Geopolitica

La carneficina in corso nello Yemen con la complicità dell’Europa

23 Luglio 2019

Lo scorso febbraio le immagini di Fatima Qoba, che a dodici anni pesava appena 10 chili, hanno fatto il giro del mondo. Diventando il simbolo della devastazione provocata da una guerra che la direttrice UNICEF Henrietta Fore, ha definito “un test per la nostra umanità”. Per Mark Lowcock, sottosegretario per gli affari umanitari delle Nazioni Unite, “la guerra in Yemen non è soltanto brutale, è impossibile da vincere”.

Lowcock non è l’unico a pensarla così. Né la vasta coalizione sunnita a sostegno delle forze governative, né i ribelli sostenuti dall’Iran sembrano nelle condizioni di vincere sul campo. E la sola possibilità concreta per porre fine alla guerra civile sarebbe un negoziato in grado di coinvolgere tutte le parti in causa.

Secondo alcune fonti, dall’inizio delle ostilità nel 2015 le vittime sarebbero quasi 100mila. Lo Yemen era un paese molto povero già prima, con un Pil pro capite di appena 3.800 dollari nel 2014 (dati FMI), la guerra civile lo ha fatto sprofondare in una terribile crisi umanitaria.

Secondo il World Food Programme delle Nazioni Unite, quasi 10 milioni di yemeniti, su una popolazione di 24 milioni, sono a un passo dalla carestia. Il numero di persone colpite dall’insicurezza alimentare è cresciuto del 13% in un solo anno. In appena sei mesi, a cavallo tra il 2018 e il 2019, gli sfollati sono passati da poco più di 200mila a 420mila.

E come in un tableau medievale, alla guerra segue la malattia. L’epidemia di colera dello Yemen è la più grave del pianeta: in ottobre l’OMS ne registrava 10mila casi sospetti a settimana. I bambini rimasti uccisi o gravemente feriti dall’inizio del conflitto, sono almeno 7.300. Un dato terribile ma che potrebbe persino peggiorare. Secondo i dati Unicef, infatti, 2 milioni di bambini sono malnutriti, e quasi 400mila rischiano di morire di fame.

Non solo. Le crescenti tensioni fra Washington e Teheran rischiano di aggravare uno dei conflitti più brutali (e dimenticati) del mondo. Come altre volte nel corso della sua storia, lo Yemen è spaccato, ed è diventato il campo di battaglia delle potenze della regione: da una parte ci sono i ribelli huthi (più correttamente Ansar Allah), appoggiati da Teheran; dall’altro il debole governo del presidente Abdrabbuh Mansur Hadi, che gode del massiccio sostegno dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti (EAU), di altri paesi sunniti come l’Egitto e il Kuwait, e della benedizione fattiva di americani e britannici.

Il supporto iraniano agli huthi è stato, sinora, cruciale per scongiurare la vittoria dello schieramento governativo, che può contare su mezzi, uomini e risorse imponenti. La tenacia degli huthi preoccupa Riad, che considera l’Iran un avversario pericoloso e incontenibile. La richiesta a Washington, negli ultimi tempi sempre più pressante, è quella di intervenire contro Teheran. Le tensioni tra gli USA e l’Iran si sono esacerbate nelle ultime settimane, e hanno il loro epicentro nello stretto di Hormuz, la “giugulare dell’Occidente” da cui transita quasi un terzo di tutto il greggio e altri prodotti petroliferi trasportati via mare. Una porta d’ingresso fondamentale, che l’Iran minaccia di bloccare come rappresaglia contro le minacce di Washington di azzerare le sue esportazioni di idrocarburi.

Il risultato è che Hormuz è sempre meno sicuro, e teatro di episodi sempre più preoccupanti. Domenica scorsa la petroliera di una compagnia panamense attiva negli EAU è stata sequestrata dagli iraniani. E la britannica Stena Impero (anch’essa una petroliera) è attualmente sotto controllo iraniano. Londra ha definito il suo sequestro, avvenuto venerdì proprio nelle acque dello stretto, “un atto ostile”.

Teheran ha il coltello dalla parte del manico: ad esempio nell’isola di Qeshm ha sede una base per droni militari in grado di colpire grandi navi, e una base per motoscafi militari e mini-sottomarini; a vegliare, i Pasdaran (Guardiani della Rivoluzione). Per il Pentagono la situazione è così grave da rendere auspicabile la formazione di una coalizione militare per presidiare le acque del Golfo persico.

