Geopolitica
Gli USA e il MO, tra intervento e disimpegno, nella sfida per l’egemonia globale
L’America non vuole insabbiarsi di nuovo in Medio Oriente, ma la scarsa risolutezza rischia di trascinarla suo malgrado nel caos. Il fronte interno diviso mette a rischio la capacità di dissuadere i nemici. A Washington serve una chiara presa di coscienza.
“La regione del Medio Oriente è più tranquilla oggi di quanto non lo sia mai stata negli ultimi due decenni“. Questa frase di Jake Sullivan, pronunciata il 29 Settembre scorso, al Festival della prestigiosa rivista Atlantic, rimarrà sfortunatamente uno degli emblemi di come l’incendio divampato a Gaza solo sei giorni dopo abbia colto largamente di sorpresa non solo le autorità israeliane, ma anche il governo degli Stati Uniti d’America (USA). Il Consigliere per la Sicurezza Nazionale della massima potenza mondiale rifletteva poi ad alta voce sul fatto che la quantità di tempo da lui spesa per crisi e conflitti mediorientali è “significativamente inferiore” rispetto a tutti i suoi predecessori dopo l’11 Settembre. Tale considerazione appare come la fotografia dell’aspirazione americana a svincolarsi dall’impegno di enormi risorse militari, economiche e morali nella vasta regione compresa tra il Mediterraneo e l’Hindu Kush. Un’aspirazione avviata con l’inizio della presidenza Obama, in reazione allo shock rappresentato dalla visione della Superpotenza impantanata nelle sabbie irachene e afghane, e poi cresciuta con le velleità di Trump e le illusioni di Biden. Al calar del 2023, con il conflitto israelo-palestinese nuovamente esploso, dopo anni di relativo torpore, e l’intera regione a rischio ebollizione, pare essere decisamente frustrata.
Al termine della presidenza di George W. Bush le immagini delle bare contenenti i cadaveri di migliaia di soldati caduti in Iraq e l’emergere dei numerosi casi di sindrome da stress post-traumatico tra i reduci avevano indotto la popolazione americana ad esprimere un netto rifiuto verso le missioni militari all’estero. La Grande Crisi del 2008-2009 aveva fatto il resto, generando nella popolazione d’oltre Oceano introversione e sfiducia nel futuro e finanche nel proprio paese. Da allora la lezione è stata appresa senza possibilità di errore dalla politica e dalle istituzioni di Washington: mai più boots on the ground, mai più imponenti campagne militari finalizzate a occupare territori lontani e ostili. Il Medio Oriente, epicentro delle maggiori crisi internazionali del ventennio precedente, non poteva più essere affrontato con gli schemi delineati al tempo della Superpotenza trionfante nel mondo unipolare degli anni ’90 e dei primi 2000. La nuova strategia elaborata sul Potomac era quindi basata su diplomazia, apertura al dialogo, uso della forza solo se strettamente necessario ed in misura limitata, mentre nel giro di pochi anni il boom dello shale oil e dello shale gas avrebbe accresciuto la posizione di forza e la tranquillità degli USA riguardo al problema energetico. A garanzia del nuovo corso era la fresca e rassicurante immagine del neo inquilino della Casa Bianca, Barack Obama, già premio Nobel per la Pace sulla fiducia, ancor prima di giurare di fronte al Campidoglio. Il discorso all’Università del Cairo, pronunciato dal Presidente nel giugno 2009, improntato alla pace e ad un nuovo inizio nei rapporti con il mondo islamico, era il manifesto di tale politica.
