Geopolitica

Europa 2050, il tramonto di un continente raccontato dal futuro

3 Luglio 2015

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo  “L’eurocatastrofe”, capitolo IV del saggio “India, Cina e Stati Uniti, corsa a tre per l’egemonia globale” di Subrata Ghosh, edito nel 2050 da Milanese Libri, pp. 385, 85.000 lire

 

Il 2015 passò alla storia come l’anno in cui l’Unione Europea iniziò a implodere. Il default della Grecia, e il suo ritorno alla dracma, fu soltanto il primo atto di quella che lo storico canadese Richard Haglund avrebbe definito «la tragedia di un Occidente minore» (The History of the Decline and Fall of the European Union, Harvard University Press). Trentacinque anni dopo, il sogno dell’unificazione europea è ormai finito nella pattumiera della storia, insieme al Sacro Romano Impero, al socialismo reale e alle Nazioni Unite. Sacrificando la moneta comune all’altare dell’intransigenza l’Europa, che nel 2014 vantava ancora il più alto PIL della Terra, si era condannata alla marginalità economica, politica e militare. Sic transit gloria mundi.

Una parabola tragica per un continente che agli albori del XX secolo dettava legge su gran parte del pianeta. Nelle trincee della Prima Guerra Mondiale l’Europa aveva perso la sua supremazia, e aperto la strada a Usa e Urss (“Occidente artificiale” e “Oriente artificiale”, per citare il filosofo sudafricano James Byhill). Ad Auschwitz e nel Bengala il continente aveva dissolto ciò che restava di un retaggio millenario di (presunta) superiorità morale, culturale e civile. Infine, con la crisi economica («autoprovocata», secondo Thomas Piketty, economista francese allora in voga) e il collasso dell’eurozona, erano stati smantellati in un sol colpo i welfare state nazionali e ogni ideale di unificazione europea. I partiti socialdemocratici europei avevano così perso quasi ogni ragion d’essere, orbati dei due loro principali cavalli di battaglia elettorali: l’assistenzialismo statale e l’unica utopia accettabile per i ceti medi.

1914-2015: 101 anni, tanto era durata l’agonia dell’Europa potenza globale. Un secolo di lotte fratricide, iniziato nei Balcani con due colpi di pistola, e conclusosi sempre nei Balcani con le code ai bancomat. «La Grecia ha commesso il più grande errore della sua storia» era stato il commento a caldo di Jean-Claude Junker, ex primo ministro del Lussemburgo (microstato inglobato dalla Francia nel 2037) e penultimo presidente della Commissione europea. «Era dalla battaglia di Salamina che la Grecia non si batteva con tanto eroismo per la libertà degli europei», aveva twittato entusiasta il sindaco di Londra Johnson. Il tweet del futuro primo ministro era stato ripreso dagli euroscettici di tutto il mondo. L’hashtag #thanksgreece aveva furoreggiato per settimane.

«Ora tocca al popolo francese dire no all’Europa delle burocrazie, della guerra economica e delle false monete» aveva tuonato da Domrémy la leader del Front National Marine Le Pen, che avrebbe perso le presidenziali del 2017 per un soffio, costringendo però Nicolas Sarkozy a spostarsi così a destra che il settimanale The Economist avrebbe definito la signora Le Pen “the moral winner” delle più importanti elezioni francesi dal 1958. Il crollo delle borse aveva fatto volare lo spread tra BTP e bund a 300 punti base, e nel novembre di quello stesso anno il governo Renzi, per non essere superato nei sondaggi dal movimento populista M5S, aveva minacciato l’uscita dell’Italia dalla UE (la quasi palindromica “Itexit”) se Bruxelles non si fosse mostrata più sensibile alle richieste di Roma in materia di immigrazione, deficit e aiuti alle imprese.

Di fronte alle rigidità francesi e tedesche Renzi rispose con una mossa che stupì persino New Delhi e Washington. Nel maggio 2016 i capi di stato e di governo di Italia, Spagna, Turchia, Albania, Croazia, Algeria, Cipro, Malta, Egitto e Tunisia si riunirono a Venezia per lanciare l’Alleanza Mediterranea, «una partnership economica, commerciale e politica per rilanciare il grande spazio mediterraneo, e dialogare con tutti i paesi a sud e a est di questo nostro comune mare». Una lampante apertura alla Russia di Vladimir Putin e, soprattutto, alla Grecia paria internazionale. Un ennesimo chiodo nella bara della UE.

