Geopolitica
Guerra, pace, armi e libertà. Il complicato rapporto della politica italiana con la realtà
Con Rearm EU l’Europa tenta di adeguarsi al nuovo scenario geopolitico. L’esercito comune non è per l’oggi, ma non è un motivo per stare fermi. Il dibattito italiano sulla difesa è sconcertante. Servono leader che guidino, non che seguano.
Nelle ultime settimane ha preso forma, talvolta in termini grotteschi, un rovente dibattito sulle politiche di difesa in Europa, e in particolare sull’eventualità di mettere in atto un imponente programma di nuovi investimenti nel settore militare. L’origine della querelle è stata, come noto, l’annuncio, da parte della Presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen, di un pacchetto di misure di governance economica, tese a favorire e facilitare l’ammodernamento e il miglioramento delle forze armate dei paesi dell’UE. Da parte di diversi e variegati soggetti, nell’Unione, e in particolare in Italia, si è sostenuto l’inutilità, o addirittura la pericolosità di una tale iniziativa, la quale metterebbe secondo loro a rischio il welfare degli stati, la sostenibilità del loro debito pubblico, e causerebbe una mutazione in senso “bellicista” (sic!) della natura dell’organizzazione comunitaria. Politici e giornalisti (spesso politicizzati) di destra e sinistra hanno accusato l’UE di voler buttare via i soldi dei cittadini in armi, ma di non aver mai permesso gli sforamenti dei conti pubblici per pensioni, sanità, lavoro, e, ovviamente, di essere diventato un soggetto guerrafondaio e pericoloso per la pace mondiale. I più sofisticati invece, pur comprendendo la necessità di investire nella difesa, hanno sottolineato, con postura pensosa, ora che un simile impegno rischia di gravare sui già pesanti debiti nazionali (di qualche stato in particolare), ora invece che in tal modo si andrebbero a rinforzare gli eserciti nazionali, in luogo di fare l’esercito europeo, qualunque cosa esso significhi. E poi, Rearm EU, ma che brutta terminologia. Suona proprio male, che poi i cittadini pensano che stiamo davvero incrementando i nostri apparati militari! Ma per fare che, insomma? Non si era detto che con l’UE è finito il tempo delle guerre?
Ma quindi, per quale caspita motivo si è iniziato a parlare di difesa, armi, carri armati, droni e questa cosa denominata ombrello nucleare? Qui in Europa si vive bene, si fanno gli aperitivi, i weekend lunghi, ci si azzuffa sui social network per l’ultima dichiarazione dell’ultimo dei politicanti, come per il Festival di Sanremo e per il rigore non visto dal Var. Che cosa potrebbe mai succedere, perché si renda necessario pensare all’eventualità di doversi difendere con le armi, o anche solo di dover far credere qualcuno che si sia disposti a farlo? In fondo, c’è in corso solo una guerra ai confini dell’UE. La guerra più devastante nella storia del nostro continente dai tempi della seconda guerra mondiale, iniziata con un’aggressione da parte di una potenza nucleare, a noi europei dichiaratamente ostile, ai danni di una nazione notevolmente più piccola, colpevole di voler uscire dalla sua sfera di influenza per legarsi, in vari modi, a noi. Poi, va beh, i leader di quella potenza nucleare inondano a giorni alterni agenzie di stampa, schermi televisivi e pagine social, di recriminazioni, accuse e minacce di distruzione atomica le nostre opinioni pubbliche e i nostri governi, colpevoli di aver supportato quel paese aggredito con aiuti umanitari, finanziari e militari. In quest’ultimo settore sempre con moderazione, calma e prudenza, peraltro. E poi, quel piccolo dettaglio di una nuova amministrazione USA, la quale, gettando nel gabinetto ottantacinque anni di amicizia, alleanza e difesa, almeno nominalmente, del valore della libertà nel mondo, ha iniziato a dire che, beh, Putin è un tipo in gamba, Zelensky è un dittatore guerrafondaio, l’Europa non dovrebbe essere difesa militarmente se non paga abbastanza, e, tanto per non farci mancare nulla, la Groenlandia dovrà diventare il cinquantunesimo stato americano (o il cinquantaduesimo, dopo il Canada, of course), che la Danimarca lo voglia o no (per la popolazione della grande isola in cima all’Atlantico ha già deciso Trump che lo vogliono). Che cosa potrebbe mai andare storto?