Le speranze riposte per la regione in un futuro di pace e perfino di democrazia, per quanto imperfetta, pur inaspettatamente rinvigorite con le Primavere Arabe del 2010-2011, dovevano invece rapidamente spegnersi con le involuzioni (prima islamica, poi militare) in Egitto, le guerre civili in Libia, Siria e Yemen, lo stallo nei negoziati tra Israeliani e Palestinesi, l’incombente minaccia dell’Atomica iraniana. In uno scenario caotico a tal punto, mentre continuava sempre più stancamente l’infinita missione in Afghanistan, e con i pensieri rivolti ormai in gran misura al Pacifico e alla competizione con la Cina, l’imperativo a Washington era non farsi risucchiare nuovamente in quei deserti arroventati. Diveniva perciò necessario promuovere un equilibrio di potenza, di stampo realista, tra le principali potenze dell’area, a cominciare dalla Turchia di Erdogan, e inclusa l’Iran, che, dal 2013 presentava al vertice il moderato Rohani, in luogo del radicale Ahmadinejad. L’idea, non priva di logica, consisteva nel contribuire a realizzare tale equilibrio, favorendo di volta in volta uno o l’altro attore locale, in modo da non rendere necessari interventi diretti. Tuttavia, il proposito di Obama di astenersi da iniziative militari rischiava di sconfinare apertamente in una condizione di irresolutezza, con l’effetto di svelare la debolezza americana e incoraggiare più ardite azioni nuovi e vecchi nemici. Tale limite della strategia USA si materializzava chiaramente nell’estate del 2013, quando, dopo aver esplicitamente tracciato una linea rossa di fronte a eventuale uso di agenti chimici da parte dell’esercito siriano di Bashar Al Asad contro ribelli e civili, nell’ambito della sanguinosa guerra civile in quel paese, Obama rinunciava a ordinare una rappresaglia militare contro il regime in risposta al dimostrato utilizzo di tali armi, preferendo accettare la mediazione (interessata) della Russia di Putin. Era aperta la strada all’intervento militare di Mosca del 2015 e allo stabilirsi in quel disastrato paese di un condominio russo-turco-iraniano, con le milizie di Teheran alle porte di Israele. Nel frattempo il ritiro, verosimilmente affrettato, delle ultime truppe USA in Iraq, sgombrava il campo a favore della nuova insurrezione ad opera dell’Isis, che instaurava un neo-califfato nell’area a cavallo tra quel paese e la Siria, destinato a durare ben tre anni.
La stagione di limitato impegno americano tra Suez e il Golfo Persico era destinata a proseguire con ancor più chiarezza retorica durante gli anni della presidenza Trump, salito al potere proprio con l’obiettivo di restringere ulteriormente l’impiego di risorse all’estero, e di mettere in discussione lo stesso ruolo degli USA nel mondo. La sua amministrazione si sarebbe caratterizzata per un rapporto diplomatico tornato a essere più stretto con Israele e Arabia Saudita e per una nuova ostilità verso l’Iran, culminata nel 2018 nella denuncia del trattato JPCOA del 2015 per la limitazione del programma nucleare di Teheran, principale successo della precedente presidenza nella regione. L’attivismo dei pasdaran tra Libano, Siria, Iraq e Yemen era ormai cresciuto pericolosamente oltre il livello di guardia per Washington e doveva essere frenato. L’uccisione, a inizio 2020, del potente generale Qasem Soleimani, costituiva un pesante monito per gli Ayatollah e per possibili emuli, contribuendo a svelare il bluff di un regime iraniano dai piedi di argilla. Netanyahu, da Gerusalemme, sentitamente ringraziava della nuova virata americana e il saldo rapporto tra i due paesi veniva confermato dalla quasi totale accondiscendenza di The Donald per le posizioni israeliane, giunta fino al punto di proporre un piano di pace in Palestina comprensibilmente irricevibile per l’ANP. Il frutto di tale partnership si manifestava nei cosiddetti Accordi di Abramo, in funzione anti-iraniana, che preludevano al coinvolgimento di Riyad, e il cui indirizzo strategico sarebbe stato proseguito anche da Joe Biden, almeno fino al fatidico 7 ottobre. Gli ultimi quindici anni di politiche USA in Medio Oriente rappresentano un precario tentativo di equilibrio tra intervento e disimpegno, tra diplomazia e presenza militare, la quale è stata spesso poco visibile, consistente in intelligence, droni e forze speciali, ma mai del tutto assente. Democratici e Repubblicani si sono differenziati al potere soprattutto per l’atteggiamento verso l’Iran e Israele: più avvezzi al dialogo con Teheran e all’equidistanza tra Israeliani e Palestinesi i primi, maggiormente inclini a usare il bastone col nemico persiano e la carota con Gerusalemme i secondi, oltre che meno propensi dei rivali a farsi condizionare da questioni legate ai diritti umani e alla legalità internazionale. Entrambi hanno però mantenuto costante l’obiettivo di non farsi coinvolgere in pesanti campagne militari nell’area, come dimostrato pure dal ritiro bipartisan dall’Afghanistan portato a termine, pur con notevoli difficoltà, nel 2021. Comprendere le dinamiche e le ragioni della politica americana in tale scorcio di secolo è fondamentale per valutare le azioni di Washington di fronte all’odierna guerra in corso a Gaza.
