Geopolitica

Catalogna, 1-O un anno dopo

1 Ottobre 2018

Durante l’inverno a cavallo tra il 1807 e il 1808, nell’Accademia di Berlino, J. G. Fichte tenne una serie di conferenze che, poi, vennero riunite nel volume Discorsi alla nazione tedesca. In estrema sintesi, il filosofo esortava tutti i popoli di lingua tedesca a fare fronte comune contro le invasioni napoleoniche, costituendosi in nazione e dotandosi di uno Stato unitario. Nasce il nazionalismo così come lo abbiamo sempre conosciuto, ovvero quell’equazione che mette sotto lo stesso ombrello una lingua, un popolo, una nazione e uno Stato. L’influenza di questi discorsi sarà, in Europa, di grande portata, giacché si tratta della scintilla che porterà da lì a poco alla definizione dello Stato-nazione che è, quindi, un’idea essenzialmente romantica (nel senso storico culturale del termine). Il proposito iniziale del nazionalismo non era affatto negativo, anzi, aveva in sé un principio d’inclusione. Tuttavia, una volta che lo Stato-nazione è cosa fatta, quell’idea degenera e da idea inclusiva, il nazionalismo si trasforma in idea che esclude il diverso, ripiegando nel localismo più chiuso e arrivando alle tragiche conseguenze del XX secolo, che tutti abbiamo visto, o studiato.

Il progetto indipendentista catalano scaturisce da un’idea nazionalista romantica. È, di fatto, così come sognato nella Legge di Transitorietà varata nel 2017 e poi bloccata dallo Stato centrale spagnolo, un progetto di Stato-nazione decimononico basato sull’asse POPOLO-LINGUA-NAZIONE-STATO (tutto si riassume nell’idea del sol poble -un solo popolo- tanto cara agli idipendentisti, quanto irreale per il momento, visto che per lo meno il 50% dei catalani non è a favore di un distacco da Madrid). Nelle frange più estreme del nazionalismo catalano, infatti, non è un mistero che il distacco della Catalogna dal resto della Spagna sarebbe solo un primo passo verso una nazione catalana che includa tutti i Paisos Catalans, quindi Valencia, le Baleari e, forse, la città di Alghero. Il parallelismo con i discorsi di Fichte non può essere più evidente: i popoli di lingua tedesca stanno alla Catalogna, come la Francia di Napoleone starebbe alla Spagna, vista da una parte dell’indipendentismo come uno Stato invasore e colonizzatore.

Quest’idea, romantica e ottocentesca, lanciata in pieno XXI secolo, pone diversi interrogativi e, per molti versi, ha un suo innegabile, quanto pericoloso, fascino. Ma bisognerebbe chiedersi, anzitutto, cos’è un popolo, come si identifica, chi ne fa parte. E, poi, come si definisce una nazione e, di conseguenza, una nazione rispetto a uno Stato. Questioni che hanno tante e diverse risposte, anche solo guardando all’Europa, dove vi sono stati plurinazionali (il Regno Unito, la Svizzera) oppure iper centralizzati e omogenei (la Francia), ma anche piccole nazioni indipendenti (Andorra, per rimanere nella Penisola Iberica).

Tuttavia, credo sia più importante riflettere non tanto sulla validità delle definizioni di popolo, nazione o Stato, quanto sul fatto che l’istituzione dello Stato-nazione entrò in crisi cent’anni fa, ormai, tra la fine della Prima Guerra Mondiale e l’inizio della Seconda, per essere poi superato nel secondo dopoguerra con la progressiva alleanza europea che portò alla nascita della UE e al cedimento da parte degli Stati di una grossa fetta della loro sovranità a un’istituzione sovranazionale. I settantatré anni di pace e benessere generalizzato in Europa credo che siano una prova più che sufficiente del fatto che l’esperimento funzioni. Eppure sia a livello locale (Catalogna, Scozia, Baviera, Padania, ecc.) sia a livello statale (Italia, Ungheria, Regno Unito, ecc.) si assiste a un risorgere di un sentimento nazionalista che vorrebbe recuperare l’istituzione dello Stato-nazione con una sovranità forte. Vista in quest’ottica meno locale e più aperta, la questione catalana si inserisce pienamente in un dibattito che mette in discussione l’esistenza stessa dell’Unione Europea. E non è casuale, quindi, che negli ultimi anni l’indipendentismo catalano abbia sempre meno rimarcato ciò che dovrebbe distinguerlo dal leghismo, fino al punto di ringraziare, il 6 ottobre 2017, il leghista Borghezio per l’appoggio in seguito ai fatti del primo ottobre 2017, di cui oggi ricorre l’anniversario, e invitandolo alle commemorazioni dell’11 settembre (festa nazionale catalana) di quest’anno.

