Geopolitica

Il futuro della Wagner (e delle altre forze mercenarie russe) ci riguarda eccome

27 Giugno 2023

Capire quale sarà il destino dei mercenari della Wagner non è facile. Nel suo recente discorso televisivo Putin ha detto che potranno mettersi al servizio del ministero della difesa o di altri apparati dello Stato russo, tornare dalle loro famiglie o andare in Bielorussia (una sorta di esilio). Ma andiamo con ordine. Per provare a elaborare qualche scenario guardare al passato può aiutare. Prima di tutto, è utile ricordare che nel corso della storia russa non sono mancati i mercenari con ruoli di rilievo. È il caso ad esempio di Patrick Gordon. Scozzese cattolico, originario dell’impervio Aberdeenshire, nel XVII secolo combatté per la Svezia e la Polonia, e finì per servire il giovane Pietro, lo zar che poi fondò San Pietroburgo e a cui Putin (nato proprio a San Pietroburgo, ex Leningrado) è arrivato persino a paragonarsi.

Infatti è anche la concezione neoimperiale di Putin a spiegare il moltiplicarsi di mercenari e gruppi paramilitari russi. Per Putin, che ha giustificato le aggressioni all’Ucraina (quella del 2014 e quella del 2022) ricollegandosi anche ai miti di Pietro il Grande e di Caterina II la Grande, e avvalendosi in chiave presentista e strumentale di concetti quale la settecentesca Novorossiya, le compagnie militari private (come la Wagner, appunto una ЧВК, acronimo di Частная военная компания) e i gruppi paramilitari sono solo uno dei tanti strumenti che può usare per ripristinare la “dignità” della Russia e riparare i torti del passato. Se Pietro o Caterina II usavano i mercenari, perché non potrebbe usarli lui?

Ovviamente non si tratta solo di tradurre in realtà narrative revisioniste, e di emulare le gesta degli zar. Ci sono pure ragioni più prosaiche. Putin è tendenzialmente un pragmatico, nei suoi metodi. Nei suoi oltre quindici anni da membro del KGB ha interiorizzato la “cultura” cinica di un’organizzazione responsabile di gigantesche violazioni dei diritti umani, ma orientata ai risultati e all’efficienza. E infatti, come si legge nell’Annual Threat Assessment of the U.S. Intelligence Community del 2021, «le compagnie militari e di sicurezza private gestite da oligarchi russi vicini al Cremlino estendono il raggio d’azione militare di Mosca in modo low-cost, permettendo alla Russia di disconoscere il suo coinvolgimento e di prendere le distanze dalle perdite sul campo».

Ma torniamo per un attimo a Patrick Gordon. Veterano delle campagne contro gli ottomani nell’odierna Ucraina, Gordon contribuì a scongiurare un colpo di stato contro Pietro da parte della principessa Sofia Alekseevna, nel 1689. E nel 1698 fu decisivo nel fermare la rivolta degli strel’cy (moschettieri), in collera con il potente generale Šein e altri personaggi apicali; i moschettieri marciarono su Mosca e furono sconfitti nei pressi del monastero della Nuova Gerusalemme, a Istra (ecco qui un altro tratto non così raro nella storia russa: la “marcia sulla capitale” contro i politici o i funzionari disonesti – una volta sono Šein e i suoi amici, un’altra i bolscevichi alleati con Kerenskij, un’altra ancora il ministro Shoigu e altri militari, politici e oligarchi corrotti).

Gordon non fu un caso unico. In generale nel XVII secolo i mercenari europei giocarono un ruolo fondamentale nel trasformare il modo russo di fare la guerra, come si vide forse già nella battaglia di Dobrynichi del 1605. Si trattava di veterani, che magari avevano combattuto in “zone calde” come la Germania della Guerra dei Trent’Anni, e che potevano essere usati ad esempio nelle guerre contro gli ottomani a sud. Nel 1631 a Mosca c’erano molte migliaia di mercenari.

Anche nel XVIII secolo i mercenari occidentali diedero il loro contributo agli eserciti e alle flotte dell’Impero russo. È il caso ad esempio di Karl Heinrich di Nassau-Siegen, che servì Caterina II, seppur con meno successo del napoletano-spagnolo José de Ribas; quest’ultimo si distinse nella lotta contro i turchi, ed è considerato il fondatore di Odessa (la città ucraina ha ancora oggi una strada che si chiama Дерибасівська, Derybasivska). Un altro mercenario impiegato in quella che oggi è l’Ucraina fu John Paul Jones, “padre della Marina americana” oggi sepolto ad Annapolis. Jones brillò nella lotta contro i britannici, ma non piacque molto né alla zarina né al potente Potëmkin, e cadde in disgrazia. E dire che aveva dato un contributo non irrilevante alla lotta della flotta russa contro i turchi.