Nella sottile striscia di terra compresa tra il Mediterraneo, il Deserto del Negev e il Sinai, gli USA stanno sperimentando ancora una volta quanto è arduo gestire le crisi internazionali e influire positivamente sugli attori in campo, anche se alleati. Nonostante il loro status di prima potenza globale. Il ruolo che l’amministrazione Biden sta impersonando in questa fase è duplice: costituire un solido bastione a difesa e supporto dell’alleato israeliano, in modo da dissuadere qualsiasi velleità di intervento esterno da parte di chiunque, e al contempo moderare la furia dello stato ebraico ferito, che si sta abbattendo sulla popolazione di Gaza, oltre che sui militanti di Hamas. Il primo obiettivo per il momento pare raggiunto, il secondo meno. La soverchiante superiorità delle forze armate a stelle e strisce è ben chiara ai potenziali nemici dell’area mediorientale, a cominciare dall’Iran, che ben si guarda dall’offrire a Washington un pretesto per dare una spallata al proprio regime. Se non lo fosse, ci pensano i precisi raid contro le postazioni di milizie responsabili di attacchi ai danni di basi americane in Iraq, a ricordarlo, oltre alla presenza di ben due portaerei in navigazione di fronte al Libano e nel Golfo Persico. Quanto ai tentativi di limitare gli effetti sulla popolazione civile dei bombardamenti israeliani e di favorire un cessate il fuoco, invece, le cose si dimostrano notevolmente più complicate. Pur essendo di gran lunga il principale alleato di Israele, essenziale per i suoi rifornimenti di materiale bellico e, conseguentemente, per la sua difesa, il governo Netanyahu non sembra incline ad accettare più di tanto i “consigli” che gli vengono recapitati quasi quotidianamente dai suoi più alti esponenti governativi. E’ significativo che Joe Biden sia giunto a fare esplicitamente autocritica in merito alla reazione del suo paese di fronte al 11/9, per consigliare ai vertici di Gerusalemme di non agire impulsivamente, ma è certamente più facile ragionare con tranquillità quando non si è appena stati attaccati in modo così efferato, e la stessa storia americana sta lì a dimostrarlo. A maggior ragione risulterà complicato convincere il governo israeliano a riprendere seriamente i negoziati per giungere alla tanto agognata soluzione dei due stati. Fu un fallimento cocente, quando le parti erano molto più vicine, al termine del secolo scorso. Oggi servirà pertanto molta pazienza e forza di volontà per rimettere i due contendenti attorno a un tavolo e ristabilire la fiducia reciproca, ma la capacità di mostrarsi un mediatore non troppo schierato con Israele sarà essenziale per non far perdere agli USA ulteriore consenso, già molto eroso, tra le popolazioni e i governi della regione.
Con l’esplosione di violenza generata dai tragici fatti del 7 ottobre, gli USA vedono allontanarsi l’obiettivo di far crescere un solido legame tra Israele e le monarchie del Golfo, a cui era in procinto di legarsi, pur sotto traccia, anche la Turchia di Erdogan. Tale avvicinamento era, ed è, funzionale alla strategia americana, rappresentando un consistente fronte in opposizione alla potenza persiana e alle sue succursali sparse per il Medio Oriente, e in particolare in quella che è stata ribattezzata la Mezzaluna Sciita, tra Libano e Iraq. Il Medio Oriente, però, non è più quello degli anni ’90 e dei primi 2000 in cui le forze armate e la diplomazia di Washington in larga parte spadroneggiavano. Sono presenti attori nuovi e altri di ritorno, facenti capolino nella regione in virtù degli spazi aperti dai tanti conflitti e dagli ondeggiamenti yankee, oltre che dalle crescenti ambizioni delle loro politiche estere. Si è già detto della Russia, nuovamente protagonista nell’area da ormai un decennio e bisognosa di mantenere buoni rapporti con i paesi Opec, senza disdegnare di creare azioni di disturbo al nemico americano, sempre con un occhio a quanto succede in Ucraina. Rischia in futuro di non essere da meno la Cina, già cliente di Riyad e alleata di Teheran, non a caso garante del recente riavvicinamento tra i duellanti del Golfo Persico, concretizzatosi la scorsa primavera. Il Medio Oriente si avvia quindi sempre più a rappresentare un pezzo del puzzle del risiko mondiale, in cui attori locali competono per mantenere o acquisire posizioni di forza e potenze globali o continentali esercitano la loro influenza per garantirsi alleanze, risorse e accesso a basi collocate in luoghi strategici. Infine il petrolio, come il gas naturale e le relative condotte di approvvigionamento, permane a essere un fattore tutt’altro che secondario nel sistema internazionale, nonostante l’autosufficienza americana e le velleità europee di rapida sostituzione dei combustibili fossili. Nelle capitali del Golfo Persico ne sono consapevoli, e sanno bene che l’andamento del prezzo di tali fonti di energia può destabilizzare alleanze, economie e governi.
