Geopolitica

Combattere, ma non per la Turchia

22 Luglio 2016

Non è quello di Pinochet ma assomiglia a Von Stauffenberg il tentato golpe in Turchia: fallito con conseguenze non di poco conto, in primo luogo per i turchi ma non meno per le cancellerie europee perché non è consueta in diplomazia la neutralità rispetto al tentativo di destituire manu militari un governo democraticamente eletto di un paese alleato e non potrà essere priva di conseguenze. Vero che in questo i governi europei erano una volta tanto allineati con le proprie opinioni pubbliche; vero che la politica estera di Erdogan ha portato ai minimi la credibilità turca, in particolare dopo il dimissionamento dell’ex premier Davutoglu. Ma pure vero è che trovarsi a scegliere tra Erdogan e Gulen, cioè tra due politici che vedono lo stato come strumento per l’affermazione di un disegno religioso (oltre che personale) non sarebbe ugualmente consolante: a prescindere dall’esito, il futuro della Turchia non è più quello che si poteva immaginare quando iniziò il processo che avrebbe dovuto portarla all’interno dell’Unione Europea e dobbiamo prenderne rapidamente atto.

Dato che gli antichi vizi non si perdono mai, Erdogan ha in testa l’idea di rendere la Turchia una potenza regionale egemonica nel mondo islamico, non in quello globale ma partendo da quello legato alle comuni matrici culturali della Fratellanza Musulmana incrociato con la antica tradizione ottomana verso i balcani e le repubbliche ex sovietiche. Non è una novità, il panarabismo di Nasser fu una declinazione laica del panislamismo mentre Erdogan che di laico ha poco o nulla ne dà una interpretazione più settaria. Facile immaginare che in un mondo liquido fallirà, sicuro invece prevedere che le conseguenze saranno pesanti anche per noi.

La prima considerazione riguarda noi e gli amici americani: la Turchia è bene rimanga nella Nato, anche se la sua affidabilità è del tutto relativa. Ma gli amici americani devono purtroppo rassegnarsi al fatto che, rispetto alla loro storia, nel mondo la democrazia non si coniuga obbligatoriamente con liberalismo e che anzi in molti casi è un buono strumento per sopprimerlo: non sempre un paese che vota è un paese libero. In Egitto e Turchia si vota, in Turchia le donne hanno cominciato a votare molto prima che in Italia ( dove in quel periodo non si votava affatto) ma non per questo sono paesi liberi, figuriamoci gli altri dell’area mediorientale con la solita straordinaria eccezione di Israele.

Da qui discende l’idea che non si possa procedere alla eliminazione del visto di ingresso in Europa per i cittadini turchi che per lavoro, studio o diletto varcano i confini verso Ovest. Deve rimanere un segno tangibile del diverso concetto di cittadinanza e delle libertà ad esso legate: la Francia può, sbagliando perché ha creato un precedente che si ritorce contro tutti noi, sospendere per tre mesi la adesione alla Carta Europea dei Diritti dell’Uomo ma se lo fa la Turchia l’errore è ben più grave perché la storia conta, eccome se conta. E le differenze devono avere una tangibile, effettiva riconoscibilità.

La Turchia non è un nemico, nonostante il deprecabile comportamento illiberale di Erdogan non ci sono al momento le condizioni per interventi di politica estera comune “muscolari” anche perché gli strumenti principali, tolta la moral suasion e la adesione a trattati, sono solo due: quello militare e quello economico. Scartato il primo, siamo nelle condizioni di chiedere sanzioni? No, non conviene né a noi né ai tedeschi e nemmeno ai francesi. Ma che la Turchia sia da oggi da considerare un paese molto più a rischio per gli investimenti esteri è un dato di fatto e i governi europei qualche chiacchierata con le proprie aziende che hanno delocalizzato potrebbero cominciare a farlo, se non altro perché garantire la sicurezza dei nostri operatori e la tutela giuridica dei nostri interessi potrebbe divenire un problema. Il reshoring degli investimenti può trovare ragioni di mercato e ragioni politiche e forse è lo strumento più efficace per far comprendere ai turchi, non a Erdogan che come interlocutore è obbligato ma per noi politicamente finito, che forse qualcosa non funziona più nel meccanismo dell’AKP.

Da ultimo, cala la pietra tombale sul processo di adesione alla UE. Non ve ne sono più le ragioni politiche e nemmeno le convenienze economiche, ancor meno il consenso della pubblica opinione all’ingresso di un paese che demograficamente con i suoi 70 milioni di abitanti ribalterebbe gli equilibri di Bruxelles. E quale tremendo scherzo della storia sarebbe il perdere la democrazia inglese e acquisire quella turca. No, credo che gli accadimenti internazionali contribuiscano a farci capire meglio il senso dimenticato della nascita dell’Unione Europea: più altrove vedremo morire le libertà forse con maggiore convincimento comprenderemo che l’identità europea come quella americana ne è ormai inscindibilmente legata e che proprio la libertà e la sua tutela è ciò che rende l’Europa un posto diverso dal resto del mondo, un sogno per il quale vale ancora la pena di combattere.

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