Geopolitica
Chi arma gli ucraini non li aiuta, li usa
La logica di chi si dice contrario alla guerra ma non all’invio di armi all’Ucraina e ci spiega come a un figlio un po’ tonto e snocciolando esempi storici ad capocchiam che la pace va perseguita anche usando la forza oppure bolla chi non ha già indossato l’elmetto come colluso col nemico, è talmente sgangherata da tradire maldestramente il suo scopo: usare la presunta solidarietà con la popolazione ucraina per usarla in un regolamento di conti tra élites nazionali. “Armiamoci e partite! Io vi seguo dopo.” diceva Totòkamen ai tebani in “Totò e Maciste”. “Armiamoli e guardiamo!” tuonano Polito e Riotta dai loro uffici al ministero della verità.
L’argomento della solidarietà non regge innanzitutto sul piano militare. Fornire armi non servirà a far vincere la guerra agli ucraini, al massimo a non far vincere i russi, cioè a trasformare l’Ucraina in un pantano, una sorta di versione europea della Cecenia. Il paragone con le armi americane ai partigiani riflette il corto circuito logico di quella tesi. I partigiani vinsero non grazie alle armi, ma alle divisioni americane sbarcate in Italia e, prima ancora, alla decisione di Roosevelt di entrare in guerra capovolgendone gli equilibri. Perciò Kiev chiede la no fly zone.
Putin non può essere sconfitto con le armi dagli ucraini, che in alcune città hanno dimostrato di esserne consapevoli e invece di sacrificare vite inutilmente sparando sono scesi in strada andando incontro ai carri armati, cercando di bloccarli e di parlare coi soldati russi oppure organizzano cortei di protesta nelle città occupate. Può essere sconfitto solo da un intervento diretto della NATO, che tutti escludono perché nessuno (per fortuna) vuole una guerra mondiale. Le sanzioni, d’altra parte, oltre che cominciare a colpire di rimbalzo anche le economie europee, in Russia colpiranno in primo luogo i lavoratori, i giovani e la stessa piccola borghesia, gli unici che potrebbero sconfiggere Putin politicamente e coloro che ne trarrebbero più vantaggi: gli oligarchi rischiano di perdere il caviale, loro rischiano di perdere tutto.
Far impantanare la guerra, in realtà, significa boicottare i negoziati, spingere i russi a inasprire gli attacchi sulle città, come già avviene, aumentando il numero di vittime civili, e allontanare una soluzione politica. Le élites europee a parole sostengono i russi che manifestano contro la guerra, ma nei fatti si rivolgono alle élites russe affinché tolgano le castagne dal fuoco all’Occidente, senza considerare che anche se gli oligarchi decidessero di liberarsi di Putin lo farebbero solo per affidare a un leader meno logoro la realizzazione della stessa politica: preservare la zona di influenza russa facendo appello alla vecchia ideologia imperiale grande-russa ereditata dagli zar e ripresa dall’URSS staliniana e dai suoi epigoni dopo la breve parentesi di Lenin.
Chi trae più vantaggi dal pantano? Senza dubbio gli USA, che possono consolidare la svolta strategica verso il Pacifico, inserire un cuneo tra Europa e Cina senza impegnare uomini sul terreno e seminare tensioni sul tracciato della Via della Seta. E, se l’analisi della strategia americana che l’ex ufficiale cinese Qiao Liang delinea nel suo L’arco dell’Impero (2021) è corretta, possono anche attrarre capitali in fuga dalle bombe. Insomma il vero obiettivo della politica americana in Ucraina non è la Russia, sono Europa e Cina. Anche se l’Europa fa finta di ignorarlo e finora è apparsa sì unita, ma così debole e subalterna da cedere lo spazio della diplomazia a Turchia e Israele.
