Geopolitica

Giorgia Meloni e il mondo. La politica estera italiana ai tempi della destra

22 Dicembre 2023

Mi ha molto colpito che si sia fatto riferimento al grande gesto da statista del mio predecessore Mario Draghi e la foto in treno verso Kiev con Macron e Scholz. Per alcuni la politica estera è stata farsi foto con Francia e Germania quando non si portava a casa niente”. In questa frase, tratta dalla dura e piccata replica durante il dibattito parlamentare del 12 dicembre alla Camera dei Deputati, e nel successivo affannoso tentativo di spiegare al “predecessore Mario Draghi” che non era il destinatario dell’intemerata di cui sopra, sta tutta la capacità di Giorgia Meloni di tenersi in equilibrio, se pur precario, tra la propaganda e la realtà, tra la voglia di menare fendenti ad un vecchio establishment che mal sopporta, ricambiata, e la necessità di accreditarsi verso di esso, per veder riconosciuto pienamente il suo ruolo nella politica internazionale. Tale distonia è evidente proprio nella condotta della premier italiana in politica estera, dopo oltre un anno di governo in cui Giorgia Meloni ha dovuto districarsi tra le impegnative sfide dello scenario internazionale, i vincoli esterni a cui l’Italia è sottoposta e i difficili tentativi di attuazione delle posizioni identitarie e anti-sistema sostenute, non senza enfasi e violenza verbale, negli anni dell’opposizione. Il risultato di tale bilanciamento di forze può essere certamente considerato come un interessante esempio di prassi di governo delle relazioni internazionali messa in atto da un leader politico di impronta sovranista e populista, nell’Europa che si avvia a completare il suo primo quarto del ventunesimo secolo.

 

I timori di assistere ad uno slittamento dell’Italia al di fuori delle tradizionali linee di politica estera seguite dal Bel Paese, in caso di vittoria della destra, espressi da alcune forze politiche alla vigilia delle ultime elezioni parlamentari, sono stati largamente smentiti. Giorgia Meloni, fin dal primo discorso programmatico in Parlamento, ha chiaramente delineato i suoi indirizzi di politica estera confermando la collocazione a pieno titolo dell’Italia nel campo Atlantico e nell’Unione Europea, pur con diversi accenti. La fedeltà alla Nato e la convergenza di vedute con l’amministrazione USA sono state subito ribadite dal nuovo governo, che non ha tardato a mostrare la necessaria fermezza nel supporto all’Ucraina, in linea con la postura già adottata da Mario Draghi. L’esecutivo italiano si è confermato, nell’anno appena trascorso, tra i più determinati nell’appoggio diplomatico a Kiev, e non ha mancato di garantire le forniture di aiuti umanitari, economici e militari al paese vittima dell’aggressione russa, per quanto abbiano permesso le limitate scorte detenute dal nostro esercito. L’ostentazione della confidenza con il presidente Zelenskj e i toni intransigenti nella comunicazione riguardo alla guerra mostrano la totale adesione della premier all’impegno nella contrapposizione con Mosca. Non era scontato, data l’eterogeneità di posizioni sul tema all’interno della coalizione governativa sul tema, con un soggetto, la Lega, apertamente filo-russo, e un altro, Forza Italia, che al battesimo dell’esecutivo era ancora sotto l’egida del fondatore Silvio Berlusconi, il quale a fatica riusciva a contenere le dimostrazioni di amicizia per Vladimir Putin. Lo stesso partito di maggioranza relativa, Fratelli d’Italia, ha dovuto modificare il suo atteggiamento verso la Russia, solo pochi anni fa presa a modello dalla stessa Giorgia Meloni, che aveva comunque iniziato a mutare i suoi riferimenti internazionali già negli anni precedenti, successivamente all’importante ruolo acquisito nel gruppo conservatore europeo (ECR) a partire dal 2019 e all’avvicinamento al Pis polacco e ai repubblicani americani.

