.

 

L’impressione, riscontrata anche in occasione del vertice di Bruxelles del 3 Febbraio, è che i leader europei non abbiano una chiara idea di come muoversi, e aspettino di capire quale sarà la mossa di Trump, il quale, da parte sua, per ora non ha dato seguito alle richieste di incontro recapitategli da Von der Leyen e dal presidente del Consiglio Europeo, Antonio Costa. Come ha riferito un diplomatico europeo a David Carretta, citato sul suo Mattinale, su Trump l’Ue sembra essere in “uno stato di negazione”, incapace di accettare il fatto che “con lui tutto è possibile, bisogna prepararsi al peggio e smettere di sperare nel meglio”. I rapporti con gli USA saranno messi alla prova anche sotto l’aspetto geopolitico, a cominciare dalle idee della nuova amministrazione su come debba essere finalizzata una trattativa con Mosca per un cessate il fuoco in Ucraina e dalla già annunciata intimazione agli alleati europei ad aumentare notevolmente le loro spese per la difesa. Sebbene non sia chiaro quale sarà il punto di caduta nei colloqui con Putin, appare evidente che le voci degli europei avranno poco spazio, come del resto anche quella di Kiev, ma rimane invece probabile che a essi venga richiesto di mettere sul piatto denari e soldati, per garantire il necessario supporto all’Ucraina e per fornire un’adeguata forza d’interposizione, quando mai si arrivasse ad un accordo. In fatto di budget per la difesa, i ventisette continuano invece a discutere sulle modalità con cui finanziarne l’aumento, posto che la sua imprescindibilità è stata da tutti riconosciuta da tempo, almeno a parole. Tra chi, come molti governi del sud e dell’est Europa, invocano appositi eurobond, e chi, come invece fanno i paesi “frugali” del nord, tra cui la Germania, ribadiscono che i fondi vanno trovati tra quelli già a disposizione, la Commissione ha annunciato di voler presentare un libro bianco per la difesa entro fine marzo, sulla base del quale si spera di poter arrivare ad una decisione. L’invocazione delle circostanze eccezionali, causate dalla complicata situazione geopolitica, al fine di permettere agli stati di derogare al Patto di Stabilità, sembra poter rappresentare il plausibile punto di caduta della trattativa, a sentire i rumours provenienti da Bruxelles. I due dossier, peraltro, risultano l’un l’altro legati, data l’impellente necessità per l’UE, come sopra ricordato, di incrementare il proprio apparato militare, e renderlo maggiormente adeguato all’attuale scenario internazionale. Rimane ciò nonostante l’interrogativo, a fronte di un ipotetico via libera ai programmi di spesa per il settore difesa, verso quali players industriali debbano essere indirizzate le commesse. Sebbene infatti da più parti si prefiguri l’opportunità di rifornirsi presso aziende americane, in modo da offrire a Trump la riduzione del surplus commerciale europeo, lo sviluppo di un forte e fiorente mercato delle attrezzature militari è uno dei punti cardine delle attuali proposte di riforma del sistema continentale, prima tra tutte quella esposta lo scorso anno dall’ex premier italiano Mario Draghi. Appare del resto ineludibile, almeno nel medio periodo, una svolta nelle politiche europee, improntata al raggiungimento di maggiore capacità militare, autonomia strategica e rapidità decisionale, ai quali scopi l’evoluzione dell’apparato produttivo della difesa verso un sistema più integrato e abile a competere con i giganti americani, non sembra secondaria. Senza dimenticare che un tale programma garantirebbe anche enormi investimenti industriali, in un settore ad alto valore aggiunto, i quali contribuirebbero in misura importante ad una crescita economica che, in Europa, si attesta quasi sempre su livelli insufficienti. L’acquisizione di maggiore soggettività geopolitica e di una più alta autonomia dall’alleato americano in materia di difesa, oltre che obiettivi da perseguire di per sé, sarebbero fonte di una migliore posizione negoziale nei confronti di Washington, in qualsiasi campo, da quello commerciale alla difesa della sovranità danese sulla Groenlandia, poiché lascerebbero meno spazio ad un amministrazione spregiudicata, come è quella attuale, per porre in essere ricatti politici utilizzando il proprio ruolo di egemone e garante della sicurezza europea. Tali scopi rimangono naturalmente di non facile raggiungimento, poiché comporterebbero un rapido cambio di paradigma nella mentalità delle classi dirigenti e dei popoli europei, ma è possibile che la nuova presidenza Trump ne faciliti l’adozione.