Qualche giorno fa, sul quotidiano El País, José Álvarez Junco sottolineava che di tutte le questioni aperte nella Spagna di 100 anni fa, l’unica a non essersi mai risolta è quella territoriale e, più specificatamente, quella catalana. Come già sottolineato su queste stesse pagine, in Spagna, il dibattito sui nazionalismi regionali è nato all’inizio del ‘900 quando, dopo la perdita delle ultime colonie (Cuba e Filippine), tutto il sistema spagnolo entrò in profonda crisi. Nacquero in quegli anni la Lliga Regionalista de Catalunya e a Barcellona si era nel pieno del Modernisme, movimento culturale legato fortemente alla Renaixença catalana che ha lasciato in eredità ai posteri le opere architettoniche di Gaudì e un’idea di città che ancora oggi sopravvive e che rappresenta la vera peculiarità di Barcellona (cosmopolita e provinciale allo stesso tempo). Le istanze del nazionalismo catalano –non diverse da quelle contemporanee, ma allora sicuramente più al passo con lo spirito dei tempi– confluirono, poi, nell’autonomia regionale della II Repubblica. Il Franchismo, com’è noto, fece tabula rasa di tutti i progressi fatti, imponendo un’idea di Stato oppressore ed egemonico. Fu solo durante la Transizione (1975-1978) che il dibattito riprese da dove era stato interrotto nel 1936 e sfociò nell’attuale Stato delle autonomie, in cui la Catalogna gode di un ampio autogoverno, fino ad includere il controllo diretto del territorio e la sicurezza con il ripristino dei Mossos d’Esquadra, la polizia regionale, che ha sostituito quasi del tutto Guardia Civil e Policía Nacional.

La storia recente della questione catalana è cronaca e ha superato i confini spagnoli in maniera dirompente un anno fa esatto. Rispetto ad allora, però, c’è stato un cambiamento significativo che lascia intravedere una possibile soluzione politica, anche se a lungo termine, e a costo di uno stallo molto rischioso. Da giugno di quest’anno, infatti, è cambiato il governo e il PSOE è tornato ad occupare la Moncloa (residenza del Primo Ministro spagnolo). È venuto meno, quindi, uno dei due grandi detonatori della crisi dello scorso autunno, il Partito Popolare, ormai relegato al ruolo di opposizione. Il Partito Socialista ha riaperto il dialogo, prendendo in mano l’iniziativa e, in parte, legando la sopravvivenza del suo governo ai voti dei deputati catalani. È di pochi giorni fa la notizia che una serie di finanziamenti destinati alla Catalogna bloccati dal governo del PP verranno inclusi nella prossima legge di bilancio e quindi sbloccati.

Il primo risultato di questo nuovo e debole dialogo è l’atteggiamento di distacco dell’attuale governo catalano nei confronti delle frange estreme dell’indipendentismo, a cui fino a pochi mesi fa aveva strizzato l’occhio in maniera imprudente, per mera convenienza politica. Ma è sufficiente quest’apertura? Per calmare gli animi a un anno dal referendum, forse sì, ma per risolvere la questione serve una proposta precisa da parte dello Stato centrale (o comunque dei partiti nazionali, oltre a PSOE e PP, anche Ciudadanos e Unidos Podemos) perché 2 milioni di catalani, quasi il 50% del corpo elettorale, per quanto uno sia in disaccordo con loro, non possono essere ignorati ed è urgente provare a convincerli a votare diversamente. Il nazionalismo va battuto alle urne e per farlo sono necessari progetti di convivenza credibili e condivisibili. E questa è una lezione che, in questi tempi di rigurgiti fascisti, deve essere tenuta da conto in tutta Europa.

(Foto di copertina: agensir.it)

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