Geopolitica
Nella Danimarca spaventata dalla crisi climatica (e dalla Russia) oggi si vota
scritto da Gabriele Catania e Benedicte Meydel
Sfogliando il Politiken, autorevole quotidiano danese, ieri ci si imbatteva in una pubblicità dei Socialdemokraterne (socialdemocratici). “Rødt flertal – si leggeva – grøn fremtid”. Tradotto in italiano: maggioranza rossa, futuro verde. E in effetti nel Regno di Danimarca c’è grande preoccupazione per la crisi climatica. Il 30 ottobre decine di migliaia di danesi hanno preso parte alle marce indette dal Klimabevægelsen i Danmark in tredici città diverse; per un regno di appena 6 milioni di abitanti, è come se in Italia scendessero in piazza, da Milano a Palermo, varie centinaia di migliaia di persone.
Oggi nel Regno di Danimarca (da Copenaghen a Århus, da Skagen a Nuuk, in Groenlandia) si vota. Ed è un’elezione dall’esito incerto. Né il blocco rosso guidato dai socialdemocratici della tenace Statsminister (primo ministro) Mette Frederiksen, né il blocco capeggiato dai liberali della Venstre avrà, con tutta probabilità, la maggioranza. Si dice che la vita imiti l’arte; un po’ come nella prima stagione del noto telefilm Borgen, l’ago della bilancia sarà il partito centrista dei Moderaterne (moderati), nuova forza politica fondata dall’ex Statsminister Lars Løkke Rasmussen.
Rispetto a passate elezioni, l’atmosfera è di preoccupazione. In uno dei paesi più prosperi e sereni del mondo non si parla tanto di immigrazione (su quello si è formato, tra i partiti, un consensus piuttosto saldo, e critico verso i flussi migratori) o di scandali come il famigerato Minksagen (il caso dei visoni), ma di energia, geopolitica e clima.
In particolare i danesi sono estremamente preoccupati per il mondo che verrà. Nella campagna elettorale le misure per contrastare il riscaldamento globale, e gli effetti della crisi climatica, sono state tra i temi più dibattuti. Non è una novità. Già nella campagna elettorale del 2019 si era discusso molto di clima, tanto da far guadagnare a quelle storiche elezioni il soprannome di klimavalget. E nel giugno del 2020 il Folketing, il parlamento monocamerale del Regno, a larga maggioranza aveva votato una nuova legge climatica per ridurre le emissioni di gas serra del 70 percento rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030, e per portarle a zero (la cosiddetta “neutralità climatica”) per il 2050.
I partiti danesi propongono ora nuove misure. Per esempio i socialdemocratici chiedono una tassa di 13 corone sui viaggi aerei; il partito dei Moderaterne, a caccia di visibilità mediatica, ha rilanciato proponendo una tassa di ben 80 corone. Il blocco rosso ha anche proposto, pochi giorni fa, in una rara manifestazione di compattezza, di proibire l’utilizzo di pesticidi in un ventesimo della Danimarca, per proteggere le falde; naturalmente la proposta ha fatto storcere il naso agli agricoltori, una potenza economica in un paese famoso (anche) per il suo export di burro, di latte, di carni.
Sanna, trentaduenne svedese in Danimarca da quasi dieci anni, sposata con un figlio, dice: «Il clima è stato, ed è, un tema importante, anche se di mezzo si è verificata la pandemia da Covid-19…». In effetti secondo i sondaggi sembra che il clima sia, dopo la salute, il tema più importante per i cittadini danesi.
Un imprenditore del Sjælland che lavora anche con l’Italia, e che chiede l’anonimato per non far irritare le sue controparti italiane, commenta: «Qui la crisi climatica è un argomento molto rilevante, per i politici ma soprattutto per i cittadini. Mio figlio, ad esempio, non parla d’altro. È un’emergenza, ma anche una grande opportunità di business, e infatti le nostre aziende sono all’avanguardia nelle greentech». E aggiunge: «L’Italia potrebbe essere leader, ma mi sembra che la politica del vostro paese pensi ad altro. E anche i media».
Sidsel (nome di fantasia, per motivi di riservatezza) ha trentacinque anni. Racconta: «Penso che sia giunto il momento di un cambiamento. Personalmente sono a favore di Alternativet [l’Alternativa, ecologisti europeisti]. È un partito che non dice stron**te. La crisi climatica è reale, e dobbiamo metterla in cima all’agenda politica. Non vinceranno le elezioni, ovvio. E Mette [Frederiksen] è OK. Ma penso che dovrebbe fare di più per i temi climatici di quanto non stia facendo oggi».
Oggi nel Folketing siedono ben tre partiti ecologisti: la già citata Alternativet, i marxisti rosso-verdi della Enhedslisten – De Rød-Grønne, e gli ecosocialisti Socialistisk Folkeparti (il Partito popolare socialista, che al Parlamento di Strasburgo siede negli scranni dei Verdi europei); una bella differenza rispetto per esempio alla Norvegia, dove i Verdi hanno appena tre seggi e stanno all’opposizione.
Nella UE la Danimarca è, spesso, una paladina del clima, come si è visto quest’estate, quando Copenaghen ha proposto un piano alternativo a quello della Commissione Europea per interrompere la dipendenza della UE dal gas russo. Soprattutto, alcune delle aziende e delle startup leader a livello internazionale in settori come l’eolico o il trattamento delle acque reflue sono danesi.
Oltre al clima si è discusso molto di bollette, e di geopolitica. Il Baltico è un mare sempre più caldo, a causa delle tensioni tra la Russia e l’Occidente, e in un’isola come Bornholm, forse la più strategica dell’area dopo la svedese Gotland, la sorveglianza da parte delle autorità è massima. Proprio a causa dell’aggressione russa all’Ucraina Copenaghen allocherà più fondi alla difesa, e in un referendum a giugno i danesi hanno votato in modo assai convinto a favore della partecipazione della Danimarca alla cooperazione europea in materia di sicurezza e difesa, abolendo l’opt-out sul tema.
Degna di nota nella campagna elettorale danese è stata la frammentazione dell’offerta politica. Ben quattordici i partiti che oggi chiedono ai cittadini il loro voto. L’esito più plausibile è un governo di centrosinistra. La Frederiksen potrebbe rimanere alla guida del paese. Ma c’è chi ipotizza un colpo di scena, degno di Borgen: ad esempio Rasmussen nuovo Statsminister.
Foto di cover: Pixabay
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