Geopolitica

Guerra comunicativa: tutti arruolati. Il racconto come arma

10 Marzo 2022

La guerra in corso tra Ucraina e Russia, oltre che sul campo, si sta combattendo anche nel dominio dei racconti mediatici.  Chi si sta raccontando meglio in questa guerra? La Russia di Putin che dichiara di essere assediata dalla Nato, in un racconto di accerchiamento e liberazione, o l’Ucraina di Zelensky che resiste, chiede aiuto, incita gli animi in un racconto di tenacia e sacrificio? E poi: perché mai un racconto dovrebbe essere questione di guerra o fattore strategico distintivo?

Guerre e narrazione: l’escalation del racconto come arma

Se vi dico “racconto”, con tutta probabilità la prima cosa che vi viene in mente è qualcosa che riguarda la letteratura o il cinema, non la guerra. E invece dobbiamo iniziare a fare i conti con il fatto che tutti i racconti di noi stessi e degli altri, tutte le narrazioni che produciamo nei nostri social media o che fruiamo nell’onlife, oggi sono potenziali armi. Come d’altronde ricordato da molta letteratura militare strategica – tra cui il famoso manuale del Generale Petreus, scritto nel 2004, il COUNTERINSURGENCY, Field Manual No. 3-24:

“Il meccanismo centrale attraverso il quale le ideologie sono espresse e assorbite è la narrazione. Una narrazione è uno schema ideologico organizzativo espresso in forma di racconto. Le narrazioni sono fondamentali per la rappresentazione di identità, in particolare l’identità collettiva di gruppi come le religioni, le nazioni e le culture. Le narrazioni permettono alle comunità di fornire modelli di come le azioni e le conseguenze sono collegati tra di loro e sono spesso alla base di strategie, azioni e interpretazione delle intenzioni degli altri attori”. (Petreus, Metthis, 2004).

Nelle guerre le narrative ci sono sempre state e mai come adesso ne sono il fulcro centrale. La narrazione serve a motivare: i guerrieri, le truppe, il morale. È uno strumento di forza d’animo. Le guerre di prima generazione dette anche di massa, quelle classiche combattute da sempre ne sono un esempio.
La narrazione aiuta oltre che nella “motivazione del milite al fronte” anche nell’acquisizione e nel recruiting di forza umana. Come non ricordare il poster “Lord Kitchener Wants You”, pubblicità del 1914 di Alfred Leete appositamente sviluppata per il reclutamento. È uno strumento per dimostrare la forza del carattere.

 


Credits: https://en.wikipedia.org/wiki/Lord_Kitchener_Wants_You

 

Nelle guerre di seconda generazione, dette anche di potenza da fuoco: sparare, occupare e sbaragliare il nemico dalla sua posizione, sono una manifestazione diretta di questo ruolo della narrazione bellica; come avvenne per gran parte della Prima Guerra Mondiale.

Il racconto poi, oltre che motivare e reclutare, deve persuadere: convincere la propria opinione pubblica di essere nel giusto facendo credere alla parte opposta di essere più forti, capaci, vincenti. È l’avvento della Propaganda scientificamente organizzata, che nelle guerre di terza generazione, più o meno dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, aiuta la grande massa di personale ingaggiato, il forte potere di fuoco, i continui spostamenti terrestri e aerei, nel coordinamento dello sforzo bellico.

La narrazione oltre a motivare, reclutare, persuadere, deve moltiplicare i punti di vista. Amplificando il rumore di fondo si distrae l’opinione pubblica (interna o esterna) sulle reali ragioni del conflitto. In queste guerre, dette di quarta generazione, più o meno quelle degli ultimi 18-20 anni – anche grazie all’avvento della dimensione cyber, digitale e social – si amplia il campo della battaglia in tantissime azione offensive e difensive, di tutti i tipi: militare, economico, culturale, psicologico, politico, mediatico.

È proprio in questi ultimi anni che inizia il nostro arruolamento, come amplificatori del rumore e della confusione di fondo, la cosiddetta war fog: la compartecipazione nel rendere impossibile la chiarezza sul campo di battaglia e quindi la difficoltà di ottenere informazioni attendibili in situazioni di conflitto.

Infine, il racconto non serve solo a motivare, reclutare, persuadere e moltiplicare i punti di vista, ma è l’elemento strategico dell’attacco: prima, durante e dopo la violenza cinetica. E questo che caratterizza le guerre di quinta generazione, dove il campo di battaglia è onnipresente. Non c’è più distinzione tra territorio civile e ambito militare e ogni azione è volta ad attaccare l’avversario in primo luogo dal punto di vista mediatico, poi economico e infine militare con i “famosi scarponi sul terreno”. Le video-novel di Zelensky o le registrazione TV di Putin sono racconti-arma paralleli alle armi cinetiche.

Disinnescare la miccia delle story-wars?

Quello che sta avvenendo tra Ucraina e Russia è una tragica commistione tra conflitti di quarta e quinta generazione, dove non solo è implicato il controllo dei corpi e del territorio, ma viene richiesta prima di tutto la sconfitta dell’avversario nei domini narrativi e culturali, per distruggere la voglia, il desiderio, la possibilità di lottare. Il racconto reciproco, farà cedere prima Zelensky o Putin?
Tutti siamo chiamati in causa: opinioni pubbliche e gerarchie militari, governi e influencer, persone comuni e leader di Stato, che si ritrovano a combattere tra di loro a diversi livelli di conflitto: politico, cinetico e narrativo.
Così oggi ognuno di noi è arruolato all’interno di story wars: perché in questo momento a seconda del racconto identitario e collettivo a cui aderiamo i nostri comportamenti – persino i nostri destini – saranno orientati in un modo piuttosto che in un altro. Stiamo a Kiev con Zelensky o nel salone della guerra con Putin?
Ovviamente, tutti noi occidentali ci schieriamo per i valori libertari e democratici rappresentati da Zelensky – ma la domanda non è e non sarà scontata; perché questa guerra di quinta generazione continuerà a chiederci sacrifici. E – come capita spesso nelle battle of narrative – ognuna delle parti in causa è il buono che si sente nel giusto.

La “battaglia della narrazione” è appena cominciata; il mondo si sta schierando in due grandi fazioni: polarizzandosi in una escalation tragica.

Dovremo capire molto bene gli eventi futuri (tra chiusure di Internet ed eccesso comunicativo) ma soprattutto – come cittadini arruolati nostro malgrado – saremo chiamati a disinnescare la miccia delle story-wars. Riusciremo a spegnere la polarizzazione continua? Ce la faremo a dismettere il post ad effetto, evitando il titolo enfatico, per abbassare il tono di violenza delle parole e delle immagini?
Proprio come i leader del mondo auspichiamo possano trovare  soluzioni diplomatiche, anche noi – nel nostro quotidiano – dovremo trovare una nuova forma di diplomazia mediatica: nel dialogo, nella tolleranza, nell’umanità.

Perché stavolta non è questione di spingere l’altro a pigiare un bottone per farci dare un like. Al contrario è cercare di non farlo arrivare a spingere quel bottone, dopo il quale non ci sarebbe più nessun “mi piace”.

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