La discussione negli USA riguardo al comportamento in Medio Oriente si inserisce nel più ampio dibattito sulla politica estera e sulla misura degli interventi militari e degli stanziamenti economici oltre i propri confini. In un sistema internazionale non più unipolare e in cui, almeno fino a pochissimi anni fa, non era chiaramente riconoscibile una netta contrapposizione con una potenza ostile, come ai tempi della guerra fredda, la difficoltà del governo a mantenere impegni consistenti e duraturi dall’altra parte degli oceani emerge in tutta la sua drammaticità. La Casa Bianca si ritrova oggi con un congresso per metà ostile, in cui l’opposizione repubblicana, dominata da parlamentari legati a Donald Trump, adotta tattiche oltre modo spregiudicate e non pare voler farsi carico di condividere gli oneri del ruolo di superpotenza planetaria, in linea con le convinzioni sempre espresse dal magnate newyorkese. L’anno elettorale prossimo venturo si preannuncia, per tali motivi, decisamente ad alta tensione, con il fantasma di Trump che aleggerà fino alle consultazioni di novembre, ove appare al momento favorito, contro un Biden indebolito dall’età, dalle gaffe e dal tasso di inflazione, che solamente negli ultimi mesi ha iniziato a ridursi. Le posizioni dei Repubblicani riflettono gli umori di buona parte dell’elettorato, restio ad accettare notevoli impieghi di risorse in aree lontane nel mondo e, in linea con gli ultimi quindici anni, concentrato sempre più sui problemi interni, ove le divisioni tra gli schieramenti hanno peraltro superato abbondantemente il livello di guardia. Tuttavia, anche tra i Democratici la linea dell’Amministrazione in politica estera non è accolta con approvazione unanime, con la forte componente radical del partito a disagio per il sostegno ad Israele, mal sopportato anche da schiere di assistenti congressuali e funzionari governativi, che hanno apertamente contestato la posizione assunta nel conflitto in Palestina, lo scorso novembre. I sondaggi di opinione nei cinquanta stati dell’Unione fotografano a tal proposito inedite lontananza e ostilità degli Americani verso Israele, particolarmente diffuse a sinistra e tra i giovani, mentre nelle università più prestigiose al mondo proliferano gli appelli e le dimostrazioni dei giovani rampolli dell’upper class a favore dei Palestinesi, finanche sfociate in Antisionismo e, in alcuni casi, nell’Antisemitismo.
In una fase storica in cui la stanchezza imperiale si fa sentire tra la popolazione, riottosa a continuare a portare su di sé il fardello della Superpotenza, le minacce all’egemonia globale americana aumentano di entità e numero. Proprio la grande difficoltà nella gestione del fronte interno rischia seriamente di compromettere la capacità delle amministrazioni che si alternano alla Casa Bianca di mostrare risolutezza e, con essa, di esercitare la necessaria politica di dissuasione strategica verso nemici e competitors. Risulta difficile non cogliere il nesso tra il precipitoso ritiro dall’Afghanistan del 2021, con annessa la pessima figura di inefficienza e improvvisazione, e la decisione di Putin di portare alle estreme conseguenze la minaccia militare contro l’Ucraina all’inizio dell’anno successivo. Allo stesso modo, una condotta titubante in Ucraina potrebbe incoraggiare analoghe iniziative da parte cinese a Taiwan e, in Medio Oriente, le attività provocatorie dell’Iran. Tali preoccupazioni sono oggi in cima alla lista degli argomenti del dibattito strategico in corso a Washington, esplicitate con estrema chiarezza dall’ex Segretario alla Difesa ed ex Direttore della CIA, Robert Gates, in un intervento del 29 Settembre scorso sulla rivista Foreign Affairs, intitolato The Dysfunctional Superpower. Nell’analisi di uno dei più esperti policy makers viventi in materia di esteri e sicurezza, la classe politica di Washington non è sufficientemente efficace nel guidare la nazione nei mari tempestosi dello scenario internazionale odierno, con grave rischio di involontario incoraggiamento di potenze rivali, che potrebbero malauguratamente decidere di sfidare la potenza americana, avvicinando concretamente il rischio di guerra. “Gli americani – scrive Gates – devono capire perché la leadership globale degli Stati Uniti, nonostante i suoi costi, è fondamentale per preservare la pace e la prosperità. Devono sapere perché un successo della resistenza ucraina di fronte all’invasione russa è cruciale per dissuadere la Cina dall’invadere Taiwan. Devono sapere perché la dominazione cinese del Pacifico occidentale mette in pericolo gli interessi degli Stati Uniti … Questi sono i tipi di connessioni che i leader politici americani devono disegnare ogni giorno”. Un obiettivo di non facile raggiungimento, a giudicare lo stato dell’arte odierno tra Campidoglio e Casa Bianca, ma di cui i due partiti dovrebbero comprendere al più presto l’importanza. La leadership globale degli USA è oggi sotto pressione più di quanto non lo sia mai stata negli ultimi quarant’anni, e dalla risposta che popolazione e istituzioni sapranno dare a tale sfida dipenderà in gran parte il futuro di numerose aree del mondo. Il Medio Oriente naturalmente non fa eccezione. E neppure noi.
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