 

Il saldo rapporto con l’amministrazione Biden è stato cementato nonostante le profonde divergenze di carattere valoriale esistenti tra il primo partito della coalizione di governo italiana e i Democratici americani, a dimostrazione dell’alto tasso di pragmatismo della premier e della sua consapevolezza di quali siano i “limiti” dati dal contesto internazionale da dover rispettare per non subire gli scossoni accusati da suoi predecessori in un passato non lontano. L’atlantismo è peraltro coerente con una parte della storia della destra italiana, fin dal dopoguerra, facilmente sovrapponibile all’appartenenza al campo occidentale, orgogliosamente rivendicata dal partito della Meloni in contrapposizione a globalismo, terzomondismo e melting pot culturali, spesso apprezzati invece nella sinistra dello spettro politico. Non stupisce neanche l’ostentato feeling con l’altro importante leader internazionale appartenente alla famiglia dei Conservatori, il Primo Ministro britannico Rishi Sunak, con il quale la premier italiana condivide, oltre alla posizione sulla guerra in Ucraina, quella sul tema migratorio, di cui si parlerà più avanti. L’opportunità di manifestare vicinanza all’alleato a Washington e la piena identificazione nel campo occidentale e democratico sono stati anche alla base della scelta di non prorogare l’adesione alla Belt and Road Initiative (BRI) cinese, decisa dal governo Conte I nel 2019, anche in virtù degli scarsi risultati ottenuti dal nostro paese a seguito di tale partnership. Il rapporto con la Cina è certamente tra i dossier più delicati sulla scrivania di Meloni e del Ministro degli Esteri Tajani, a causa della complessità della gestione dell’uscita dalla BRI. La disdetta dall’accordo è stata quindi portata a termine cercando di non urtare troppo uno stato fortemente assertivo, che rimane pur sempre la seconda potenza mondiale e un importante destinazione del nostro export, ma i cui disegni di espansione strategica rischiano di confliggere con i nostri interessi, a cominciare dalla sicurezza dei nostri asset industriali. A far da contraltare in Asia al raffreddamento verso la Cina sono stati invece approfonditi i dialoghi con l’India, nell’ambito del progetto delle Vie del Cotone, e con il Giappone, coinvolto insieme a Italia e Regno Unito nello sviluppo di un nuovo aereo caccia di sesta generazione.

 

Se la consonanza con Washington è stata forte e manifesta, è risultato invece più sfumato e complesso il rapporto con l’Unione Europea (UE) e con i singoli partners comunitari. La natura euroscettica di Fratelli d’Italia e le feroci battaglie combattute contro Bruxelles ai tempi dell’opposizione dalla stessa Giorgia Meloni potevano lasciar presagire un costante conflitto con la Commissione e con alcuni stati membri, su temi spazianti dall’economia all’immigrazione, passando per le tematiche legate alla transizione ecologica e alle questioni Lgbt. Il governo italiano ha invece impostato fin dall’inizio un dialogo pragmatico con l’esecutivo comunitario, con una particolare cura da parte della premier nel coltivare il rapporto personale con la Presidente Ursula Von Der Leyen, incontrata più volte nel corso dell’anno. I punti di frizione non sono certo mancati, né con Bruxelles, né, soprattutto, con alcune capitali, ma sono rimasti quasi sempre entro il livello di guardia. Quando le tensioni sono esondate oltre gli argini, come in un paio di circostanze con il governo francese in merito alla gestione dei flussi migratori, è dovuto intervenire il Presidente Mattarella a mettere una pezza. In seno all’arena comunitaria il 2023 è stato occupato per tutta la sua durata dai negoziati per il nuovo Patto di Stabilità e Crescita, conclusi proprio questa settimana, in cui Meloni e il Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti hanno fatto fronte comune con la Francia e gli altri stati del Sud Europa, cercando di limitare il più possibile gli automatismi correttivi dei deficit di finanza pubblica. Il risultato del compromesso finale si è tuttavia dimostrato, nostro malgrado, peggiorativo rispetto alla proposta iniziale della Commissione, a causa principalmente del pressing di Germania e paesi nordici, e a poco è servita la tanto evocata logica a pacchetto che doveva conglobare progressi favorevoli all’Italia sulle regole di bilancio con la risoluzione dell’annoso impasse sulla ratifica del MES da parte del nostro Parlamento, poi clamorosamente respinta il 21 dicembre alla Camera. Faticosa è stata infine anche l’interlocuzione con la Commissione riguardo all’implementazione e alla revisione del PNRR, sebbene durante l’estate il ministro Fitto sia riuscito finalmente a trovare la chiave per presentare le proposte di necessaria revisione del piano e ad ottenere lo sblocco di terza e quarta rata dei fondi.

