Geopolitica
Coronavirus, così il modello cinese sfida l’idea di Europa
Poche settimane fa, nel concludere una conferenza di un ciclo di formazione rivolto ai docenti di un liceo piemontese, affermavo che la Cina avrebbe fatto di tutto non solo per uscire in tempi rapidi dall’emergenza relativa al Corona Virus, ma avrebbe cercato di sfruttare questa occasione, partita da una situazione drammatica, come promozione della propria immagine di Paese forte, unito, moderno ed efficiente.
Era il 20 febbraio. L’Italia, l’Europa, come il resto del mondo, si presumevano immuni dalla nuova emergenza che sembrava relegata alla Cina o comunque all’Estremo Oriente. Una distanza geografica, e ancor più culturale, davanoall’Occidente nel suo complesso l’impressione che il pericolo fosse lontano o al più aggirabile con alcuni (discutibili) espedienti come il blocco dei voli diretti, l’astensione dai luoghi di ristoro o di frequentazione orientali, punte più o meno evidenti di razzismo.
Si era fermi, come molto spesso accade, all’idea che l’Occidente ha della Cina: quella umiliata dai Trattati ineguali seguiti alle Guerre dell’oppio, magari infarcita di immagini di giovani con il Libretto Rosso e la giacca alla Sun (o per adeguarci all’errore occidentale, alla Mao), corredata di Lanterne rosse a far da sfondo all’Ultimo Imperatore tra un carro armato e l’altro su Piazza Tiananmen.
Un’immagine della Cina totalmente stereotipata, come se fosse immersa in un continuum storico, incapace di vedere le differenze e l’evoluzione di un Paese che negli ultimi settant’anni è passato dalla fame e da un’aspettativa di vita intorno ai 40 anni ai 76 attuali, e ad esser il secondo Paese per PIL al mondo.
Sono trascorse poche settimane e il nuovo virus che abbiamo imparato a chiamare COVID19 ha fatto la sua comparsa in Italia e poi nel resto d’Europa. In questi giorni anche il recalcitrante Trump ha dovuto fare pace con la realtà (forse nemmeno pienamente), ammettendo che questa è una minaccia per gli Stati Uniti ed è serissima, per come è strutturato il sistema sanitario americano.
In queste stesse settimane l’immagine di Paese dannato, quale la Cina era rappresentata inizialmente, è cambiato. Lo scenario intero è cambiato. Poco a poco, ma con sforzi enormi e misure immense (determinati dai fattori numerici, a partire da quello abusato, ma fondamentale, della popolazione) il Paese asiatico sta profilando un’uscita da un’emergenza che sembrava apocalittica e soprattutto lunghissima.
Oggi in molti commentano come il “modello cinese” si sia dimostrato vincente nei confronti di questa emergenza. C’è indubbiamente un dato psicologico in questa affermazione stimolata dalle azioni messe in campo: a partire dall’impressionante sforzo di costruire un nuovo ospedale in pochi giorni sino alla promessa (mantenuta) di aiuti all’Italia per affrontare la propria emergenza. Allo stesso tempo c’è una volontà di confronto tra fattori che difficilmente sono comparabili. Il “modello cinese” che ha affrontato il virus è lo stesso modello cinese che poco più di un anno fa è andato sulla Luna, che ridisegna la geopolitica mondiale con la Beltand Road Initiative (o Nuova via della Seta) e la politica di “cooperazione” in Africa; lo stesso modello che per mantenere il potere cerca di colmare il paradosso di essere il secondo Paese per PIL al mondo e solo l’ottantacinquesimo per PIL procapite. Il modello cinese si basa su un’economia pianificata, su un sistema, che al netto dall’essere considerato o meno autoritario, è caratterizzato da un forte e diffuso controllo sociale, che trova terreno fertile in una cultura confuciana largamente diffusa. Proprio l’esaltazione e il recupero della cultura tradizionale di matrice confuciana sono al centro della politica di Xi Jinping, sia in ambito di promozionedell’immagine cinese verso il mondo, che in ambito interno [Scarpari M. (2015), Ritorno a Confucio. La Cina di oggi tratradizione e mercato, Bologna, Il Mulino.]
Questo modello sembrerebbe essere stato efficace nell’affrontare l’emergenza, anche se, a onore del vero, occorrerebbe dire pure a crearla con le iniziali fasi omissive e poco trasparenti. Qui si pone il confronto e la sfida tra modelli. Saranno capaci le ammaccate democrazie liberali di fare altrettanto? Ora che il virus infetta l’Occidente, scatena il panico dei mercati e costringe a scenari recessivi, l’Europa, le sue istituzioni comunitarie, finanziarie prima ancora che sanitarie, sapranno essere all’altezza di questa sfida?
A lungo nella retorica europeista abbiamo affermato, con buona ragione, che l’Europa vinceva il confronto con qualunque altro modello, Stati Uniti compresi, per la propria cultura dei diritti, un welfare diffuso, di altissimo livello e di carattere universalistico.
Gli Stati Uniti non solo per la sciagura di Trump, ma per il carattere strutturale di una società non solidaristica, forse verranno messi di fronte a cosa significhi mancare di un sistema sanitario che offra cure ai propri cittadini in modo universale, ma è l’Europa che ha la responsabilità nei confronti dei propri cittadini di dimostrarsi non solo all’altezza dei propri valori fondativi, ma di essere capace di fare uno scatto in avanti. I segnali di questi giorni sono tutt’altro che incoraggianti, a partire dalle azioni della BCE. E’ in questo momento, che di fronte ad uno scenario recessivo, a un confronto con un modello autoritario o semi-autoritario (o comunque “non-democratico”), portatrice di una tradizione di pace, prosperità e sviluppo l’Europa deve fare la propria parte, perché non stiamo parlando solo di una drammatica emergenza sanitaria, ma di qualcosa che potrebbe ridefinire gli scenari dell’intero XXI secolo.
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