Nella storia russa (e non solo in essa: si pensi alla vicenda del grande mercenario Wallenstein, ucciso per ordine degli Imperiali che aveva servito così a lungo) è accaduto spesso: il destino di un capo mercenario è dipeso non soltanto dalle sue abilità militari, ma dalla sua capacità di rimanere in buoni rapporti con lo zar, o comunque con un influente referente a corte, come Potëmkin. Certo, essere stranieri non aiutava: persino i bolscevichi, così inclini all’amicizia tra le nazioni, provavano una certa diffidenza per i soldati stranieri nell’Armata Rossa, durante la Guerra civile.

Mi si obietterà che Prigozhin, il fondatore e dominus della Wagner, è russo, nato a Leningrado come Putin; però ha origini ebraiche, e purtroppo un certo antisemitismo è ancora oggi una caratteristica di parte della classe dirigente russa. Essere ebrei in Russia non è come esserlo negli Stati Uniti. Rende un outsider, marchia. Non a caso a maggio l’ultranazionalista, neozarista Igor Girkin, ex membro dell’intelligence militare, ha accusato Prigozhin di non essere un vero russo, e ha ricordato che egli ha origini ebraiche come la maggioranza dei bolscevichi [sic].

In ogni caso nella Russia di oggi il rapporto che conta è quello con Putin o con uomini chiave della sua cerchia. La parabola di Alexander Zaldastanov, detto “il Chirurgo” per i suoi studi di medicina, è degna di nota: leader di un gruppo di motociclisti ultranazionalisti, virilisti e ultraortodossi dai tratti marcatamente paramilitari, i Lupi della Notte, nel 2013 ha ricevuto da Putin l’Ordine dell’Onore e nel 2014 ha collaborato alla conquista della Crimea, guadagnandosi una medaglia per “la liberazione della Crimea e di Sebastopoli”. Poco familiare al pubblico italiano, è stato per anni uno dei personaggi più celebri in Russia, e ai suoi eventi (ricchi di bandiere della Marina militare russa e dello Stato russo, e di vessilli con il nero e l’arancione dell’Ordine di San Giorgio) ha partecipato Putin in persona.

Come si accennava sopra, il proliferare di gruppi paramilitari e milizie mercenarie è iniziato ben prima dell’aggressione russa all’Ucraina del 2022: un elemento della più ampia strategia di “guerra ibrida” portata avanti da Putin e dagli uomini della sua cerchia, prezioso anche perché in grado di fornire la cosiddetta “negabilità plausibile” (plausible deniability). Un elemento che si confà alla logica revisionista e neoimperialista della politica estera putiniana, che però non è aliena anche a calcoli di convenienza politica e a mere pratiche estrattive. Bellum se ipsum alet, si diceva un tempo: l’informale ma redditizio impero della Wagner in Africa non ha solo rafforzato il peso della Russia nel continente (e contribuito a destabilizzare l’Africa), ma ha anche arricchito la Wagner e i suoi referenti in alto loco.

La “feudalizzazione” della Russia di cui si parla oggi in realtà è ripresa circa un decennio fa, ed è in linea con le specificità del vertice del regime putiniano, che non è mai stato un blocco monolitico, ma piuttosto un mosaico di diverse fazioni: ci sono i siloviki; i boiardi di Stato ai vertici dei colossi statali dell’energia, degli armamenti e così via; gli alti burocrati; i tecnocrati; gli oligarchi; i capi delle forze armate e delle agenzie di intelligence e di sicurezza. Ancora, c’è la cricca di San Pietroburgo e c’è quella di Mosca, perché non è solo l’Italia ad avere due capitali…

Se nei primi anni Duemila la Russia putiniana poteva (faticosamente) spacciarsi ancora per una democratura difettosa ma che cercava di guardare all’Europa, e nel 2008 (due anni dopo il brutale assassinio della Politkovskaja) c’era chi in Occidente vedeva il nuovo presidente (di San Pietroburgo) Medvedev come un modernizzatore (ricordo bene il genuino entusiasmo di importanti tecnologi europei che sognavano di aprire un laboratorio al centro innovazione di Skolkovo), dal 2014 (anno della prima aggressione all’Ucraina) in poi nulla è stato più come prima.

La stessa Wagner è emersa durante le prime operazioni in Donbass. Ma non c’è solo la Wagner, e non c’è solo il Donbass. Meritano di essere citate almeno altre due compagnie private (ЧВК): la ENOT ChVK, che avrebbe operato (oltre che in Ucraina) in Siria, in Nagorno-Karabakh e altre aree almeno sino al 2019; la Patriot, che sembrerebbe avere legami con le forze armate russe, e avrebbe combattuto in Ucraina, in Siria, in Africa e in Yemen. Rispetto alla Wagner, che ha una “cultura” anticonformista, dato che molti dei suoi veterani sono outsider, teste calde, neopagani ecc., la Patriot ha fama di essere più disciplinata e impregnata di ethos militare. Naturalmente tra Patriot e Wagner non corre buon sangue.