Fuor d’ironia, è piuttosto sconcertante assistere al dibattito che, soprattutto in Italia, si è sviluppato a seguito delle proposte della Commissione Europea. Come se non ci si rendesse conto che il mondo sta conoscendo un’impressionante accelerazione del mutamento del sistema internazionale e della politica estera delle maggiori potenze globali. L’esigenza di garantire efficacemente la sicurezza e la difesa del continente europeo non pare essere considerata, dalla maggioranza dei nostri politici, un obiettivo di primaria importanza. C’è sempre una motivazione per metterla in secondo piano, rispetto a qualcos’altro. E’ bello che destra e sinistra rivendichino di non voler sacrificare la spesa in sanità, o quella in infrastrutture, o ancora i fondi di coesione regionale, al fine di aumentare il budget militare, però lo potrebbero dire con maggiore autorevolezza se non fossero responsabili, ognuno per la sua parte, di anni di insufficiente finanziamento di tali comparti, e di gravi inadempienze nell’utilizzo dei fondi europei. Andrebbe invece ricordato che la proposta di scorporo, per cinque anni, fino a un ulteriore 1,5% di spese in difesa, dal calcolo del rapporto deficit/PIL considerato dalle procedure di controllo europeo sui bilanci nazionali, è proprio finalizzata a evitare che, per far fronte a tali spese, si debba tagliare la carne viva altrove. Naturalmente, ulteriori spese militari avrebbero un impatto negativo sui debiti pubblici, alcuni di questi, come il nostro, già gravati da un peso non indifferente, ma ai mercati non sfuggirebbe né la finalità di tali spese, né la netta prevalenza del procurement sulle altre tipologie di uscite, la quale ha il pregio di attivare notevoli investimenti industriali, a loro volta prodromi di crescita economica. Sempre che gli apparati industriali dei paesi della vecchia Europa siano in grado di intercettarli, e che le istituzioni politiche, di ogni grado, li supportino a farlo, in modo che un tale flusso di risorse non debba disperdersi fuori dai confini continentali. Un trionfo delle forze politiche di rito keynesiano, si direbbe, presenti soprattutto a sinistra, le quali però, curiosamente, evitano di schiacciare la palla così ben alzata sopra la rete. Di certo, nel medio-lungo periodo, non potrebbe evitarsi un consolidamento dei bilanci degli stati, ma a tal fine le classi politiche dovrebbero innanzitutto comprendere che il tempo degli sprechi e delle regalie fiscali ad ampi settori di popolazione non sono più sostenibili, e non hanno per la verità nulla a che fare con le politiche di welfare. In Italia, quota 100, il cosiddetto superbonus e altre generose esenzioni dalle normali aliquote irpef, sono esempio di misure dispendiose e regressive, e non depongono a favore di chi le ha implementate.
Sorprendentemente, ma fino a un certo punto, la destra al governo, di fronte al Rearm EU di Ursula Von der Leyen, storce il naso, sbuffa e fornisce altri segni di insofferenza, secondo le tipiche manifestazioni psicosomatiche della nostra Presidente del Consiglio Meloni, quando non urla contro il furto di risorse agli italiani, e insieme contro l’Europa guerrafondaia (sic!), come nel caso di Salvini. La prima, evidentemente immemore delle reiterate invocazioni del governo da essa presieduto, per il tramite anche del ministro Giorgetti (o del suo gemello europeista, così diverso dal piazzista delle ultime settimane), proprio al fine di ottenere il citato scorporo dal deficit, e il secondo, folgorato sulla via del pacifismo e della disciplina fiscale dopo anni di campagne per la spesa incontrollata, la licenza di uccidere ai benzinai e le foto con in braccio i fucili mitragliatori, segnalano, pur con diversa gradazione, l’opposizione alla proposta della tedesca. E dire che la destra, compresa quella italiana, è sempre stata tutto fuorché ghandiana, e qualcuno giustamente fa notare che l’incremento delle spese per la difesa è caldamente richiesto (eufemismo) niente poco di meno che da Donald Trump in persona, nuovo idolo dei sovranisti di tutto il globo terracqueo (Meloni, semicit.). Ma, evidentemente, gli umori di un elettorato storicamente restio ad accettare impegni finanziari non destinati direttamente a foraggiarne un qualche gruppo sociale, e l’abitudine italica al ruolo di free rider nel mercato globale della sicurezza hanno il loro peso. E