 

Quel che appare chiaro, dopo le prime settimane di permanenza di Donald Trump alla Casa Bianca, è che siamo di fronte ad una forte accelerazione del processo di transizione da un sistema internazionale unipolare a egemonia americana ad un altro ancora in via di costituzione, tendenzialmente multipolare, benché asimmetrico, nel quale gli USA potrebbero voler rinunciare al costoso e pesante fardello del ruolo di reggitore dell’ordine globale. Processo in corso da almeno quindici anni, iniziato successivamente al disastro dell’avventura irachena dell’era di George W. Bush e alla grande crisi del 2008-2009, che Washington, volente o nolente, si trova costretta a portare a compimento, causa riconoscimento di sovraestensione strategica e “stanchezza imperiale” della sua popolazione. Ciò non significa, ad ogni modo, una virata verso un improbabile isolazionismo, ma piuttosto un approccio più decisamente unilaterale al sistema internazionale, mirato a salvaguardare soprattutto, se non unicamente, i propri interessi, almeno nella versione impersonata dall’attuale Partito Repubblicano a forti tinte MAGA. Anche a costo di allentare le storiche alleanze e di giungere a stipulare compromessi con altre potenze, sulla base dei rispettivi interessi nazionali e di un realismo svincolato da motivazioni ideali e ideologiche. Logico pensare, quando parlando dei competitors, alla Russia e, ancor più, alla Cina. Il disegno che si propone l’amministrazione Trump, condiviso, secondo diversi analisti, dagli apparati federali, sarebbe quello di recuperare il rapporto con la prima, per volgerla contro la seconda, in una riedizione ribaltata dell’abile mossa strategica, targata Nixon e Kissinger, dei primi anni ’70, con cui gli USA giocarono Pechino contro Mosca, per poi venire a patti anche con questa (Helsinki 1975) da una posizione da maggior forza. Manovra non semplice e di non breve realizzazione, che dovrebbe prima passare per una risoluzione del conflitto ucraino, possibilmente senza darla vinta a Putin, e per una riduzione delle tensioni in Europa Orientale. Rimane in ogni caso evidente che la presente e futura contrapposizione geopolitica di Washington è e sarà contro il colosso cinese, per quanto anch’esso sia afflitto da serie criticità economico-sociali interne. E’ con l’impero di mezzo che gli USA dovranno misurare la propria forza militare e tecnologica, anche alla luce della crescita del livello qualitativo dei prodotti dell’industria cinese e dei sorprendenti progressi di tale paese nei settori delle tecnologie avanzate, ultimo dei quali quello legato all’intelligenza artificiale (AI), come reso evidente dall’enorme successo, a fronte di investimenti apparentemente irrisori, dell’applicazione DeepSeek. La rivalità tra le due potenze rischia peraltro di mettere in secondo piano gli sforzi collettivi su questioni di carattere globale, come il contrasto al global warming e il tentativo di mantenere sotto un minimo controllo lo sviluppo della stessa AI, anche e soprattutto a fini bellici. Uno dei grandi interrogativi riguarda la natura stabile o provvisoria dell’attuale svolta impressa da Trump alla politica estera americana, per la cui risposta bisognerà attenderne gli sviluppi, gli esiti e l’emergere dei soggetti che si incaricheranno di proseguirla al termine del suo mandato, elezioni permettendo. Tuttavia, il parziale ritiro degli USA dal ruolo egemonico, come già detto, è fenomeno strutturale, sebbene si manifesti in modalità differenti, a seconda della parte politica al potere, variando tra l’unilateralismo di scuola jacksoniana dei Repubblicani MAGA e un atteggiamento più diplomatico dei Democratici, comunque restii a impegnarsi militarmente in giro per il mondo, o anche solo a minacciare di farlo, come si è potuto constatare con Biden e con lo stesso Obama. Non dovrebbe comunque essere data per scontato il successo del nuovo corso avviato dal tycoon, sia a causa delle divergenze tra le diverse anime del blocco che lo sostiene, sia per il carattere erratico, impulsivo e litigioso che egli rischia di imprimere alla sua amministrazione, come già successo nella precedente esperienza alla Casa Bianca. Non si può neppure escludere che la postura aggressiva degli USA, invece di riportare all’ordine gli alleati e dissuadere i rivali, finisca col compromettere la fiducia dei partners o trascinare la superpotenza in nuove guerre, proprio mentre l’alto tasso di discordia interna, da Trump ulteriormente esacerbato, continua a minare la coesione della popolazione. Gli anni ’20 di questo secolo si preannunciano, ad ogni modo, particolarmente movimentati, e i soggetti che non sapranno adattarsi al cambiamento rischiano di patirne le conseguenze. Anche, e soprattutto, in Europa, vaso di coccio tra vasi di ferro, siamo avvisati.

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