Geopolitica
Geopolitica e strategie delle imprese post Covid-19
Per gli esperti di geopolitica saranno ovvietà, ma per chi ha la responsabilità di guidare le imprese (e anche le istituzioni territoriali, direi) non sarà proprio così.
Mi riferisco alle connessioni tra alcuni fenomeni geopolitici e le strategie d’impresa sviluppate nella conversazione che ho avuto il 5 giugno 2020 con Dario Fabbri (consigliere scientifico e coordinatore America di Limes) nell’ambito del webinar Geopolitica e Strategie d’Impresa post Covid-19, promosso da Assindustria Venetocentro e CUOA Business School.
La geopolitica, che era sparita dal dibattito nelle settimane del lockdown, è riapparsa sulle prime pagine dei giornali appena entrati nella Fase 2 e continua ad esserlo anche nel new normal.
I temi sono numerosi e vanno da quel che succederà sulla Via della Seta, con le nuove rotte dei commerci globali e il controllo dei porti, passando per l’evoluzione dell’alleanza indo-pacifica in chiave anti-cinese e per gli interessi della Turchia nel Corno d’Africa, fino ad arrivare alle tensioni USA-Cina e al ruolo strategico della Germania per l’Europa e in particolare per l’Italia.
Mi concentro sugli ultimi due, con un paio di suggestioni interessanti per chi fa impresa, emerse dialogando con Dario Fabbri.
Gli USA sono più giovani della Cina
Il crescente livello di tensione tra Stati Uniti e Cina dipende da vari fattori che ruotano attorno al controllo delle vie dei commerci globali e alla geografia delle aree di influenza.
Ma ce n’è uno che riguarda più da vicino le imprese e la loro gestione.
La Cina è e resterà la fabbrica del mondo, ma sarà ancora per poco il Paese più popoloso che avevamo conosciuto e non è più quello con popolazione più giovane rispetto ai concorrenti occidentali come tante persone ancora pensano.
I dati del Department of Economic and Social Affairs Population Dynamics ci dicono che oggi in Cina vivono 1,44 miliardi di persone, ma che in India siamo già arrivati a 1,38 miliardi e che in poco tempo si verificherà il sorpasso (nel 2030, saranno rispettivamente 1,46 e 1,50 miliardi).
Dalla stessa fonte si possono trarre alcuni dati sull’età mediana:
- nel 2000, l’età mediana in Cina era di 30 anni tondi, mentre negli Stati Uniti era di 35,2 anni;
- nel 2020, i due Paesi sono sostanzialmente alla pari: 38,4 anni in Cina e 38,3 anni negli Stati Uniti;
- nel 2030, le posizioni si invertiranno: l’età mediana in Cina sarà di 42,6 anni e negli Stati Uniti di 39,9 anni.
Quindi?
La ragione che spiega il sorpasso della Cina per l’età mediana è legata alle scelte di pianificazione familiare e non serve dire altro. Più interessante è capire come gli Stati Uniti siano riusciti a tenere sotto controllo l’età mediana che nell’arco di un trentennio è cresciuta di meno di cinque anni (da 35,2 a 39,9 anni). Considerato che il numero di figli per donna statunitense è passata da 2,04 del periodo 2000-2005 a 1,78 nel periodo 2015-2020, non ci resta che spiegarlo con le politiche per l’immigrazione. Prendiamo nota.
Ma cosa c’entra con le scelte delle imprese (italiane)? C’entra eccome.
Nel trentennio 2000-2030, l’età mediana in Italia è passata dai 40,3 anni nel 2000, ai 47,3 anni nel 2020, per arrivare alle previsioni di 50,8 anni nel 2030:
- hai voglia di parlare di politiche di back-shoring nel nostro Paese: chi ci metteremo a lavorare nelle fabbriche moderne e tecnologicamente avanzate?;
- hai voglia di parlare di strategie di internazionalizzazione delle fabbriche italiane ispirate a logiche smart-shoring o di next-shoring: come individuare il Paese più adeguato o conveniente dove localizzare gli impianti?