poi, naturalmente, mica si può applaudire e accogliere un’iniziativa così importante di quei burocrati della Commissione, tanto più in un settore dove il Bel Paese, ahinoi, sconta pesanti mancanze. Per fare un favore alla Germania poi, che ora può spendere quanto vuole e più di noi, e pazienza se per quindici anni l’abbiamo accusata di non spendere abbastanza. Forse pensare che il governo italiano, e in particolare la nostra premier, nella particolare condizione di difficoltà in cui versano, a causa della necessità di camminare su un filo teso da un lato all’altro dell’Atlantico, tendano a limitarsi a fare gli stopper di ogni qualsivoglia iniziativa europea per non compromettersi con il nuovo amico americano potrebbe essere considerata un’esagerazione, ma in fondo, sebbene a pensar male si faccia peccato, il più delle volte ci si azzecca, diceva qualcuno. E così, come ha spiegato nei discorsi parlamentari di questa settimana la premier, la necessità di riarmo è reale, e l’Italia non si tirerà indietro, ma sovranamente e nella misura in cui più ci aggraderà, non perché ce lo dicono da Bruxelles, perbacco. Si vedranno i fatti, insomma, dato che la Lega le ha già inviato un esplicito altolà in proposito.
Gli stessi dubbi (diciamo così) sul Rearm EU che attanagliano il governo, sono peraltro ben presenti anche tra le fila dell’opposizione, in una curiosa unità nazionale del mugugno e del ditino alzato contro l’iniziativa comunitaria. Anche a sinistra, come già detto, numerose voci richiamano al pericolo di penalizzare il welfare, o accrescere il debito pubblico, per far posto agli armamenti. Per non parlare poi dei settori più esplicitamente pacifisti, così ben rappresentati nel M5S e in AVS, ma anche nel PD, che in nome dell’opposizione alla guerra e a qualsiasi utilizzo della forza armata, ripudiano per principio qualsiasi incremento di spese militari, magari citando, a sproposito, qualche slogan della Resistenza. La resistenza a Putin, nel caso fosse necessario, la si farà invece con le belle parole e le bandiere arcobaleno, confidando nella di lui clemenza. Gli oppositori più sofisticati, invece, riconoscono la necessità di adeguare alla nuova situazione geopolitica le forze militari europee, ma solamente a condizione della creazione di un esercito comune, facente capo all’UE. Sul che cosa significhi la locuzione “esercito comune europeo”, sul tema di chi sarebbe destinato a dirigerlo, e soprattutto sulla questione del legame con un attualmente inesistente autorità politica comunitaria, dotata di potere di direzione della politica estera e di comando di forze armate plurinazionali in caso di conflitto, nulla è dato sapersi. Una posizione velleitaria, tipicamente espressa dalla segretaria Elly Schlein, che ritiene evidentemente di occultare la sua inadeguatezza di fronte alle odierne e drammatiche sfide, agitando bandierine blu a dodici stelle e citando il manifesto di Ventotene (citato quanto mai a sproposito, da sinistra e da destra, come si è visto questa settimana). Senza dimenticare, sempre nella narrativa della segretaria, che il piano europeo comunque è insufficiente, perché, oltre a favorire il riarmo di eserciti nazionali (giammai, che si rischia di rifarsi la guerra tra di noi!), anche nella parte più comunitaria, facente capo ai fondi cosiddetti SAFE, sarebbe basato su prestiti, non su sovvenzioni (!), come fu invece, in buona misura, il benemerito e mitologico Next Generation EU. Andare a spiegare che, in ogni caso, i soldi non si fabbricano dal nulla, e che anche i famosi grants di cui abbiamo beneficiato con il PNRR sono stati ottenuti facendo debito (sì, europeo), che dovrà comunque essere prima o poi restituito, verosimilmente tramite fondi tratti dal prossimo bilancio pluriennale comunitario (che è alimentato per la quasi totalità dai contributi nazionali), è probabilmente inutile. A coronamento di questi sforzi retorico-dialettici e di ingegneria finanziaria per disperati (cit. Mario Seminerio), il PD è riuscito nell’impresa di votare sul pacchetto al Parlamento Europeo in contrasto con la totalità del gruppo PSE, e spaccandosi esattamente a metà al suo interno (ma le posizioni diverse per poco non sono state tre). La destra italiana, per carità, non ha fatto molto di diverso, con posizioni opposte tra FDI-FI e Lega. Questo evidentemente è quel che passa il convento.
