Geopolitica
Come Israele prova a zittire la comunità accademica
I modi in cui Israele tenta di zittire le voci critiche sono molteplici e quello dell’istruzione è solo uno degli ambiti in cui risulta evidente che “l’unica democrazia del Medio Oriente” non è mai stata tale. Il caso più recente è quello della sospensione di un’eminente accademica dell’Università Ebraica di Gerusalemme, Nadera Shalhoub-Kevorkian, scattata lunedì a seguito di un’intervista in un canale televisivo israeliano in cui aveva dichiarato che il sionismo andrebbe abolito, aggiungendo che Israele ha adottato «un regime necropolitico che può sopravvivere solo attraverso la cancellazione dei palestinesi». Le sue dimissioni erano state invocate già nei mesi scorsi, quando aveva firmato una petizione di docenti specializzati come lei negli studi sull’infanzia, uniti nel chiedere il rispetto dei diritti dei bambini e la fine della guerra contro Gaza. Le reazioni non sono mancate e l’ateneo si è affrettato a comunicare l’orgoglio di essere «un’istituzione israeliana, pubblica e sionista».
Dal 7 ottobre 2023 ad oggi sono almeno altri cinque i casi noti di punizioni esemplari, ma per nessuno di questi regge l’infamante accusa di essere sostenitori di Hamas o della guerra più in generale, mentre “il diritto di Israele a difendersi” viene invece continuamente citato nel discorso pubblico.
Il 12 novembre il professor Uri Horesh, docente di linguistica araba, era stato licenziato dall’Achva Academic College per un post su Facebook in cui aveva scritto “End the Genocide Now, Let Gaza Live”, come aveva già fatto prima del 7 ottobre. Aveva poi scelto come immagine del profilo una scritta che diceva “Free Ghetto Gaza”, in ebraico. Il ricorso al termine ghetto gli è valso il licenziamento, perché a quanto pare attorno a certe espressioni, come pure genocidio, vige una sorta di monopolio ebraico che ne prevede l’uso solo nel caso dell’olocausto nazista. Horesh sarebbe dunque per Israele un “cattivo ebreo”, come lo sono i tanti che in tutto il mondo chiedono la pace e denunciano le atrocità in corso, singolarmente oppure attivandosi in organizzazioni quali Jewish Voices for Peace.
Anche la filologa Nurit Peled Elhanan, docente al David Yellin Academic College for Education di Gerusalemme è allora una cattiva ebrea. La sua storia è più nota: nel 2001 l’impegno per la libertà di pensiero le è valso il Premio Sakharov, dopo che nel 1997 aveva perso una figlia di tredici anni in un attacco suicida da parte di un attentatore palestinese a Gerusalemme. «Entrambi sono vittime dell’occupazione israeliana della Palestina» aveva detto allora, vietando alle autorità israeliane di partecipare al funerale, pur essendo figlia di un generale che era stato membro del Parlamento israeliano. Un suo libro tradotto in italiano da Gruppo Abele è dedicato alla rappresentazione della Palestina nei manuali utilizzati nelle scuole in Israele: veri e propri strumenti di propaganda nazionalista finalizzata alla costruzione del nemico, scritti con i peggiori stereotipi razzisti. Peled Elhanan ha poi co-fondato nel 2009 il Tribunale Russell per la Palestina, un tribunale internazionale dei popoli che esamina il ruolo e la complicità di terzi nelle violazioni del diritto internazionale perpetrate da Israele. Infine aderisce alla campagna BDS (ossia Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, il cui obiettivo è aumentare la consapevolezza sul regime di occupazione, colonialismo di insediamento e l’apartheid imposto al popolo palestinese). L’attivismo di Peled Elhanan è dunque ben noto, e attenzionato al punto che quando recentemente in una chat privata di Whatsapp ha criticato l’associazione tra Hamas e nazismo è stata accusata di giustificare le azioni di Hamas.
Gli accademici ebrei stanno dunque subendo una forma di inquisizione che i colleghi arabi conoscono bene, come ad esempio Warda Sada e Faten Masarwa del Kaye Academic College of Education, oggetto di procedimenti per post scritti sui social network (nel caso di Masarwa si fa riferimento a post pubblicati sui social nel 2021). La tecnica è sempre la stessa, spacciare per negazionisti o fiancheggiatori di Hamas coloro che chiedono semplicemente la fine della guerra o denunciano le conseguenze del discorso d’odio che tanti membri della Knesset adottano quotidianamente ribaltando, di fatto, la realtà. Mentre si parla del pericolo di un nuovo antisemitismo, non si fa altrettanto con l’islamofobia.
Le punizioni esemplari inflitte ai docenti servono ad individuare cattivi maestri, mettere a tacere l’intera comunità accademica, spingere all’autocensura preventiva di ogni forma di dissenso. Le organizzazioni di studiosi che si occupano di Medio Oriente (come ad esempio MESA – Middle East Studies Association of North America, Brismes – British Society for Middle Eastern Studies e SeSaMO – Società per gli Studi sul Medio Oriente) lo denunciano spiegando come un analogo trattamento sia riservato agli studenti, che vengono sospesi o sottoposti a misure disciplinari ancora più che i professori, se non addirittura arrestati quando protestano o cercano di organizzare assemblee o conferenze per ascoltare posizioni diverse, esercitando nient’altro che la libertà di espressione e il pensiero critico, che sono poi obiettivi che le università dovrebbero darsi. O ancora quando condividono sui social media versi del Corano, venendo accusati di antisemitismo, sempre senza prove.