In realtà sono tutte le acque intorno alla Penisola arabica a essere sempre più calde: non solo il Golfo persico e lo Stretto di Hormuz, ma pure il Golfo di Oman, il Mar Arabico,  il Golfo di Aden, il Mar Rosso. Si pensi solo alla guerriglia marittima degli huthi nelle zone meridionali del Mar Rosso. Ecco spiegato perché lo Yemen è così strategico a livello geopolitico. Le sue coste si affacciano sul Mar Arabico, sul Golfo di Aden e sul Mar Rosso.

Yemen vuol dire porti strategici, a partire da quello famosissimo di Aden. Yemen vuol dire Socotra, isola di grandissima rilevanza per le rotte marittime internazionali. Yemen significa, per l’Arabia Saudita, la possibilità di aggirare Hormuz, e avere un facile accesso al Mar Arabico, e quindi all’Oceano Indiano (non a caso Riad sta cercando di rafforzare il suo controllo sulla provincia di al-Mahrah). Per gli EAU Yemen significa anche un ampliamento del loro ruolo di hub logistico e commerciale. Tant’è vero che stanno cercando di occupare Socotra, attraverso milizie separatiste dello Yemen del sud a loro fedeli.

Lo scoppio della guerra civile in Yemen ha regalato alle potenze del Golfo, specie ai sauditi e agli Emirati Arabi Uniti (EAU) una grandissima opportunità per rafforzare il loro peso geopolitico, militare ed economico nella regione, a scapito dell’Iran. Se del principe saudita Mohammad bin Salman è molto parlato dopo il caso Khashoggi, non va trascurato l’inedito attivismo emiratino. Anche se pare che si stiano ritirando, almeno in parte dallo Yemen (per timore di attentati huthi a Dubai e Abu Dhabi), gli EAU possono contare su una rete di milizie e forze locali affidabili. Inoltre, hanno creato installazioni militari ad Assab, in Eritrea, e a Berbera, in Somaliland, mandando su tutte le furie il governo somalo.

Difficile però che l’Iran, sponsor dei ribelli, stia a guardare. «Negli ultimi tempi gli huthi hanno intensificato gli attacchi contro l’Arabia Saudita e il governo yemenita – spiega Charles Schmitz, professore di geografia alla Towson University di Baltimora, ed esperto di Yemen –. Questi attacchi potrebbero essere coordinati con l’Iran come avvertimento a Riad e Washington che Teheran ha molte risorse nella regione, e non cederà alle minacce».

In questo stallo in cui nessuno sembra poter vincere, la situazione dei civili, già allo stremo, rischia di peggiorare ulteriormente. Nel suo briefing al Consiglio di Sicurezza, il mese scorso, il già citato Lowcock citava una previsione dell’Università di Denver sull’impatto della guerra. Secondo lo studio, se i combattimenti continuassero fino al 2022, i morti sfiorerebbero i 500mila, di cui oltre 300mila a causa di fame e mancanza di cure mediche. Un quarto dei bambini soffrirebbe di malnutrizione.

Principale causa della terribile crisi umanitaria in cui versa lo Yemen è il ferreo blocco marittimo, aereo e terrestre lanciato da Riad, che ha de facto impedito a milioni di yemeniti di ricevere gli aiuti umanitari. Lo scorso ottobre le Nazioni Unite hanno ammonito che nel paese si potrebbe verificare la peggior carestia degli ultimi cent’anni a livello mondiale.

E se il blocco è mortale neanche i combattimenti risparmiano le infrastrutture civili, come le reti idriche ed elettriche, le scuole e i servizi sanitari. Secondo l’ong Save the Children, alcuni attacchi aerei della coalizione guidata dai sauditi, a fine luglio, avrebbero danneggiato una stazione idrica che riforniva di acqua la città portuale di Hodeidah (un punto d’accesso cruciale per gli huthi). Dopo quell’attacco, secondo l’ong, i casi sospetti di colera sarebbero raddoppiati. E in un rapporto pubblicato nell’estate 2018, gli esperti delle Nazioni Unite sostengono che sia la coalizione che i ribelli huthi sono colpevoli di crimini di guerra.

La situazione è di estrema complessità. Le radici del conflitto risalgono a molto prima del 2015. Sino al 1990 il paese era diviso in Yemen del nord e Yemen del sud. E gli oltre due decenni di governo del presidente-padrone Ali Abdullah Saleh (rovesciato nel 2012 sulla scia della Primavera araba) non hanno giovato alla tenuta del paese.