La Siria è senz’altro stata un’ottima palestra per queste compagnie militari private, un po’ come la Germania della Guerra dei Trent’Anni lo fu nel XVII secolo. Non a caso Prigozhin, sorta di “impresario della guerra” come (mutatis mutandis) certi condottieri rinascimentali italiani o il già citato Wallenstein, ha costruito la Wagner operando nei contesti preferiti da certi intraprendenti che si fanno da soli: le terrae nullius, in senso letterale (la Siria Stato fallito, certe regioni dell’Africa) o metaforico (ad esempio i grandi spazi del web; ricordiamo che il motto della Silicon Valley è move fast and break things). Per certi versi si potrebbe considerare la Wagner una delle aziende russe più di successo degli ultimi vent’anni…

Delinquente da ragazzo (la sua carriera criminale gli valse la galera, ma anche contatti che si sarebbero rivelati preziosi da adulto), nella hobbesiana Russia post-sovietica Prigozhin seppe trasformarsi in un ristoratore di successo, in un momento storico in cui (come ha ricordato l’Economist di recente, citando Michail Chodorkovskij) ristorazione e crimine organizzato erano intrecciati, e spesso l’unica legge era quella del più forte. Grazie al suo apprendistato da imprenditore il “cuoco di Putin” ha saputo acquisire competenze e sviluppare qualità non frequenti nell’esercito russo: intraprendenza, leadership, creatività nelle soluzioni, capacità di problem-solving e di pensare fuori dagli schemi; competenze e qualità necessarie per operare in teatri così complessi e diversi tra loro come l’Ucraina, la Siria e la Libia (a margine si noti che dai tempi della Guerra di secessione anche i presidenti statunitensi spesso scelgono, come segretari della difesa o per altri ruoli apicali, manager e imprenditori di successo; e uno dei punti di forza della Silicon Wadi israeliana sono gli ex militari diventati startupper).

Ma rispetto al Donbass, alla Libia, alla Siria o all’Africa subsahariana, l’aggressione del 2022 all’Ucraina è tutta un’altra cosa. Non si tratta più di “piccole guerre”, possibilmente lontane dalla Russia. La guerra russo-ucraina oggi in corso è un grande conflitto regionale con ricadute continentali e globali. La sua magnitudine, che ha avuto effetti profondi sull’economia e sulla società russe, ha acutizzato tendenze già in atto, come la sopracitata “rifeudalizzazione” della Russia, iniziata negli anni ’90 con il crollo dell’URSS e arrestata inizialmente proprio da Putin. Un esempio lampante è la notizia, a febbraio, della creazione da parte di Gazprom Neft di una compagnia di sicurezza, ufficialmente per la protezione delle proprie infrastrutture (in effetti suscettibili di attacchi da parte ucraina).

Da quando Kyiv ha lanciato la sua attesa controffensiva le cose si sono fatte ancora più dure per i soldati (e i mercenari) russi al fronte. E forse anche questo, oltre all’ormai notissima decisione di assorbire i mercenari della Wagner nell’esercito russo a luglio, potrebbe aver innescato la poi interrotta “marcia su Mosca” di Prigozhin (che, sostiene ora il capo della Wagner contraddicendo quanto dichiarava solo pochi giorni fa, non aveva l’obiettivo di rovesciare il regime putiniano ma solo esprimere una protesta).

Come andrà a finire? Se Prigozhin non riesce a rattoppare i rapporti con Putin (e sarà senz’altro molto arduo, per non dire impossibile), per lui non c’è futuro in Russia, almeno finché Putin vivrà. Per lui l’esilio o la morte sono le possibilità più concrete, dato che la minaccia del carcere è venuta a cadere. Un mercenario affidabile come Patrick Gordon può sperare di invecchiare onorato e stimato al fianco del suo signore; un mercenario problematico come John Paul Jones, o smodatamente ambizioso (e falso – così diceva il cancelliere svedese Axel Oxenstierna) come Wallenstein, è destinato a finire in disgrazia, oppure peggio.

Putin può forse tollerare che i suoi nemici vivano (guardandosi le spalle per sempre) negli Stati Uniti o a Londra, ma non che stiano in Russia. La Bielorussia non è la Russia, così come l’Irlanda non è l’Inghilterra e il Ticino non è la Campania, ed è improbabile (contrariamente a quanto detto anche da intelligenze acuminate) che essa si trasformi in una sorta di Stato-fantoccio di Prigozhin. La Bielorussia potrebbe invece essere una tappa intermedia di un esilio che magari il mercenario concluderà nel Golfo, in Turchia o altrove.