Logica vorrebbe che, nell’anno domini 2025, di fronte al complicato e grave scenario internazionale in essere, forze politiche e voci autorevoli della società civile, mostrassero un minimo di pragmatismo e di senso della realtà, come scrive Angelo Panebianco sul Corriere della Sera. Lo facciano per interesse nazionale, la destra, o per rendere più forte e autorevole l’Europa nel mondo, la sinistra, ma lo facciano. E’ profondamente ingenuo, e finanche pericoloso, continuare a sostenere, come fa qualcuno, che la pace non si mantiene con la dissuasione (o deterrenza, termine che di solito piace di più) strategica, ma solo con la diplomazia. I romani, come noto, dicevano si vis pacem para bellum, con buona pace degli intellettuali alla Tomaso Montanari, che lo capovolgono sostituendo la parola bellum con la ripetizione di pacem (la saggezza dei detti latini è nota, ribaltarli è un esercizio abbastanza ridicolo). Come fa notare sempre il politologo bolognese, gli ottant’anni di pace sostanziale tra gli stati europei, dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale, non sono dipesi dal fatto che improvvisamente siamo diventati tutti pacifisti, dopo il 1945, ma dalla suddivisione in blocchi contrapposti, guidati e controllati da due superpotenze esterne al continente, che hanno imposto la coesione al loro interno e hanno determinato la stabilità del sistema, anche per il tramite della deterrenza nucleare, fondata sul principio MAD (Mutually Assured Destruction). La realtà, ci si rende conto difficile da accettare per molti, è che la nascita delle comunità europee nei primi anni ’50, oltre che naturalmente della NATO, deve molto agli USA, artefici in pochi anni, dal 1945, della più grande e riuscita opera di architettura complessa di un sistema internazionale mai vista nella storia, che è giunta, con qualche variazione, fino ai nostri giorni. Il dubbio è se sopravviverà alla seconda presidenza Trump. Il che ci riporta nuovamente alla questione centrale di oggi: che fare? Una classe politica minimamente responsabile partirebbe dall’osservazione della realtà, per riconoscere un problema da risolvere, e poi individuare le possibili azioni da intraprendere, che dovrebbero essere concretamente attuabili, non mere proclamazioni di principi. Infine, a tale scopo si dovrebbe provvedere a ricercare risorse finanziarie e supporto normativo. La realtà del sistema geopolitico segnala, sfortunatamente i seguenti fenomeni: un aumento del tasso di conflittualità tra gli stati, anche nel continente europeo; una postura aggressiva e bellicosa della Russia, diretta in primis contro l’Ucraina, ma, in seconda battuta, potenzialmente anche contro l’Europa (in vari modi, non necessariamente con la guerra generale), se per Mosca fosse conveniente; un atteggiamento disinteressato, quando non ostile, della nuova amministrazione Trump verso l’UE e i problemi della sua sicurezza. Il problema conseguente a tale combinazione di fattori è, con tutta evidenza, un pericoloso possibile deficit nella capacità dell’Europa di garantire la propria difesa. Le possibili iniziative da attuare, al fine di rimuovere tali carenze, pertanto, dovrebbero ricadere nell’ambito del rafforzamento delle proprie capacità militari, non in quello della spesa sociale, o del Green deal. Ma come si dovrebbero concretizzare, nella pratica, e con quali risorse?