Nel campus del Netanya Academic College, fuori dai dormitori, si sono sentiti slogan razzisti come «Morte agli arabi!», mentre l’Unione dei movimenti studenteschi arabi ha diffuso i risultati di un sondaggio che mostra come gli episodi più recenti non rappresentino una novità assoluta ma indichino piuttosto come la situazione sia precipitata a partire dallo scorso ottobre. Succede anche perché i sindacati studenteschi in Israele non mettono in atto azioni concrete contro tali attacchi o altre forme di discriminazione. Il sindacato del Technion (ossia l’Israel Institute of Technology ad Haifa) è addirittura arrivato a pubblicare un file Powerpoint con l’elenco degli studenti palestinesi accusati di essere ‘terroristi’. Come se non bastasse, il 71% degli intervistati è in una situazione di difficoltà economica dovuta alla guerra in corso e sta quindi pensando di lasciare gli studi o di espatriare, anche in ragione di quanto accade a Gaza, dove è in atto uno scolasticidio, con almeno un centinaio di professori universitari, centinaia di insegnanti e migliaia di studenti uccisi (la fonte è Euro Med Monitor) e dove le università non solo non sono state risparmiate, ma sono anzi bombardate con precisione chirurgica. Con la solita accusa, mai ad oggi provata, di poter essere dei covi di Hamas.
Del clima repressivo nel contesto universitario si è avuto un assaggio anche in Italia, quando il 31 agosto scorso è stato arrestato Khaled El-Qaisi, cittadino italo-palestinese iscritto alla Sapienza di Roma, detenuto per un mese senza che gli fosse contestato alcun reato. Come lui almeno un centinaio di altri studenti sono stati condotti nelle carceri israeliane negli ultimi anni. E anche in Italia gli studenti che chiedono la pace conoscono il suono dei manganelli.
In Israele la distruzione del sistema educativo è dunque una scelta ben precisa, che non può essere denunciata dimessamente. Vanno fatte scelte altrettanto precise, come suggeriscono alcuni docenti italiani con un comunicato diffuso nei giorni scorsi e indirizzato al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, in cui si chiede, in risposta alla pubblicazione di un bando a fine febbraio, di disinvestire, sospendere la cooperazione industriale, scientifica e tecnologica tra le università e i centri di ricerca italiani e israeliani, con lo scopo di esercitare pressione sullo stato di Israele affinché si impegni al rispetto del diritto internazionale. La motivazione non è esclusivamente di ordine morale: «Avanziamo questa richiesta anche per proteggere le istituzioni italiane dall’accusa di non aver adempiuto al dovere inderogabile di prevenzione di genocidi, ovunque ve ne sia il pericolo, che è un obbligo per gli stati membri delle Nazioni Unite secondo la Convenzione per la Prevenzione e Punizione del Crimine di Genocidio, o di essere complici di crimini di guerra, attualmente all’indagine della Corte penale internazionale».
Non è quindi un invito a boicottare il lavoro di determinate persone, ma a sospendere il rapporto con le istituzioni che fanno degli atenei delle fabbriche di guerra. Questo perché il recente bando MAECI «può includere lo sviluppo di tecnologie e devices dual use» ossia prodotti, software o tecnologie che possono avere un utilizzo sia civile che militare ed essere quindi impiegati nello sterminio. L’Italia non sarebbe il primo paese a prendere una simile decisione: nell’ultimo mese lo hanno fatto alcune università norvegesi e anche l’Università della California (UC Davis).
Collaborare con gli atenei israeliani potrebbe voler dire lavorare a ‘progetti’ di distruzione delle infrastrutture civili in Palestina, come fa il Technion sviluppando tecnologie di droni militari e bulldozer armati telecomandati o l’Università di Tel Aviv seguendo la cosiddetta dottrina Dahiya. Boicottare, dunque, per rifiutarsi di essere complici del massacro in atto.
1.innanzitutto Israele è una democrazia, al contrario di Hamas, che ha instaurato un regime teocratico abolendo le libere elezioni subito dopo aver vinto quelle del 2007. In ogni democrazia ci sono progressisti e conservatori, e questi ultimi prendono sempre voti quando c’è un nemico in giro, reale o creato ad arte (come gli immigrati di salvini/meloni). Visto che dalla nascita di Israele la minaccia è continua, per dichiarato e praticato antisemitismo degli stati vicini, è chiaro che i progressisti abbiano vita difficile. Qui si inserisce Netanyahu, che ha contribuito a creare e finanziare Hamas (forse con l’intento di stabilizzare la Palestina; forse con l’intento di creare un nemico che impaurisse Israele e portasse voti ai conservatori).
2.Tacciare Israele di GENOCIDIO è populismo spiccio per aizzare la pancia dell’ascoltatore ed avere voti, come fa Potere al Popolo: se Israele avesse voluto il genocidio lo avrebbe compiuto anni fa, avendone i mezzi e le motivazioni, ed invece Israele/Rabin si ritirò da alcuni insediamenti lasciandovi intatte le infrastrutture per la produzione/vendita di frutta/fiori, ma quei territori furono invece usati per scavare cunicoli e colpire Israele. Quelli che oggi inneggiano contro il genocidio israeliano, sono gli stessi che pochi mesi fa NON condannano le intenzioni genocide DICHIARATE e MESSE IN PRATICA da HAMAS e che, all’indomani della STRAGE a sangue freddo di migliaia di civili (condito da stupri e squartamenti), hanno fatto festa in piazza al grido di “Palestina libera”.
3.Se si mette da parte il tifo, allora si capisce che esiste una sola soluzioni a 2 stati con gerusalemme sotto egida dell’onu, e che gli ostacoli a tale soluzione sono Hamas, Netanyahu e i tifosi che inneggiano contro il genocidio di israele