L’ex capo di stato maggiore dell’aeronautica militare generale Tricarico ha definito l’invasione di Putin un “fallo di reazione” e criticato le continue esternazioni del segretario generale della NATO Stoltenberg, che non perde occasione per gettare benzina sul fuoco. Sergio Romano, ex ambasciatore a Mosca, osserva che la percezione di accerchiamento dei russi non può essere ignorata e a settembre scriveva, proprio sul Corriere, che “un’Ucraina neutrale sarebbe molto più rispettata e autorevole di quanto sarebbe se la sua politica estera continuasse a essere un interminabile e inutile bisticcio con la sorella maggiore”. Il generale Inzerilli, ex capo del Sismi e di Gladio, dichiara che “Tutto quello che sta succedendo adesso è sempre dovuto al fatto che la Russia, non più Unione Sovietica, ha paura, si sente circondata da paesi ostili. E il presidente dell’Ucraina, Zelenski, a mio parere fa una dimostrazione di forza quando in effetti tutto quello che la Russia ha chiesto è la dichiarazione ufficiale di non ingresso nella NATO e la demilitarizzazione del paese.” Persino Henry Kissinger nel 2014 metteva in guardia dal fare dell’Ucraina “un avamposto invece che un ponte”. Putiniani? Plagiati dai due Maurizi, Landini della CGIL e Acerbo di Rifondazione Comunista? Riotta e Polito, fateci il piacere.
La propaganda ormai ha preso atto che dirsi favorevoli alla guerra è diventato sconveniente. Le formule coniate per inserire la parola pace nelle espressioni utilizzate per indicare la guerra– peacekeeping, peacemaking, peace enforcement – o per edulcorare la natura delle operazioni militari – polizia internazionale, guerra umanitaria – si sovrappongono alla preventiva disumanizzazione del nemico: barbaro, pazzo, filonazista o integralista, anche se fino al giorno prima è stato un alleato o, come Putin, resta un partner commerciale, e riflettono l’idea che la guerra è guerra solo se la fanno gli altri. Oggi, ad esempio, scopriamo dai giornali che questa è la prima guerra in Europa dal 1945: i bombardamenti sulla ex Jugoslavia, con la partecipazione italiana e Mattarella vicepremier, sono stati anch’essi un atto filantropico, naturalmente.
A Riotta, Polito e agli altri i campioni della solidarietà pelosa con Kiev piace vincere facile. Accusare di collusione col nemico chi non indossa la mimetica è un metodo non troppo originale per spostare la discussione dal merito al tu con chi stai. Come vincere la partita a tavolino accusando gli avversari di doping. Ma non è sufficiente a cancellare le loro contraddizioni.
Chi accusa i “non allineati” di voler lasciare da soli gli ucraini è abbastanza solidale da spedire loro armi perché si scannino coi russi, ma non abbastanza da rischiare il coinvolgimento diretto dell’Italia in una guerra (che è molto saggio ma anche, diciamolo, molto ipocrita). È abbastanza solidale da lodare i russi che scendono in piazza, ma non abbastanza da risparmiare loro le sanzioni e l’invio in Ucraina di armi che probabilmente colpiranno anche i loro figli, nipoti, mariti e fratelli. È abbastanza solidale da considerare artisti e intellettuali russi, perfino quelli morti 150 anni fa, “putiniani fino a prova contraria”, ma non abbastanza da chiedere alle aziende italiane che hanno fatto e continuano a fare profitti grazie alle forniture di gas russo o alle armi vendute a Putin (violando un embargo) di destinarli all’emergenza sociale e umanitaria in atto. È abbastanza europeista da censurare il nazionalismo quando viene brandito dai sovranisti contro l’Europa, ma non quando è brandito dall’Europa contro un “nemico esterno”. Eppure, incurante delle proprie, non esita a puntare il dito contro le presunte contraddizioni altrui.
Essere contro la guerra e non semplicemente contro la guerra di Putin significa pensare che la principale linea di demarcazione non è tra aggressori e aggrediti, ma tra chi tira i fili e chi è manovrato. Tra un civile ucraino che oggi sta sotto le bombe e un carrista russo mandato a bombardarlo c’è meno distanza di quella che separa entrambi da chi li usa come carne da macello in nome della sicurezza del suo popolo. Sono, presumibilmente, due proletari e preferirebbero se Zelenski e Putin spendessero i soldi prelevati dai loro salari per assicurare a loro e ai loro cari una vita dignitosa e serena e tenerli lontani da quell’inferno. Difendere l’indipendenza politica dei lavoratori e della sinistra da Putin, da Zelenski e dalla NATO è la condizione per poter essere genuinamente solidali con le vere vittime di questa guerra.
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