Geopolitica
Erdogan senza limiti
La lunga notte della Turchia, iniziata con il tentato golpe, non sembra ancora finita. Ad oggi, le uniche certezze sono i numeri. Impressionanti. Durante gli scontri nella notte tra il 15 e il 16 luglio scorsi, sono morte 271 persone. Nel corso delle ultime due settimane, sono più di 18mila le persone fermate, oltre 10mila quelle arrestate. Circa 70mila persone sono state sospese dalle proprie funzioni, o licenziate, nel settore pubblico, nel settore dell’educazione, dei media, della sanità, nell’esercito e nella magistratura; l’esecutivo ha assunto il controllo dell’esercito e sta valutando il ripristino della pena di morte.
Tra tutti i settori della società civile colpiti, spicca in particolare quello dei media. I numeri sono senza precedenti, considerando che dopo i casi numerosi, ma isolati, del passato, nelle ore successive al golpe sono state emesse ordinanze restrittive, o chiusi, o commissariati 15 magazine, 29 case editrici, 45 quotidiani, 23 stazioni radio, 16 canali televisivi, 3 agenzie di stampa. Con ben 47 giornalisti in manette, ripresi dai colleghi in fila indiana e in manette tra due ali di poliziotti.
Un quadro fosco, reso ancor più inquietante dal fatto che non sembra affatto finita. È evidente infatti come Erdogan ha deciso di chiudere la partita con il predicatore Gulen, vecchio sodale, che può da sempre contare su una fitta rete di sostenitori, che Erdogan ritiene una sorta di inaccettabile (almeno ora che i rapporti tra i due si sono incrinati) ‘stato ombra’.
Gli Stati Uniti, che offrono protezione a Gulen, secondo la lettura aggressiva di Erdogan, sono da cosiderarsi parte del ‘complotto’ se non collaborano. E anche la storica base Nato di Incirlik, il 31 luglio scorso, è stata al centro di una prova di forza senza precedenti. Ben 7mila uomini, all’alba, l’hanno circondata per quella che l’esecutivo di Ankara ha definito un’ispezione di routine, ma che ha nessuno è sembrata tale.
D’altronde lo stesso comandante della base è tra gli arrestati. Per ora Washington evita uno scontro diretto con Erdogan, con il segretario alla Difesa Usa Ashton Carter che ha dichiarato di come tutto fosse tornato alla normalità, anche perché la base è troppo importante per le operazioni contro Daesh in Siria e Iraq.
Di normale, però, nella Turchia di questi giorni, non c’è nulla. A partire dalla ricostruzione delle drammatiche ore del golpe. Le accuse di un’operazione pilotata, per avere mano libera e scatenare una reazione durissima contro i nemici di Erdogan, restano senza prove. Almeno quanto la lettura contraria di un golpe sventato da reparti fedeli e comuni cittadini. Come potrebbe essere altrimenti, in un Paese che ha tacitato tutti quelli che non si muovono in linea con il governo? Chi dovrebbe condurre un’indagine indipendente su quanto accaduto nella notte tra il 15 e il 16 luglio?
Basti pensare ai giornalisti che avevano accusato i servizi segreti turchi, o una parte di essi, di flirtare con Daesh: sono finiti in manette, senza che nessuno si occupasse di quello che scrivevano. Per non parlare delle inchieste che lambivano, niente affatto lateralmente, il figlio di Erdogan. Tutto in silenzio, tutti in manette.
Al di là delle considerazioni su quanto accaduto, è davvero impossibile pensare che un’indagine seria, senza pregiudizi, possa portare al fermo di 18mila persone in meno di due settimane. Le liste erano, dunque, già pronte?
L’Unione Europea non ha dubbi: il commissario europeo per la politica di vicinato e i negoziati per l’allargamento, l’austriaco Johannes Hahn, ha parlato chiaro a una riunione dei ministri degli Esteri dell’Ue: «Le liste erano pronte da tempo, si aspettava solo il momento di dare il via agli arresti di massa».
Solo che ormai, dopo dieci anni di tira e molla, è sempre più palese come a questo negoziato di adesione non ci credano più né l’Ue né la Turchia. La soluzione soldi e agevolazione sui visti in cambio del controllo del flusso dei migranti pare essere l’unico, vero, accordo che unirà per i prossimi anni Ankara e Bruxelles.