 

 

Come da previsioni, gli scontri più duri con burocrazie e partner comunitari si sono verificati però sulla questione migratoria, particolarmente delicata, dato il gran peso ad essa dedicata dalla propaganda del principale partito di governo, nel corso dei lunghi anni all’opposizione. Senza neanche prendere in considerazione l’ipotesi di blocchi navali, italiani od europei che fossero, veniva quasi subito abortita anche l’idea di rifiutare l’approdo alle navi delle Ong, dopo una rovente polemica con l’esecutivo francese. Soprattutto, il governo italiano si è dimostrato di fatto impotente di fronte ad una crescente quantità di sbarchi di migranti sulle nostre coste, di proporzioni simili agli anni della c.d. grande invasione del 2013-2017, mentre la costante polemica con le Ong si alternava con tragici episodi di naufragi, il più grave dei quali, nei pressi delle coste calabre, ha purtroppo reso evidenti gravi carenze nel nostro sistema di sorveglianza e soccorso in mare. Le trattative in sede europea per la riforma del Trattato di Dublino hanno mostrato, anche in questo caso, una premier capace di dialogare con pazienza, cercando di mediare con gli “amici difficili” ungheresi e polacchi, accettando concessioni non trascurabili ai paesi non rivieraschi e ottenendo quanto più interessava, ovvero la base giuridica per realizzare accordi finalizzati a collocare i migranti soccorsi in paesi terzi. Tale strategia del governo italiano si è materializzata pienamente con i patti stipulati con la Tunisia prima, e con l’Albania poi, con cui questi stati accettavano di collaborare alla gestione degli imponenti flussi migratori diretti verso il nostro paese, sebbene entrambi gli accordi, per diversi motivi, si stiano rivelando controversi e tutt’ora rimangano di non facile attuazione. Si può tranquillamente affermare che Giorgia Meloni si sia rapidamente adattata ai complessi e talvolta barocchi meccanismi dell’UE, anche se sta imparando sulla sua pelle come le mediazioni si rivelino spesso difficili, snervanti e non sempre caratterizzate da successo.

 

Indubbiamente l’Italia, sotto la guida di Giorgia Meloni ha dedicato una particolare attenzione agli scenari dei quadranti mediterraneo, africano e balcanico, tentando di esercitare una postura attiva e propositiva in tali aree, in continuità con l’operato del predecessore Draghi. Le iniziative adottate nei confronti dei paesi di queste regioni sono state strettamente collegate alle politiche di gestione dei flussi migratori e alle strategie per rispondere alla crisi energetica iniziata nel biennio 2021-2022. All’interesse verso la complicata, se pur per il momento stabilizzata, situazione libica, si è aggiunto, come ricordato sopra, il tentativo di collaborazione con la Tunisia per limitare gli effetti della grave crisi che ha colpito il paese nordafricano, e conseguentemente porre un argine all’impetuoso aumento degli arrivi di natanti da esso provenienti. Un compito non facile, che, nonostante il coinvolgimento dell’UE e l’impegno personale della stessa Presidente Von der Leyen, si è scontrato con il carattere autoritario della presidenza Sayed e le sue forti difficoltà a sottoscrivere accordi economici condizionati, sia con l’UE che con il FMI. Le azioni poste in essere nel bacino del Mediterraneo si sono coerentemente inserite in un’intraprendente tessitura di legami con i paesi rivieraschi, finalizzati, oltre che al controllo dell’immigrazione, anche alla cooperazione in materia energetica, al fine di garantire in primo luogo l’incremento delle forniture di gas naturale al nostro paese, nell’ambito della strategia di sostituzione delle fonti russe. Sono state a questo scopo rinnovate, sempre con il cruciale ruolo dell’ENI, le partnership con Algeria e Libia, mentre sono notevolmente migliorati, non senza polemiche, anche i rapporti con l’Egitto di Al Sisi, dopo gli anni del gelo diplomatico seguito all’omicidio di Giulio Regeni. Coniugare aiuti economici, gestione dei flussi migratori, cooperazione energetica e influenza geopolitica è anche l’obiettivo del tanto decantato e atteso Piano Mattei, nuovo progetto con cui l’Italia aspira a presentarsi come nazione guida nell’approccio europeo all’Africa, ma fino ad ora i frequenti annunci non sono stati seguiti dai fatti, e si dovrà aspettare il 2024 per iniziare a conoscerne finalmente i contenuti. L’agenda Meloni non ha infine trascurato i Balcani, tradizionale direttrice della politica estera nostrana, dove è risultato particolarmente forte e apprezzato l’impegno della premier nel sostenere le ragioni dell’allargamento dell’UE agli stati della regione. Anche qui l’azione maggiormente pirotecnica ha riguardato la cooperazione in tema di migranti, con la stipula di un inaspettato trattato con l’Albania del premier socialista Edi Rama, per quanto rispondente forse più a ragioni di propaganda politica e di affermazione di un principio, che di reale efficacia. Sarà, evidentemente, l’anno venturo a emettere, come per gli accordi con Tunisi, il verdetto su tale strategia.