- hai voglia di parlare di strategie di innovazione di prodotti e processi in un Paese (l’Italia) che tra 10 anni avrà metà della popolazione sopra i 50 anni: è mai possibile che chi guida il Paese non affronti di petto (e non lo abbia fatto fino ad ora) il tema di come attirare persone qualificate dalle parti del mondo dove ce ne sono in abbondanza e chi manda avanti il Paese (il sistema delle imprese e le Parti Sociali) non abbia ancora elaborato in modo diffuso politiche di region branding e di employer branding?
Non possiamo non voler bene alla Germania
È noto a tutti che alcuni settori che hanno una elevata concentrazione di imprese nel Nord Italia sono di fatto parte integrante della catena produttiva tedesca. La logica implicazione è che la Germania non può fare a meno della componentistica italiana ed è per questa ragione che, in modo più o meno diretto, sostiene gli aiuti all’Italia.
Quindi?
La distribuzione asimmetrica del potere lungo le filiere di fornitura è un fenomeno vecchio come il mondo e non c’entra nulla con il Covid-19. Il punto è che quando l’asimmetria supera certi livelli, si entra in quelle che vengono definite quasi-organizzazioni, in cui le imprese di alcune parti della filiera restano formalmente indipendenti ma sono nella sostanza sotto il controllo strategico di quelle che hanno in mano il potere.
Io mi fermo qui e parlo in astratto. Dario Fabbri, invece, va oltre e ipotizza che si sia «la concreta possibilità di svendita delle aziende locali più ambite». Aver chiare queste connessioni ci ricorda il vecchio adagio, nessun pasto è gratis, che è un concetto di facile comprensione ma di difficile applicazione.
Ma cosa c’entra la gestione d’impresa con la geopolitica?
Aver contezza di tali connessioni, può dare a chi fa impresa una prospettiva diversa di cui tener conto per formulare i piani strategici post Covid-19.
«È vero», si potrebbe dire, «ma non c’è nulla di nuovo, perché queste cose esistevano anche prima della pandemia».
E invece no, non è vero che non c’è nulla di nuovo.
Durante il periodo della pandemia, oltre alle strutture sanitarie e agli altri servizi pubblici essenziali per la società, ci sono state imprese che hanno potuto o dovuto lavorare e per farlo hanno dovuto adattare rapidamente le prassi gestionali interne, sviluppare nuove competenze e nuovi prodotti, riconfigurare i rapporti con le maestranze, le Parti Sociali e la filiera di appartenenza.
In questo arco di tempo (i 70 giorni del lockdown e i 30 giorni di Fase 2, per complessivi 100 giorni) molte imprese sono cambiate in modo significativo e probabilmente in modo irreversibile almeno in termini di Organizzazione e Lavoro.
Resta da fare l’ultimo passaggio, che è appunto quello di creare una connessione tra:
- adattamento dei processi organizzativi, già avvenuto per necessità;
- adattamento dei processi strategici, da realizzare imparando a comprendere quanto basta le variabili della geopolitica e ad utilizzarle quanto basta per formulare piani di sviluppo aziendale tenendo conto dei vincoli e delle opportunità di un convitato di pietra che di nome fa proprio geopolitica.
È evidente che la geopolitica vola alto.
In più, tratta fenomeni che hanno poco a che fare con bilanci aziendali, tecnologie, sviluppo prodotti e così via, ed è anche piuttosto volubile («Se cambia un Presidente o un Ministro e il vento smette di soffiare o cambia direzione e se tu ti trovi in mezzo al guado, resti dove sei o perdi il controllo della direzione di marcia e rischi la deriva»). Ma è proprio per queste ragioni che le dinamiche della geopolitica devono entrare quanto basta nei processi strategici.
E poi, chi l’ha detto che chi fa impresa non possa volare altrettanto alto pur rimanendo con i pieni per terra?
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