Decenni dopo autorevoli storici ed economisti indiani, americani e inglesi avrebbero espresso un giudizio severo su Junker, sull’inflessibile cancelliera Merkel e soprattutto sul presidente francese Hollande, responsabile di aver “perso l’Italia e la Spagna” al summit di Rotterdam. Certo, neanche il loro giudizio su Tsipras e Varoufakis sarebbe stato tenero, ma i principali responsabili dell’eurocatastrofe non stavano ad Atene, bensì a Bruxelles, Berlino, Parigi e Francoforte. Come avrebbe scritto l’economista Mahendra Rasool, «usare come capri espiatori del collasso europeo due politici inesperti di un piccolo paese poteva forse ingannare i contemporanei, ma non i posteri» (Aftershock: the eurocollapse and India’s rise, Varanasi University Press).

Proprio in quel periodo l’ex primo ministro italiano Romano Prodi, europeista convinto, aveva avvertito i connazionali: «Sono davvero troppi in Europa i segnali di disgregazione. E se si leva un vento di disgregazione, non lo ferma nessuno». Ironia della sorte, a soffiare sul fuoco della disgregazione avevano contribuito con entusiasmo pure quei paesi dell’Europa orientale, come Polonia e Ungheria, di cui Prodi aveva fortemente caldeggiato l’ingresso nella UE. Budapest fu il primo paese membro ad avviare formalmente le procedure per uscire dalla UE.

Con il senno di poi, si può dire che il declino dell’Europa fosse quasi inevitabile. Numerosi studi e ricerche di inizio XXI secolo avevano evidenziato le fragilità del Vecchio continente. Che era, già allora, appunto vecchio: nel 2013 il 21% dei tedeschi e degli italiani, e il 18% dei francesi aveva 65 anni od oltre, contro il 14% degli americani, il 9% dei cinesi, il 5% degli indiani e degli indonesiani. «Grecia, Portogallo e Germania vedranno la loro forza lavoro disponibile diminuire di oltre un quinto, passando tra il 2014 e il 2050 rispettivamente da 4,8 milioni a 3,8 milioni, da 5,2 milioni a 4,2 milioni e da 45 milioni a 35 milioni. Come gruppo, le economie europee emergenti (con alcune eccezioni, inclusi il Kazakistan e la Turchia), subiranno persistenti declini della loro forza lavoro, tra il 20% e il 30%», scriveva l’Economist Intelligence Unit in un’analisi proprio del 2015.

Sempre l’Economist Intelligence Unit pronosticava (correttamente) che, nel 2050, nella top ten delle economie più forti del mondo ci sarebbero stati Cina, Stati Uniti e India, seguiti da Indonesia, Giappone, Germania, Brasile, Messico, Regno Unito e Francia. Con un caveat: il PIL di ciascuna delle tre superpotenze economiche sarebbe stato comunque superiore alla somma dei PIL delle cinque potenze successive. I tre grandi europei, fino a poco tempo prima ai vertici delle classifiche economiche alle spalle solo di USA, Cina e Giappone, sarebbero stati superati dall’India e dal Brasile, nonché da paesi marginali come l’Indonesia e il Messico. L’Italia, che ancora nel 1992 era la quinta potenza industriale del mondo, veniva cacciata dalla top ten, la Russia e la Spagna idem.

A trent’anni dall’eurocatastrofe, l’Europa è solo il pallido ricordo di se stessa. L’Italia, che già nel 2015 era immersa in una drammatica stagnazione economica (basti pensare che dal 2000 al 2014 il suo PIL era diminuito del 1,2%), ricorda oggi ciò che era la Grecia prima del tracollo: un paese che vive di turismo e agricoltura, con una spesa militare intorno al 4% del PIL. Grazie alla sua marina militare, che contende a quella turca il titolo di “regina del Mediterraneo”, Roma tiene a bada i flussi migratori da Africa subsahariana e Asia centro-meridionale, incassando in cambio i generosi sussidi dei nordeuropei. La fine del mercato europeo e il ritorno alla lira (con conseguente inflazione), hanno ri-orientato la produzione industriale italiana verso il Medio Oriente e l’Africa, ma nel complesso tutto il Nord Italia sta subendo un significativo processo di de-industrializzazione, paragonabile a quello vissuto cinquant’anni prima dagli stati americani della cosiddetta Rust Belt. Compensano, ma solo in parte, il boom delle commodity agricole (grano, soia, riso, olio) e il crescente numero di turisti cinesi, indiani, nigeriani e arabi in città turistiche come Venezia, Firenze, Milano.