E i mercenari della Wagner? I veterani della guerra in Ucraina sono materiale umano prezioso, e in un momento così delicato per le sorti della guerra sarebbe folle, per Mosca, privarsene. Lo ha detto chiaramente il capo della Commissione Difesa della Duma Andrej Kartapolov, come riportato in Italia da Daniele Raineri su Repubblica. Quanto ai membri “africani” della Wagner, danno un contributo essenziale all’influenza russa in Africa, compresa quella Libia che tanto preoccupa noi italiani.

Può anche essere, come si è letto, che a Prigozhin sarà consentito di conservare (dalla Bielorussia) la guida del suo impero informale in Africa (il dittatore bielorusso Lukashenko e i suoi, di sicuro, vorranno la loro fetta); ma i membri “africani” della Wagner che sceglieranno la Bielorussia dovranno probabilmente rinunciare, almeno per un po’, alle loro vite in Russia, con tutto ciò che ne consegue anche in termini affettivi e personali. Intanto sembra che in Bielorussia si stiano allestendo dei campi per accogliere i mercenari, cosa che ovviamente preoccupa la vicine Polonia e Lituania, che hanno già aumentato le misure di sicurezza ai loro confini, e probabilmente saranno inclini a palesare le loro ansie al vertice NATO di Vilnius a luglio.

I membri della Wagner impiegati contro gli ucraini potranno continuare a combattere (e a guadagnare), prendendo però ordini da Shoigu (o da chi gli subentrerà, prima o poi). Anche per questo, forse, molti membri della Wagner hanno dato del traditore a Prigozhin, dopo che la marcia è stata interrotta. Una parte di loro magari sognava un regime change che avrebbe posto fine alla guerra in Ucraina, o almeno rimodulato la conduzione della guerra a loro vantaggio.

E proprio i mercenari (della Wagner, della Patriot ecc.) sono una delle tanti ragioni per cui nessuno, in Occidente, dovrebbe auspicare una guerra civile in Russia e/o uno sgretolamento dell’enorme Stato. Sia il primo scenario che il secondo sono al momento improbabili (come ho scritto proprio su questo giornale, e twittato anche di recente). Ricordiamo che la Russia, nella sua storia, non ha esportato solo truppe irregolari, consiglieri militari e milizie volontarie (ad esempio in Asia centrale o nei Balcani, nella seconda metà del XIX secolo) ma anche mercenari.

È il caso di Konstantin Nechaev, ex ufficiale dell’esercito dello zar ed ex uomo dell’Armata bianca anti-bolscevica che finì a guidare una temibile forza di mercenari in Cina per conto di Zhang Zuolin e la cricca del Fengtian, nel cosiddetto Periodo dei signori della guerra. Quando la guerra in Ucraina finirà di novelli Nechaev ne avremo non pochi. Dove andranno? Che cosa faranno? Per ora alcuni di loro metteranno presto le tende non lontano dai confini della Polonia e della Lituania, e quindi della UE. E nell’improbabile caso che scoppiasse una guerra civile in Russia, o che lo Stato russo collassasse, i mercenari e gli “impresari della guerra” russi potrebbero non solo cercare di ritagliarsi un loro dominio statale in Russia, ma seminare morte e violenza dalla Bielorussia all’Afghanistan, dal Caucaso alla Mongolia, dalla Siria alla Libia, riuscendo magari a mettere le mani anche su qualche arma nucleare. Diventerebbero agenti del caos. Uno scenario terribile, che potrebbe destabilizzare l’intera Eurasia, e giustificare interventi militari cinesi (e indiani, iraniani, turchi ecc.) di “pacificazione” nell’Estremo Oriente russo, in Siberia, in Asia centrale, nel Caucaso.

Anche per questo motivo l’Occidente dovrebbe lanciare una grande iniziativa diplomatico-economica di messa in sicurezza dell’intera Europa orientale, oltre a sostenere l’eroico sforzo bellico di Kyiv. La Russia non deve collassare o frantumarsi, ma fermarsi, negoziare almeno un armistizio con l’Ucraina (che sia accettabile per Kyiv), intraprendere sua sponte un percorso di riforme socialdemocratiche che nel giro di trenta o cinquant’anni la portino a  livelli di benessere e democrazia paragonabili a quelli nordeuropei. Così come si dice che l’Italia è too big to fail dal punto di vista finanziario, la Russia è too big to collapse dal punto di vista geopolitico: il vuoto russo sarebbe probabilmente colmato dalla Cina (che diventerebbe una reale superpotenza, con risorse gigantesche) e da medie potenze autoritarie già oggi piuttosto aggressive verso l’Europa.

 

 

cover: Prigozhin Press Service, source: web

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