Il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu lo sa bene e, al culmine di una tensione crescente con il governo tedesco (sia per il riconoscimento del genocidio degli armeni che per il divieto a Erdogan di mandare un video messaggio alla manifestazione in suo sostegno dei turchi a Colonia) ha minacciato di annullare l’accordo se non si sblocca il regime dei visti.
Il governo Merkel, in Europa, pare il più determinato a tenere il punto di dignità con Ankara, ma gli altri leader, di fronte allo spauracchio dei profughi che tornano a occupare le prime pagine dei quotidiani, è molto più sensibile a chiudere l’accordo in fretta. Nonostante gli arresti di massa.
Il governo turco, se conta sull’arma migranti per ‘normalizzare’ la situazione in Europa, si concentra sull’evoluzione della crisi internazionale. E dopo la distensione con Israele, si lavora a quella con la Russia.
Oltre alle scuse per l’abbattimento del caccia russo, avvenuta a novembre 2015, il governo di Ankara si è detto pronto a sostenere la famiglia del pilota morto.
Un messaggio chiaro all’Europa. Erdogan non ha intenzione di prestare ascolto alle diatribe sui diritti umani ed è pronto a riprendere i rapporti diplomatici con chi non è sensibile al tema, ma puntare tutto sulla realpolitik, proprio adesso che la questione Assad in Siria (che divideva Ankara e Mosca) sembra avviata a una soluzione, con il regime siriano che resta al suo posto.
Erdogan non ha trascurato neanche il fronte politico interno. La convocazione a palazzo nei giorni scorsi di Kemal Kiliçdarolu, leader del maggior partito di opposizione, laico socialdemocratico (Chp) e Devlet Bahçeli, leader del Partito del Movimento nazionalista (Mhp), per ringraziarli pubblicamente dell’atteggiamento tenuto durante il golpe, è un modo di chiarire a tutti che non si sfrutterà l’occasione per diventare partito unico.
Allo stesso tempo, però, l’esclusione dei vertici del Partito Democratico del Popolo (Hdp), vicino alle istanze libertarie e filo curdo, che pure durante il golpe non ha mai messo in discussione le istituzioni, è un segnale di chiusura totale verso una formazione capace di superare la soglia di sbarramento del 10 per cento alle scorse legislative.
Da subito, la formazione guidata da Demirtas e Yuksekdag è come il fumo negli occhi del presidente turco, anche perché non solo vicina alle istanze curde, ma a molti dei contenuti del movimento che portò migliaai di dimostranti in piazza a Gezi Park nel 2013. Con loro nessuna pietà e nessuna tregua.
Erdogan ha invece bisogno di Chp e Mhp per dare una scossa definitiva alla Costituzione turca: sia per distruggere totalmente la rete di Gülen presente nelle istituzioni sia per apportare cruciali modifiche costituzionali come quella del passaggio del comando dei servizi segreti e del stato Maggiore dell’esercito sotto il suo diretto controllo e resta sempre un suo agognato obiettivo quello del passaggio al sistema presidenziale che gli consentirebbe di avere nelle sue mani anche il potere esecutivo.
Obiettivo che oggi, con il golpe alle spalle, sembra meno proibitivo di ieri, anche perché le opposizioni si sono mostrate morbide e collaborative con Erdogan e trattano non troppo segretamente per ottenere qualcosa in cambio.
Dopo meno di due settimane dal golpe insomma, come si immaginava, Erdogan ha sfruttato la situazione per accelerare la svolta autoritaria che ha in mente da tempo. Ogni ostacolo sarà rimosso, senza pietà.
E al momento, non sembra avere ostacoli, salvo che qualcosa non si muova all’interno del suo stesso partito.
Perché non tutti i papaveri dell’Akp sono convinti che mettersi in guerra con il mondo, dando un’immagine così aggressiva della Turchia, sia un bene. I mal di pancia ci sono, eccome, anche se il sostegno popolare di cui gode Erdogan invita alla prudenza.
La stessa prudenza che deve avere il dibattito in Italia sulla questione della Turchia. Perché il più grande errore che si possa fare in questo momento, è quello di impostare l’analisi dei fatti partendo dal presupposto del governo islamista. Erdogan non tollera opposizioni, ma questo non ha nulla a che fare con la natura confessionale del suo movimento. Ha a che fare con il senso di Erdogan per la democrazia. Non capire questo, è parte del problema.
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