Nonostante la concorrenza in ambito turistico, partner privilegiato di Roma rimane Madrid. Come hanno evidenziato autorevoli commentatori, l’asse delle due I ha la leadership sul mar Mediterraneo. L’Unione Iberica, definita dall’ex presidente statunitense Rubio «una mossa stupida, come due ubriachi che per non cadere si appoggiano l’uno all’altro», ha finora superato l’esame severo della storia, annacquando il nazionalismo catalano e basco in un calderone dove la mite comunidade autónoma portoghese è la prima per popolazione e PIL. Come nel caso italiano, anche l’economia iberica si fonda su turismo e agricoltura; l’unica eccezione è la capitale esecutiva Madrid che, intercettando i flussi di denaro africano attraverso i paradisi fiscali di Ceuta e Melilla, si avvia a diventare il quarto hub finanziario d’Europa dopo Londra, Francoforte e Istanbul. E come i ricchi egiziani e sauditi comprano casa nelle Cinque Terre o al Lido di Venezia, così brasiliani, messicani e angolani hanno eletto Barcellona e Lisbona a loro residenza vacanziera, alimentando un boom del ladrillo [mattone, n.d.t] che non accenna a sgonfiarsi.

Mentre italiani e iberici, nonostante tutto, godono di un reddito pro capite superiore agli 80mila dollari, e una qualità della vita passabile, i francesi temono di fare la fine del Pakistan. L’elezione di Elvìs Mortreux a presidente, nel 2032, ha messo a dura prova la tenuta delle istituzioni democratiche francesi. Solo il golpe bianco del generale Berger nel 2038 ha scongiurato una probabile guerra civile tra gli ultranazionalisti pro-Mortreux e i repubblicani filo-tedeschi. In realtà si può dire che il paese sia spaccato: il mezzogiorno, e in particolare la Paca e la Corsica, è sempre più integrato nel sistema economico mediterraneo guidato da Roma e Madrid; l’ovest e l’area metropolitana di Parigi, ossia le regioni più avanzate del paese, guardano all’Inghilterra, vogliono abolire i dazi doganali e chiedono una maggior collaborazione con la Germania; l’est ultranazionalista invece continua a parteggiare per Mortreux, e sogna di riportare la Francia ai suoi “antichi confini nazionali” (non soddisfatti del già citato Lussemburgo, puntano al Belgio meridionale, al piccolissimo principato-satellite di Montecarlo e alla Val d’Aosta italiana). Dopo l’assassinio del presidente Rosenthal da parte di un fanatico anti-Islam, il mondo attende con trepidazione le presidenziali straordinarie del 2051; l’Unione Scandinava si è offerta di mandare degli osservatori per monitorare il corretto svolgimento delle elezioni, Cina e Stati Uniti temono che la force de frappe finisca in mani sbagliate.

Dopo il collasso della UE, e la secessione scozzese nel 2025, il regno di Inghilterra e Galles vive quello che è stato definito dall’ex primo ministro Darvill un periodo di “very splendid isolation”: la City è senza ombra di dubbio la principale piazza finanziaria mondiale, la “Oxbridge Valley” è uno dei maggiori poli di innovazione a est di Boston e re Giorgio VII è una star globale. Soprattutto, la politica di “neutralità attiva” inaugurata nel 2030 ha permesso a Londra di ridurre di quasi due terzi la sua spesa militare, nella convinzione che la ferrea alleanza con Washington e un buon dispositivo nucleare bastino e avanzino («La Svizzera con i missili», fu la fulminante definizione coniata dal Nobel per la letteratura Emmanuel Carrère).

Ma la vera vincitrice dell’eurocatastrofe è stata la Germania. Berlino oggi è senza dubbio lo stato europeo più ricco e progredito, con un PIL di poco inferiore a quello del Brasile. Le economie dell’Europa centrale e orientale, a cominciare dall’Ucraina “tigre dell’est”, sono ben integrate nell’economia neo-manifatturiera tedesca, alla pari di quelle alpine, scandinave e baltiche. Il neuro, la moneta comune voluta da Berlino in sostituzione del fallimentare euro e oggi adottata da diciannove paesi della Federazione del Nord (incluse Olanda, Svizzera, Polonia e Ucraina), è la valuta più forte del mondo dopo lo yuan, e permette a orde di pensionati con gli occhi azzurri e la carnagione pallida di vivere come nababbi nelle assolate cittadine italiane e iberiche. Il tedesco è la lingua più studiata da Lisbona a Kiev, Pechino considera la Germania una “potenza regionale affidabile”, la nazionale di calcio tedesca ha vinto due mondiali di fila (Groenlandia 2046 e Uzbekistan 2050). Purtroppo le crescenti tensioni tra Berlino e Mosca fanno temere che un giorno si arrivi a una vera e propria escalation militare tra le due nazioni (secondo stime della CIA, l’arsenale nucleare tedesco è il settimo del pianeta, pari a quello coreano). Ma come diceva il genio dell’economia Milton Friedman, «there is no such thing as a free lunch».

 

 

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