Le politiche di difesa e sicurezza, nell’architettura europea attuale, sono di competenza nazionale. Da qui è obbligatorio partire. Vi sono meccanismi di collaborazione, a cominciare dalle cooperazioni rafforzate PESCO, iniziative comunitarie e un Agenzia Europea per la Difesa, che svolge funzioni di supporto, ma la direzione politica e le scelte strategiche sono in capo, come per la politica estera, ai governi nazionali. Pensare di cambiare, in tempi brevi, tale impostazione, per evolvere verso un esercito comune, quando, da una parte, i paesi europei mantengono idee e esigenze diverse tra loro riguardo al tema della sicurezza, e dall’altra, il controllo sulle forze armate rimane una prerogativa cruciale per la sovranità politica, è pura illusione. Di conseguenza, il rafforzamento delle forze armate nazionali e delle capacità tecnico-logistiche ad esse legate, risulta essere l’unica strada percorribile in tempi brevi. Ciò non significa che si debba rinunciare a mettere in atto, anche nel prossimo futuro, ulteriori iniziative di integrazione, né che, già ora, non si possano adottare decisioni improntate a forme di cooperazione tra diversi paesi. Il pacchetto di misure proposte da Ursula Von der Leyen, ora ridenominato Readiness 2030, mira a facilitare, tramite diversi strumenti, lo stanziamento di risorse da parte dei governi nazionali, per giungere agli obiettivi sopra enunciati. Si dovrebbe ricordare che esso non è affatto un’imposizione di spesa nei confronti degli stati, ma una semplice facoltà, peraltro invocata per anni da vari governi, primo dei quali il nostro, come già detto. Resta il fatto che, qualora tale facoltà non fosse esercitata, e qualora l’operazione di ammodernamento e incremento delle capacità militari non fosse implementata, i governi inadempienti porterebbero su di sé la responsabilità politica di mettere a rischio la sicurezza dei propri territori (visto che va di moda la difesa dei confini, almeno quando si tratta di barconi di immigrati) e delle proprie popolazioni. Perché, se è pur vero che lo shock impresso da Trump al sistema internazionale potrebbe, forse, ricondursi a scenari maggiormente noti e tranquillizzanti in futuro, per rilassamento del tycoon o per successione alla Casa Bianca non favorevole al suo partito, allo stato dei fatti ciò non è affatto scontato, e, per la verità, neppure probabile. Anche nel caso di una futura presidenza democratica negli USA, è ipotizzabile che l’attenzione di Washington sarà comunque maggiormente dedicata alla competizione con la Cina e allo scenario Indo-Pacifico. Spera il meglio, ma preparati al peggio, recita un altro noto adagio.
Ragionando sulla quantità e sulla tipologia degli interventi da attuare, non si può non fare riferimento a quella che è la principale minaccia odierna alla sicurezza europea, sebbene non sia l’unica, ovvero la politica revisionista e aggressiva della Federazione Russa. Una politica che non si basa soltanto sulla forza militare, ma che fa perno anche su quella che viene ormai comunemente denominata guerra ibrida, consistente in propaganda, disinformazione, minacce verbali, destabilizzazione del fronte interno dei paesi europei, azioni ostili in ambito cyber (vd. Estonia 2007), sabotaggi a infrastrutture critiche (vd. Mar Baltico). In particolare, sebbene la Russia non abbia capacità militari paragonabili a quelle, ad esempio, degli USA, e non goda di un livello di sviluppo economico e tecnologico confrontabile con quello dell’Europa, essa può comunque giovarsi, rispetto ai nostri paesi, di una maggior flessibilità del sistema decisionale, di una più elevata esperienza di combattimento, soprattutto dopo i tre anni di guerra in Ucraina, di un più alto tasso di tolleranza alla guerra da parte della popolazione, e, infine, di un ben più fornito arsenale nucleare (anche di questo prima o poi bisognerebbe ragionare in Europa). Soprattutto, Putin e i suoi possono essere molto più efficaci dei nostri leader nella pratica di intimidazione del potenziale nemico e nella gestione dell’escalation di minacce e azioni, come dimostrano le ondate di panico nei media e nelle opinioni pubbliche europee ogni volta che il presidente russo, o il suo fido Dimitrij Medvedev, citano una nuova devastante arma, o prospettano l’olocausto atomico. Mosca, negli ultimi tre anni, ha naturalmente dilatato la sua spesa militare, in seguito all’impegno bellico, la quale è giunta quasi al 7% del PIL, e ha avviato una vera e propria economia di guerra, pur con costi non trascurabili per altri settori dell’economia e della società. Secondo l’autorevole International Institute for Strategic Studies (IISS), la spesa militare russa, a parità di potere d’acquisto, ha superato nel 2024 la somma dei budget dei paesi europei (qualcuno, come Carlo Cottarelli, ha messo in dubbio la validità di tale calcolo, ma i criteri utilizzati sono ben spiegati dalla pubblicazione dell’IISS, e dovrebbero