Geopolitica
I luoghi comuni e la verità sullo scontro delle civiltà
Benché abbastanza frequente, resta sempre sorprendente constatare che la ricezione di una locuzione, di un modo di dire, di un libro addirittura che sono passati nel comune sentire o nel chiacchiericcio pubblico senza una verifica personale, sia avvenuta al di là o addirittura contro la loro vera portata semantica, il loro vero significato. Nella società del tritatutto mediatico non si ha sempre il tempo né tantomeno la voglia di mettere a fuoco, con sforzo individuale, una nozione o un concetto, soprattutto quando ci si lascia prendere la mano dal desiderio di aderire a uno schieramento, venendo a rinforzo di ciò che è sulla bocca dei nostri sodali o viceversa a discredito di ciò che è sostenuto dai nostri avversari. Tra chi consente o tra chi dissente si agisce spesso da compari, ci si strizza l’occhio e sovente si finisce assieme nelle trappole e nelle mine che sono sparse nei campi del sapere come della polemica politica più spicciola. I nostri talk show televisivi sono i padiglioni di una gigantesca Expo di questo modo di procedere.
Già Flaubert si era occupato con acre ironia del fenomeno. E ne aveva tentato un centone, un “Dizionario dei luoghi comuni” che intendeva pubblicare alla fine della saga satirica, quello sfottò dell’Enciclopedia che è “Bouvard e Pécuchet”. Flaubert ne aveva azzardato anche una provvisoria e accennata tassonomia, distinguendo al suo interno i luoghi comuni, le sentenze moraleggianti idiote, i truismi, le massime generalizzanti, le idee chic, le idee ricevute (idées reçues), gli stereotipi, i cliché ecc., a significare che il fenomeno era già dirompente nella sua epoca, e da lui sottolineato con allarme nel momento in cui la società del suo tempo, ricevuti i Lumi dal secolo precedente, si lanciava di gran carriera verso i movimenti espansivi dell’economia borghese trionfante che amplificava in scala “industriale” tutto, le merci come le idee ricevute, i prodotti coloniali come le leggende metropolitane.
Figurarsi a che punto siamo pervenuti oggi che il fenomeno è planetario e siamo passati dal chiacchiericcio sotto le vetrate dei Passages parigini al villaggio globale del web e alla “cultura voyager”, quel mezzo-sapere che sta segnando il sorgere anche di un preciso ceto politico italiano e che è un misto di meraviglioso, di curioso, di suggestivo, di singolare, di inatteso, di sorprendente, di mistero, di complotto, quindi, sotto questo riguardo, a suo modo, anche una gigantesca sconfessione saccente dei luoghi comuni, che sarebbero quelli degli altri non i propri.
Orbene, la nostra cultura personale non è tutta e non è sempre di prima mano. Non può esserlo. Fatalmente alcune cose le apprendiamo con sforzo e altre, per pigrizia o per resa intellettuale, le prendiamo come oro colato o come idee ricevute o soltanto provvisoriamente con il beneficio di inventario in attesa di successivi approfondimenti. Accade così che la “società liquida” la diamo tutti per scontata con strizzatine d’occhio, quella “postmoderna” è un passepartout che apre tutte le porte delle spiegazioni, mentre di fronte allo “scontro delle civiltà” generalmente facciamo tutti un passo indietro inorriditi.
Su quest’ultima locuzione si è soffermato il dissenso e la preoccupazione di chi anela a una società multiculturale, multireligiosa e multietnica e con espressioni come “non vorremmo mica credere allo scontro di civiltà di Huntington” ha inteso erigere un fuoco di sbarramento preventivo, dando per scontato che tale scontro fosse lo scenario desiderato dallo studioso americano, e non una sua ipotesi di studio, una predizione classica o nelle migliori delle interpretazioni un caveat, in ogni caso non un incitamento allo scontro.
In realtà, nella visione di Samuel P. Huntington lo scontro di civiltà non era un “faciendum” ma una descrizione di ciò che è in atto oppure una predizione ragionevole di ciò che potrebbe essere. Un forecast, una previsione, una proiezione, non un auspicio. Un evento che ogni studioso sociale o di geopolitica, come è nel suo caso, ha il diritto/dovere di enucleare e porre in evidenza alla comunità scientifica come a chiunque sia interessato a conoscere, anche attraverso gli scenari predittivi, il nostro futuro prossimo venturo.
Alcuni fenomeni storici vanno al di là delle nostre intenzioni. A questo riguardo anche il concetto di “lotta di classe” per esempio è stato sottoposto a una torsione interpretativa. Molti la rimproveravano ai fondatori del comunismo, come se fosse una forma di conflitto da essi auspicata. Ma la lotta di classe c’era, che costoro la volessero o meno, dai tempi dei patrizi e plebei: non era un’ubbia di Marx. Quest’ultimo in realtà sia la descriveva sia la preconizzava. Prevedeva cioè, sulla scorta del suo hegelismo di fondo (la sua vera e unica “scienza”), il passaggio – dopo l’urto rivoluzionario, elemento soggettivo enfatizzato più che altro da Lenin, o piuttosto dopo il maturarsi interno oggettivo delle contraddizioni capitalistiche – a un nuovo assetto sociale. Qui giunti, dopo una breve dittatura del proletariato, si sarebbe passati dal regno della necessità a quello della libertà e sarebbe finita la preistoria e iniziata la storia.
Huntington reagiva nel suo libro del 1996 (“Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”) a un’altra fine, quella della storia addirittura, preconizzata da Francis Fukuyama (“La fine della storia e l’ultimo uomo”, Milano, Rizzoli, 1992) e avvertiva che la nostra vicenda collettiva lungi dal terminare avrebbe dato luogo quanto meno a un capitolo finale: lo scontro delle civiltà appunto. Huntington descriveva ciò che era in atto o che sarebbe con tutta probabilità successo, argomentando che se prima della caduta del Muro il crinale divisorio dei conflitti planetari era la classe e quindi il conflitto Est-Ovest, ovvero comunismo contro capitalismo, dopo la caduta, la linea di faglia si spostava sui popoli e prevalentemente sul confine Nord-Sud, pur tenendo conto della grande area asiatica. «Gli scontri più pericolosi del futuro – sintetizzava Huntington – nasceranno probabilmente tra l’arroganza occidentale, l’intolleranza islamica e l’intraprendenza sinica».
A comprova della sua serietà di studioso, in più punti Huntington sottolinea che l’Occidente e l’America in particolare, tendono a un disegno universalistico, dal resto del mondo chiamato più propriamente “imperialismo”; a uno sforzo “missionario” di convertire i popoli al proprio credo politico-economico-ideologico; a promuovere attraverso il Fondo monetario internazionale e altri organismi i propri interessi economici e a imporre alle altre nazioni le politiche economiche che ritengono più appropriate. Non tace ancora contro l’ipocrisia dell’Occidente sulla politica dei due pesi e due misure e dei distinguo nel predicare la democrazia come valore universale ma non se questa porta poi al potere i fondamentalisti islamici. Mentre la violazione dei diritti umani viene rimproverata alla Cina ma non all’Arabia Saudita per esempio. E così via: si prenda il libro e si verifichi.
Si consideri infine se non ci avesse “pigliato” con questo scenario appena delineato o se vedesse nello “scontro delle civiltà” altro di ciò che era nelle pieghe della realtà e negli sviluppi concreti della storia recente.
E infatti qui siamo oggi. O no?
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