Geopolitica
Decapitazioni e innovazione. L’Arabia Saudita dà a Uber 3,5 miliardi di dollari
Il paese in cui le donne non possono guidare finanzia Uber tramite il proprio fondo pubblico d’investimento. Sì, proprio Uber, la super-mega-digital-company che ci suggerisce senza sosta di condannare il conservatorismo dei cattivi tassisti italiani e francesi. Perché essere tassista è contro il progresso, essere tassista è una pretesa reazionaria. Decapitare e crocifiggere dissidenti, omosessuali e apostati, invece, dev’essere il futuro che avanza.
Può sembrare un modo un po’ duro di affrontare la questione, ma non si capisce perché si debba girare cautamente attorno a dei fatti concreti. Fatti che riguardano un paese, l’Arabia Saudita, che ricopre le ultime posizioni in tutte le classifiche mondiali dei diritti umani, pur continuando a godere dell’omertà interessata di una parte del mondo occidentale.
Il PIF – Public Investment Fund è il fondo d’investimento del Regno Saudita. Scopo del fondo è quello di sostenere finanziariamente progetti che abbiano un’importanza strategica nello sviluppo dell’economia saudita. Di conseguenza, il Fondo contribuisce anche a finanziare, più o meno direttamente, il consenso interno e la politica internazionale della monarchia saudita. Questo include la quarta spesa militare al mondo e l’egemonia religiosa del Wahhabismo, la versione ultraconservatrice e fondamentalista dell’Islam sunnita.
Con il contributo di 3,5 miliardi di dollari a Uber, il Public Investment Fund ha messo in atto il suo più grande investimento in un’azienda privata. Il Fondo entra direttamente nel Management Board dell’azienda di San Francisco, nella persona di Yasir Al Rumayyan, Managing Director dello stesso PIF del Regno Saudita e, da ora, a fianco dei vari manager di Uber e del CEO Travis Kalanick.
Oltre ad aver accolto lo stratosferico finanziamento a braccia aperte, a quanto pare il servizio di Uber sta già andando alla grande proprio a Riyadh. Come riporta il New York Times, l’80% dei clienti di Uber in Arabia Saudita è composto di donne, dal momento che le donne hanno continuamente bisogno di qualcuno che le trasporti, visto che se si mettono al volante rischiano di essere condannate a essere frustate o al carcere.
Sia chiaro, Uber ha ogni diritto di perseguire il proprio guadagno e la propria espansione nei mercati di tutto il mondo, raccogliendo i soldi da chiunque glieli voglia dare. Milioni, miliardi e bilioni.
Il problema sorge osservando come la nostra società civile stia accettando supinamente la strumentale narrazione marketing di compagnie che usano l’innovazione come un brand, mentre, alla prova dei fatti, la sola innovazione che importi è quella del ritorno d’investimento.
Se mettiamo a confronto la narrazione progressista di Uber in Europa, da un lato, e la sua splendida passione per i finanziamenti sauditi, dall’altro, possiamo identificare quello che è un comportamento tendenzialmente arrogante di alcune aziende “made in Silicon Valley”. Aziende che pretendono ossessivamente di autoproclamarsi e imporsi come riformatrici sociali, ma poi imbarcano soldi da chiunque. Il che va più che bene, se solo non dovessimo assistere, appunto, alla continua farsa della brandizzazione di presunte etiche aziendali.
L’arroganza della cultura della Silicon Valley non sta nel perseguire comunque e solo il guadagno economico, ma nel fingere costantemente che non sia così. L’arroganza sta nella pretesa di raccontare che l’innovazione tecnologica seguirebbe continuamente delle necessità etiche e umanitarie, quando non segue altro che un basilare e inarrestabile desiderio di denaro. L’arroganza della Silicon Valley sta nella pretesa di imporre culturalmente uno dei paradigmi più letali della nostra epoca, quello secondo cui a qualsiasi progresso tecnologico corrisponderebbe direttamente un progresso sociale.
Per mesi e mesi ci siamo sorbiti la retorica dell’evoluzione sociale e dell’innovazione economica di Uber, ostacolata dal conservatorismo dei nostri cattivissimi tassisti. Tassisti brutti, sporchi e cattivi, che non vogliono permetterci di diventare tutti dei nuovi autisti del mondo libero.
Tassisti la cui sola colpa è, a dire il vero, quella di cercare di difendere con le unghie il proprio territorio economico e il lavoro con cui mantengono le proprie famiglie. Tassisti che certo hanno la sfortuna di essere superati come soggetti economici, ma da cui non ci si può aspettare una resa silenziosa, in una competizione in cui nessuno ha alcun primato etico.
Semplicemente, i tassisti europei contano meno del clero saudita. Quindi: in Europa si finge di voler superare un odioso privilegio, in Arabia Saudita ci si adegua alla discriminazione di genere.
I tassisti europei hanno la sola colpa di cercare di fermare la concorrenza che li ridurrebbe alla miseria.
Fermare la concorrenza. Esattamente quello che sta facendo ora la stessa Uber che, incalzata dalla concorrenza di servizi locali come la cinese Didi Chuxing, ha aperto un round finanziamenti che ha raggiunto la cifra di 62,5 miliardi di dollari (una cifra di cui è parte il contributo del Public Investment Fund saudita).
In quanto alla perlomeno ambigua relazione con il divieto di guida alle donne saudite, la portavoce di Uber Jill Hazelbaker ha dichiarato al New York Times quanto segue:
“Certo che pensiamo che le donne dovrebbero poter guidare. Ma, in assenza di questo diritto, siamo stati capaci di fornire una mobilità che prima non esisteva. E ne siamo incredibilmente fieri”.