 

Il giudizio sul primo anno di politica estera dell’Italia a guida Meloni difficilmente può non essere interlocutorio, costituendo solamente l’inizio dell’esperienza governativa di una compagine politica in gran parte lontana da molti anni dalle posizioni di potere. Si possono tuttavia riconoscere alcuni caratteri specifici di una destra di governo conservatrice, quali l’attenzione alla geopolitica, inclusi gli aspetti militari, l’interpretazione restrittiva delle politiche migratorie, il pragmatismo nei rapporti internazionali con regimi non democratici, la preferenza per l’impostazione intergovernativa nell’assetto europeo e, infine, l’uso di una certa assertività sul piano comunicativo. Caratteristiche che si potrebbero dimostrare consone ad uno scenario globale sempre più caratterizzato da contrapposizioni geopolitiche sfocianti, non di rado, purtroppo, in conflitti militari. Rimane, tuttavia, forte il dubbio che i frequenti spunti polemici e colpi di testa di carattere nazionalista, spesso messi in atto per assecondare gli umori dell’elettorato, rischino di pregiudicare parte di quelle credibilità e affidabilità che l’Italia detiene in politica internazionale, e, in particolare, nell’agone europeo. Sono certamente note da anni la predilezione del partito della premier, e di tutta la destra italiana, per un’Europa delle Patrie e la corrispondente feroce critica alle dinamiche attuali della governance comunitaria, ma fino ad ora non si è mai intravisto nelle proposte giunte da Roma una definizione chiara di un’idea alternativa di Unione. Sul piano degli equilibri con gli altri due principali paesi fondatori si è potuta naturalmente osservare la distanza valoriale che la premier ha ostentato nei confronti di Scholz e Macron, unita però alla rivendicazione della capacità di sostenere il confronto con essi da pari a pari. A volte è sembrato che Roma alternasse consapevolmente cattivi rapporti con la Francia e buoni con la Germania, per riequilibrare, e viceversa, in un neanche troppo nascosto tentativo di mostrarsi al contempo combattiva ma rispettata dai partner d’oltralpe, ma quando si è trattato di tirare le fila sul nuovo Patto di Stabilità, a dicembre, il risultato della trattativa è stato definito da Parigi e Berlino, con l’Italia in seconda fila.

 

La grande sfida di Giorgia Meloni per il 2024 e oltre, rimane, ad ogni modo, la completa trasformazione della forza politica da lei guidata in una destra conservatrice di stile più vicino ai Tories inglesi che a un Vox spagnolo, la quale darebbe un peso e un’autorevolezza maggiore alla stessa politica estera italiana. Sfida che appare di non facile risoluzione, anche in virtù della concorrenza da destra della Lega di Matteo Salvini, e che incontrerà un banco di prova importante nella capacità di esercitare la necessaria influenza nei negoziati per la scelta dei vertici dell’Unione dopo le elezioni europee del prossimo giugno. Alla consultazione elettorale continentale Fratelli d’Italia si presenta nella famiglia dei conservatori, con ambizioni, forse velleitarie, di sovvertire la tradizionale maggioranza nel Parlamento di Strasburgo, imperniata su popolari, socialisti e liberali. Non minor peso si prevede che avranno, per la destra italiana e la sua politica estera, anche le elezioni presidenziali americane di novembre, con l’uragano Trump che potrebbe nuovamente sconvolgere la politica internazionale, a cominciare dalla linea sulla guerra in Ucraina e dai rapporti con la Russia, su cui il fronte euroatlantico si trova già in una non facile situazione alla fine dell’anno in corso. In caso ciò avvenisse, sarebbe curioso osservare il posizionamento di Giorgia Meloni e del suo governo, alfieri da ormai quasi due anni del sostegno a Kiev in accordo con l’amministrazione Biden, ma originariamente simpatetici con Putin. Ne scaturirebbe un’ulteriore prova per l’autorevolezza di una premier alla guida di una coalizione non facile da gestire, di fronte alla più vasto e intenso conflitto bellico in Europa dai tempi della seconda guerra mondiale. Ma meglio non correre troppo, per adesso, che il 2024, fuori dai nostri confini, si preannuncia lungo e movimentato.

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