Geopolitica

Energia e immigrati: ecco perché l’Italia non può star fuori dalla Libia

24 Febbraio 2016

Gli interessi italiani in Libia non si limitano al contenimento del flusso migratorio che origina dai suoi porti e al contrasto dello Stato Islamico che si sta espandendo intorno a Sirte. Certo, come tutti anche Roma non vuole un santuario jihadista a poche miglia dalle sue coste e, più degli altri, vorrebbe che la sua ex colonia tornasse ad essere un baluardo contro le ondate migratorie, non un colabrodo. Quest’ultima esigenza diventerà poi tanto più urgente tanto più verrà strozzata – dagli accordi tra Ue e Turchia, e dalla missione Nato nel Mar Egeo  – la rotta attualmente preferita dai migranti, che dall’Anatolia via Balcani li porta in Germania e in nord Europa. Ma, a differenza della maggior parte dei suoi alleati occidentali, per l’Italia il Paese nord africano è fondamentale per almeno altri due aspetti importanti: la questione energetica e l’influenza geopolitica dell’Italia nel Mediterraneo.

La questione energetica si poggia, secondo gli esperti, su due pilastri. In primo luogo l’Italia è l’unico Paese che importa gas dalla Libia tramite il gasdotto Greenstream. Attualmente – nonostante le turbolenze che hanno sconvolto il Paese negli ultimi due anni – la produzione è a buoni livelli e dagli impianti libici arriva tra il 10% e il 15% del totale delle nostre importazioni. Eventuali sconvolgimenti o azioni militari che compromettessero questa infrastruttura causerebbero un rilevante danno strategico per l’Italia. In secondo luogo Eni è proprietaria della maggior parte delle installazioni petrolifere in Libia. Considerato l’indotto che crea l’azienda e il fatto che parte dei suoi profitti finiscono nelle casse dello Stato italiano, eventuali gravi danneggiamenti agli impianti – o la perdita della posizione dominante a vantaggio di altri concorrenti – andrebbero a ledere gli interessi italiani di medio e lungo periodo.

Per quanto riguarda l’influenza geopolitica, si tratta – in concreto – di dimostrare una capacità di ingerenza su questioni economiche e politiche, che hanno il Mediterraneo per palcoscenico, maggiore rispetto ai nostri alleati (ma concorrenti) europei, Francia e Inghilterra in primo luogo, e rispetto ai Paesi Nord Africani e Mediorientali. Nella partita libica sono coinvolti l’Egitto di Al Sisi – importante partner commerciale dell’Italia, dopo la scoperta da parte di Eni del giacimento di Zohr più che mai -, la Tunisia, la Turchia, il Qatar e altre monarchie del Golfo. Accreditare Roma di un potere di interferenza nei processi decisionali degli attori, regionali e internazionali, sulla questione libica le garantirebbe una posizione di rendita anche nel futuro. Gli alleati – americani ed europei – sarebbero infatti costretti a considerare l’Italia come il principale pilastro (Ue e Nato) per portare avanti le loro politiche nel Mediterraneo centrale, e i Paesi Nord Africani e Mediorientali saprebbero di poter trovare in Roma un utile interlocutore.

Finora la linea tenuta dall’Italia ha in parte pagato. A fronte delle pressioni di Francia e Inghilterra per intervenire immediatamente contro l’Isis, con bombardamenti aerei e piccoli nuclei di forze speciali (del resto già presenti sul terreno e – pare – talvolta operativi), l’Italia ha sempre sostenuto che qualsiasi intervento fatto prima che le fazioni libiche – in particolare i due Parlamenti concorrenti, di Tripoli e Tobruk – trovino un accordo tra di loro per un governo di unità nazionale (che magari chieda ufficialmente un intervento straniero di aiuto nella guerra ai jihadisti) si sarebbe rivelato un boomerang. «Al momento l’Isis in Libia è una forza straniera, ma molte fazioni libiche – specie gruppi legati al passato regime – che al momento combattono contro lo Stato Islamico potrebbero diventarne alleate, se cominciassero a cadere bombe occidentali sul Paese», spiega Mattia Toaldo, analista esperto di Libia dell’European Council on Foreign Relations. «Poi, l’embrione di governo unitario libico (benedetto lo scorso 17 dicembre dalla comunità internazionale ndr.) si qualificherebbe subito come irrilevante, se si dicesse contrario ai bombardamenti, o “fantoccio” se invece li appoggiasse». A fronte di tali perplessità la Casa Bianca – pur non rinunciando a raid mirati contro leader jihadisti, per i quali ha ottenuto da Roma anche l’utilizzo della base siciliana di Sigonella – ha per ora sposato la linea italiana (il Pentagono premeva invece per quella franco-inglese). Dal recente incontro tra il presidente Mattarella e il presidente Obama negli Usa, è emerso che nonostante i ritardi del processo politico si intende dare ancora tempo alle milizie e alle fazioni libiche per trovare un accordo il più largo possibile per il governo unitario, prima di rassegnarsi alla soluzione di una campagna intensiva di bombardamenti contro l’Isis (un’eventualità questa per cui sono comunque già stati fatti tutti i preparativi necessari). Il parlamento di Tobruk è chiamato a fine febbraio ad approvare la nuova lista dei ministri presentata dal premier incaricato Sarraj e molto dipenderà dall’esito di quel voto. Per ora pare ancora irrisolto il nodo del ruolo di Khalifa Haftar, generale delle truppe libiche di Tobruk e alleato dell’Egitto di Al Sisi. Non può essere incluso nel nuovo governo perché troppo odiato dalle milizie islamiche di Tripoli contro cui ha combattuto negli ulitmi mesi, ma escluderlo è altrettanto difficile considerata la sua presa sul Parlamento di Tobruk.