in realtà fugare i dubbi), nonostante abbia alla base un’economia ben più piccola. Tuttavia, non dovrebbe neanche essere utilizzato come unico riferimento il livello di spesa militare. Gli stessi obiettivi di spesa per i paesi europei in ambito NATO e UE, del 2, 3 o 3,5% non dovrebbero essere presi come totem assoluti, rappresentanti il raggiungimento della sicurezza, ma andrebbero considerati come dei parametri di riferimento, utili a fissare degli obiettivi per un organizzazione di diversi stati che, evidentemente, deve assicurare che gli impegni e gli oneri siano ripartiti tra tutti. Chi in Italia, ad esempio, si lamenta dei nuovi obiettivi ipotizzati dalla Commissione Europea, dovrebbe ricordarsi che siamo molto lontani perfino dal raggiungere l’obiettivo del 2% stabilito in sede NATO nel 2014. Un po’ di decenza, a volte, servirebbe.
In tal senso, le azioni da intraprendere in concreto non dovrebbero essere dettate dalla necessità di spendere una certa quantità di denaro in un dato periodo di tempo, ma sarebbero da far dipendere dalle reali necessità operative e strategiche. Le quali sono del resto ben delineate dal Libro Bianco della Difesa, presentato ieri dalla Commissione Europea, ma sono ben note ai nostri apparati militari e agli esperti in materia, che, anche in Italia, non mancano (varie autorevoli voci ne hanno scritto e parlato sui media, ad esempio Camporini, Stirpe, Batacchi, Gilli). In particolare, le carenze da ricoprire riguardano la missilistica e l’antimissilistica, la produzione di droni, i carri armati, gli aerei di nuova generazione, la logistica e la mobilità militare, le comunicazioni satellitari, l’intelligence, il settore cyber e quello spaziale. Siamo poi largamente mancanti di munizionamento, di fronte ad una tipologia di guerra che, come sta dimostrando il conflitto in Ucraina, può richiedere ancora oggi l’utilizzo di una gran quantità di sistemi d’arma tradizionali. Gli stessi numeri di organici e mezzi, inoltre, non dovrebbero essere presi alla lettera, ma commisurati all’effettiva capacità di combattimento. Quanti militari in Italia, da anni sono preposti solo a lavori di ufficio? Quanti sono gli ufficiali in rapporto alla truppa? Quanti mezzi sono realmente operativi? La Bundeswehr tedesca, ad esempio, da varie fonti è considerata un’organizzazione colabrodo, dove non funziona praticamente nulla, mentre, durante i bombardamenti della Libia del 2011, è noto che alcuni paesi europei, dopo poche settimane si sono dovute rivolgere agli USA perché avevano terminato le munizioni delle loro aeronautiche. Per questo, comparare certe cifre tra stati europei e Russia, laddove inoltre, in paesi come il nostro, una parte non trascurabile di spesa è in realtà destinata a pagare le sostanziose pensioni dei militari e un’altra a funzioni di pubblica sicurezza, ha veramente poco senso. Una volta riconosciuto dove intervenire e calcolato il fabbisogno economico, si dovrebbe ragionare su come riuscire a ottenere e stanziare i fondi, che dovrebbero essere in funzione delle necessità operative e strategiche, non il contrario. Le modalità finanziarie con cui si interverrà, se con risorse proprie, debito nazionale o debito comune europeo, sono secondarie rispetto alla finalità. Ciò non significa che non siano importanti, ma non devono far perdere dall’obiettivo dichiarato, e, comunque, dovrebbe essere chiaro che un costo ci sarà, manifestato in tagli di spesa o in debito, da qualunque parte provenga. Gli eserciti nazionali, per essere chiari, sono e restano la base dell’apparato di difesa europeo, e, insieme a quelle degli USA, di quello della NATO. Ciò nonostante, da tale base, vi è lo spazio per procedere ad integrazioni operative, a razionalizzazioni del sistema produttivo europeo e a pratiche di acquisti comuni. Alcune di queste iniziative sono già in essere, e naturalmente possono essere incrementate. Non siamo all’anno zero nella collaborazione tra paesi. Come si è detto, esistono già numerosi progetti comuni tra più governi e aziende europee per la realizzazione di sistemi d’arma ad alta tecnologia, e non si dovrebbe dimenticare la partnership Nato-Ue, regolata dagli accordi Berlin plus, che permette di mettere a disposizione della seconda, a certe condizioni, l’infrastruttura di comando atlantica. Dovrebbe essere chiaro, inoltre, che far evolvere l’industria della difesa europea verso un assetto caratterizzato campioni europei derivati da fusioni di imprese nazionali, al fine di godere di maggiori economie di scala, non è affatto un passaggio semplice. Tale proposito infatti incontrerebbe ostacoli, sia nelle aspirazioni dei governi nazionali e dei management a mantenere il controllo delle suddette imprese, che nelle opposizioni delle forze sociali, presumibilmente contrarie a processi capaci di allontanarne la governance dai territori, con possibili conseguenze negative, anche solamente in futuro, per l’occupazione.