«Le rivendicazioni principali del movimento huthi, per esempio, precedono di anni le rivolte del 2011 – nota Stacey Philbrick Yadav, che insegna scienza politica agli Hobart and William Smith Colleges di New York –. E il governo yemenita combatte l’insorgenza huthi sin dal 2004. Anche il Movimento per lo Yemen del Sud [alleato con Hadi] è nato ben prima della deposizione di Saleh: nel 2007».

Gli eventi successivi alla Rivoluzione yemenita del 2011 hanno peggiorato ulteriormente la situazione. «Gruppi importanti come gli huthi e il Movimento per lo Yemen del Sud sono stati esclusi dagli accordi per la condivisione del potere siglati alla fine del 2011 – continua Philbrick Yadav –, e l’intero “processo di transizione” che è seguito, in pratica, è sfociato nella guerra».

Poi ci sono le potenze straniere. A partire dall’Arabia Saudita, che nel 2015 ha messo in piedi una coalizione sunnita, con il pretesto di difendere la stabilità della regione e il governo del presidente Hadi, fuggito a Riad. In realtà, osservano gli esperti sentiti da Gli Stati Generali, i sauditi temevano anche che una forza sponsorizzata da Teheran (gli huthi, appunto) potesse prendere il controllo di un paese con cui condivide una lunghissima frontiera. «Un fattore fondamentale in questa guerra – sottolinea Schmitz – è il confine che l’Arabia Saudita condivide con lo Yemen. Riad vede lo Yemen come un rischio per la propria sicurezza, ed è disposta a spendere enormi quantità di denaro e vite umane, per assicurarsi che il paese non costituisca una minaccia».

Da più parti si sono levati appelli a Washington, Parigi e Londra affinché smettano di rifornire di armi i sauditi e i loro alleati. Secondo un rapporto governativo annuale, nel 2018 le vendite di armi made in France al regno saudita sono valse circa un miliardo di euro.  Dall’inizio della guerra, nel marzo 2015, il Regno Unito ha venduto armi all’Arabia Saudita per oltre 4,7 miliardi di sterline, esportazioni che il mese scorso sono state definite illegali dalla Corte d’appello. Qualche giorno fa, dopo intense battaglie da parte delle ong nostrane e proteste di attivisti e portuali, il Consiglio dei ministri ha annunciato la conclusione dell’iter che permette all’Autorità nazionale per le autorizzazioni dei materiali di armamento di bloccare le esportazioni di bombe d’aereo e missili verso l’Arabia Saudita e gli EAU “sino a quando non vi saranno sviluppi concreti nel processo di pace con lo Yemen”. Save the Children ha lanciato la campagna “Stop alla guerra sui bambini”, con una petizione online che chiede anche all’Italia di fermare la vendita di armi italiane utilizzate contro i bambini in Yemen.

L’unica possibilità di porre fine a un conflitto che ha portato milioni di civili allo stremo sarebbero dei negoziati che includano tutte le parti in causa.  Purtroppo però, sembra improbabile che ciò avvenga presto. «I “negoziati” attualmente in corso coinvolgono “le due parti”: il governo Hadi, basato a Riad, e Ansar Allah, cioè gli huthi – dice Sheila Carapico, docente di scienza politica all’Università di Richmond e studiosa di Yemen da anni. – Né l’Arabia Saudita, né gli EAU, né le altre potenze straniere sono coinvolte, e men che meno la miriade di milizie attive sul campo. Non sono negoziati seri, che abbiano davvero una possibilità di porre fine ai combattimenti. Parlare di “due parti” in un “conflitto interno” è una finzione».

Della stessa opinione anche Philbrick Yadav. «Tutti gli yemeniti con cui ho parlato negli ultimi quattro anni mi hanno detto la stessa cosa: la guerra ha origini politiche, e per porle fine c’è bisogno di un accordo politico, non di una sconfitta militare». Per la docente questo accordo politico deve coinvolgere ognuna delle parti attive nel conflitto, e prendere in considerazione anche l’apporto delle persone impegnate in un’opera di peace-building a livello di comunità locali. «In modo che gli yemeniti possano avere il processo di pace di cui hanno bisogno e che meritano – conclude –, e non il genere di processo che porterebbero avanti quelli che hanno la forza dalla loro».

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