La cartina di Limes sulla situazione in Libia a fine dicembre 2015
La cartina di Limes sulla situazione in Libia a fine dicembre 2015

Oltre a presentarsi come più razionale, il piano italiano fa ovviamente gli interessi dell’Italia (o almeno ci prova). Nell’ipotesi – ritenuta possibile ma non probabile dagli analisti – in cui le fazioni libiche riescano a trovare un accordo tra loro, il governo del presidente incaricato Al Serraj nasca sostenuto da un numero significativo di milizie e poteri locali ad oggi ancora fedeli ai Parlamenti di Tripoli e Tobruk, e chieda un intervento occidentale di supporto (contro lo Stato Islamico e non solo), il ruolo guida di tale intervento spetterebbe quasi certamente a Roma. L’Italia sarebbe al vertice della coalizione incaricata di proteggere le neonate istituzioni e di addestrare le nuove forze armate del Paese africano, potendo vantare una superiore conoscenza (e penetrazione) della Libia rispetto agli inglesi ed essendo meno impegnata dei francesi in altri scenari (come la Siria e il Sahel). Con questa prospettiva si può anche spiegare il rifiuto del governo italiano di mandare proprie truppe a sostituire quelle francesi nei vari scenari di guerra al terrorismo all’indomani degli attentati di Parigi: avremmo fatto un favore a un “rivale” che avremmo rischiato di pagare proprio nello scenario libico. Dopo la presa di posizione di Obama, anche inglesi e francesi per ora paiono essere disposti ad assecondare il piano italiano. Da un lato brucia il precedente del 2011, quando l’intervento da loro condotto si rivelò prima insufficiente – dovettero intervenire gli Usa con il proprio apparato bellico per sopperire alle mancanze di quello degli alleati – e poi controproducente, lasciando la Libia nel caos istituzionale e alla mercé di gruppi criminali e jihadisti. Dall’altro il loro interventismo è dettato più da ragioni di propaganda (è necessario dimostrare alle opinioni pubbliche che si fa qualcosa contro l’Isis e contro l’immigrazione) che non di realismo. Oltre che da un mai sopito desiderio di soppiantare l’Italia come primo partner economico della Libia.

Ma se ad oggi la linea italiana ha prevalso, il difficile viene adesso. Alla diplomazia internazionale, e in particolar modo a quella italiana, tocca ora il compito di favorire in tempi rapidi un accordo sufficientemente solido per la creazione di un governo unitario in Libia. Poi sarà necessario insediarlo a Tripoli, sconfiggendo (anche militarmente) le eventuali resistenze delle milizie fedeli all’attuale parlamento islamista della capitale. Quindi, secondo i desiderata dell’Italia, potrebbe iniziare una missione internazionale che sorregga le istituzioni del Paese nella difficile fase iniziale ed eventualmente le aiuti nella guerra contro lo Stato Islamico. Così i numerosi interessi italiani sarebbero tutelati. Ma se il processo si inceppasse in uno qualsiasi di questi passaggi – eventualità ritenuta affatto remota dagli analisti – o richiedesse anche solo troppo tempo, tornerebbero probabilmente a suonare i tamburi di guerra di chi, specie a Londra e Parigi, vuole subito i bombardamenti dell’aviazione contro l’Isis. E non è detto che la Casa Bianca, i cui droni già sono operativi nei cieli di Libia per azioni mirate, si opporrebbe nuovamente a questa soluzione. A quel punto la missione potrebbe avere successo – forse consentendo finalmente a inglesi e francesi di espandere la propria influenza in Libia a danno dell’Italia  – oppure potrebbe avverare le cupe previsioni fatte a Roma: un peggioramento della guerra civile e un’ulteriore espansione dello Stato Islamico. Il tutto di fronte alle nostre coste.

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