L’esercito comune europeo rimane, nella testa di molti attori, una prospettiva di lungo periodo, a cui si potrà giungere in futuro, nei modi e nelle forme ritenute opportune. Nei prossimi anni, e magari mesi, nulla vieta ai partner europei di procedere comunque a cooperazioni rafforzate (procedere a ventisette risulterebbe molto complicato), per chi vorrà accedervi, finalizzate a preparare un’infrastruttura di comando che possa essere utilizzata in caso di emergenza. Un tale processo dovrebbe partire naturalmente in collaborazione con la NATO, ma, come ha scritto in questi giorni il Financial Times, sarebbe destinato a creare uno stabile pilastro europeo al suo interno, abile a diventare il più possibile autonomo nel malaugurato caso di un disimpegno americano, totale o parziale che sia. Quando, e se, una simile iniziativa sarà messa in atto, sarà interessante osservare il comportamento del governo italiano in merito. Resta il fatto che, pur in presenza di tale evoluzione, le politiche di difesa resteranno comunque di prevalente competenza nazionale, per cui, al fine di avere una valida partnership domani e un forte esercito comune dopodomani, l’imperativo è iniziare a lavorare per migliorare l’efficienza e l’efficacia delle forze armate nazionali, oggi. A meno che non si abbia un retro-pensiero ideologico talmente ostile alla sopravvivenza degli stati nazionali, da pregiudicare la sicurezza dei suoi abitanti, o che addirittura non si tema che, in virtù di un riarmo degli stati stessi, si ponga il rischio di un ritorno dei conflitti armati intra-europei. L’ultima ipotesi appare però davvero risibile, e dovrebbe far riflettere profondamente chi la propone sulla bontà dell’integrazione comunitaria, se si ritenesse possibile un’evoluzione di quel tipo. In definitiva, quel che dovrebbe essere chiaro alle elite politiche e culturali, e che dovrebbe essere veicolato anche alle opinioni pubbliche, è l’insostenibilità, nel medio-lungo periodo (ma forse anche nel breve) di una società, quella europea, che non è in grado di provvedere, con un buon grado di autonomia, alla propria difesa e sicurezza. Le quali sono i primi doveri, verso il proprio popolo, di ogni comunità politica che si voglia definire tale. Al fine del corretto esercizio di tali doveri, è vieppiù necessario che si comprenda come esso non sia gratis, ma abbia invece un costo, variabile in base alle circostanze storico-geopolitiche dell’epoca in cui si vive, il quale si spera debba essere solo economico, ma potrebbe anche configurarsi, nei casi peggiori, nell’impegno diretto in combattimento. Servirebbero però elite in grado di guidare, non di seguire affannosamente gli umori dell’elettorato, e capaci di contribuire a ricordare che la pace, la libertà e la sicurezza sono beni comuni che generazioni anteriori alla nostra hanno conquistato, ma non sono scontati per sempre. Vanno difesi, in primo luogo scoraggiando altri ad attentarvi. L’alternativa, un domani, potrebbe essere di gran lunga peggiore.
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