Con tutto il rispetto per una professionista che fa il proprio lavoro, questo è un esempio d’impostazione arrogante marchiata Silicon Valley.
Uber si potrebbe limitare a sorvolare sulla questione, in modo da far pacificamente capire che la sola dichiarazione onesta sarebbe: “Eh, sì, in Arabia Saudita le donne non guidano, ma noi entriamo ugualmente nel mercato saudita, ovviamente adeguandoci in base ai rapporti di forza, perché non siamo un’opera di carità, siamo un’azienda, e quindi vogliamo fare tutti i soldi che riusciamo. Non è un mercato qualunque, l’Arabia Saudita è entrata nell’azienda con miliardi di dollari, non possiamo sputarci sopra, non ora, non con i cinesi alle calcagna.”
E, invece, no. Il tentativo è quello di dire che, malgrado il divieto di guida alle donne, Uber riesca addirittura ad aiutarle, tanto da esserne fiera. Il tentativo è quello di dire che, così come ci libera dai tassisti cattivi, Uber libera anche le donne saudite, e lo fa cominciando con l’accogliere 3,5 miliardi di petrodollari nelle proprie casse.
A ben guardare, c’è un altro dettaglio nella dichiarazione di Uber che non può passare inosservato. Si tratta di quel “Certo che pensiamo che le donne dovrebbero poter guidare.” “Certo”. “Of course”, in inglese. In quel “of course” c’è tutta la contraddizione dello strapotere dei colossi internet e del loro danzare continuamente tra le vanterie di responsabilità sociale e la rivendicazione fattuale del loro diritto al profitto incondizionato.
“Of course”, certamente, è scontato. Ma perché? Perché dovrebbe essere certo e scontato che Uber voglia che le donne in Arabia Saudita possano guidare? Secondo quale precedente l’azienda avrebbe dimostrato che una sua posizione del genere possa essere data per “certa”?
Di certo, per ora, c’è solo che Uber ha tutto il sacrosanto diritto di gestire la propria comunicazione aziendale come ritiene opportuno. Altrettanto certo, però, è che chi riceve questa comunicazione abbia il sacrosanto diritto di tracciare il confine tra marketing e realtà. (Nel caso di chi faccia informazione, inoltre, questo diritto dovrebbe essere una qualche forma di dovere).
Per ora, la realtà è che l’Arabia Saudita sembra aver colonizzato finanziariamente un pezzo dell’azienda americana. Ora, Uber è anche una delle pedine del progetto saudita di attuare, entro il 2030, il suo sempre più sbandierato sganciamento dalla dipendenza del petrolio.
Uber è uno dei nuovi protagonisti mondiali del mercato della mobilità. Si potrebbe ipotizzare che l’Arabia Saudita stia cercando nuovi canali d’influenza, visto che il prezzo del petrolio è ai minimi storici e altri produttori internazionali come l’Iran stanno uscendo dalla dannazione commerciale. In pratica, l’Arabia Saudita vuole puntare sull’app che gestirà sempre di più le automobili di ogni città del mondo, dopo essersi garantita per decenni l’omertà occidentale grazie al petrolio che le automobili del mondo le fa muovere.
Tutto legittimo, corretto, e ineccepibile. Tranne che per le emblematiche contraddizioni, come abbiamo detto, nella genuinità della comunicazione con cui Uber ha cercato di affermarsi in Europa e in America in questi anni, riscontrando un entusiastico supporto da gran parte dei media.
Un esempio delle varie contraddizioni potrebbe essere la campagna di marketing che Uber ha lanciato nel giugno 2015, in occasione della decisione della Supreme Court americana, che ha legalizzato i matrimoni omosessuali su scala nazionale. Per celebrare la storica decisione, le macchine raffigurate nell’app di Uber sono state decorate con una scia color arcobaleno. Un dettaglio gay-friendly che non è sfuggito ai tanti che hanno applaudito il brand sui social.
Oggi, però, fa un po’ più paura immaginare come Uber possa celebrare i diritti degli omosessuali nei territori del suo nuovo finanziatore, l’Arabia Saudita. Speriamo che a nessuno venga l’idea, onesta ma macabra, di modificare l’app decorando le automobili con delle scie di sangue, visto che nel paese arabo gli atti di omosessualità sono puniti con la pena di morte.
La legge saudita è strettamente basata sull’interpretazione salafita della Shariah. Una legge che la famiglia reale lascia spesso in gestione alle molteplici autorità religiose locali. Una legge che si basa sul principio di inferiorità legale dei non islamici e per cui le persone atee rientrano automaticamente nella categoria giuridica di “terroristi”.
La morte tramite decapitazione e lapidazione punisce anche reati come l’apostasia religiosa, la supposta stregoneria e l’adulterio. Con la morte può essere punita la diffusione di testi non islamici, ad esempio una copia della Bibbia o una del Tao Te Ching.
Solitamente svolte in pubblico, le esecuzioni possono essere anche collettive, come quella del gennaio 2016, quando 47 civili sono stati uccisi con l’accusa di aver fomentato le proteste anti-governative durante la cosiddetta Primavera Araba del 2011. Quattro dei condannati sono stati fucilati, mentre gli altri 43 sono stati decapitati.
Verso la pena di morte sta andando anche Ali Mohammed Baqir al-Nimr, arrestato all’età di 17 anni. Nel 2014 il giovane è stato condannato a essere decapitato in pubblico con un colpo di sciabola. Il tribunale ha dichiarato che Ali Mohammed avrebbe deliberatamente “incoraggiato proteste pro-democrazia con un BlackBerry”.
Il tribunale ha anche stabilito che, dopo la sua decapitazione, il corpo senza testa dovrà essere crocifisso.
Cose che ci lasciano inorriditi. “Of course”.
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