Geopolitica

Caso Khashoggi, il trono saudita scricchiola ma Trump lo sorregge

21 Ottobre 2018

«L’uccisione di Jamal Khashoggi? Cercherò di rispondere alle sue domande. Ma tenga presente che nessuno, e ripeto, nessuno al di fuori della famiglia reale saudita sa cosa sta succedendo al suo interno. E io non faccio mai speculazioni a riguardo». A dirlo a Gli Stati Generali da Washington è Thomas Lippman, giornalista statunitense vincitore di numerosi premi e autore di Saudi Arabia on the Edge: The Uncertain Future of an American Ally.

Il brutale assassinio del giornalista Khashoggi nel consolato saudita di Instanbul ha sconvolto il mondo.

Ma anche dopo le ammissioni giunte da Riad venerdì, sono in molti a chiedersi che ripercussioni avrà “il caso Khashoggi” sul futuro del principe Mohammad bin Salman, governante de facto del regno. Primo in linea di successione al trono di un paese che possiede circa un quinto delle riserve provate di petrolio del pianeta, il principe è uno degli uomini più potenti del Medio Oriente.

Nell’ultimo anno il principe è riuscito a presentarsi al mondo come il fautore di un cambiamento decisivo: la liberazione dell’economia saudita dalla quasi totale dipendenza dagli idrocarburi. Pochi mesi fa la rivista Forbes lo aveva incluso come “nuovo arrivato” nella sua lista delle 75 persone più potenti del mondo. Ricchissimo, laureato in legge alla King Saud University, tra i numerosi incarichi il principe vanta quello di vice-primo ministro e ministro della difesa.

Tornando all’assassinio di Khashoggi, Riad ha confermato la morte del giornalista solo tre settimane dopo il fatto. Secondo l’annuncio di venerdì – che si baserebbe su un’indagine ufficiale – il giornalista saudita sarebbe rimasto ucciso in una “colluttazione” nel consolato. E proprio sulla presunta indagine si baserebbe anche l’arresto di diciotto persone (di nazionalità saudita), nonché una nuova purga di alti funzionari del regime. Saud al Qahtani, consigliere di Mohammad bin Salman, e il generale Ahmed al Asiri, vice-direttore dell’intelligence saudita – la temutissima GID – sarebbero stati licenziati.

Questa non è la prima purga del giovane principe (detto anche MBS). Verso la fine dell’anno scorso, sotto la sua supervisione, la polizia ha condotto una vasta operazione anti-corruzione. Che avrebbe portato all’arresto di oltre 200 persone, fra membri della famiglia reale, funzionari, ufficiali dell’esercito e imprenditori. Un successo, secondo il regime saudita, che avrebbe così recuperato 100 miliardi di dollari. Secondo molti osservatori però, si sarebbe trattato di una mossa del principe ereditario per spazzare via potenziali rivali e consolidare il suo potere.

Un potere che a causa dell’uccisione di Khashoggi potrebbe mostrare delle crepe. «Una condanna prolungata da parte della comunità internazionale indebolirà certamente la posizione di MBS nella famiglia reale – dice a Gli Stati Generali Russell Lucas, docente di relazioni internazionali della Michigan State University –. Forse suo padre non arriverà a rimuoverlo dalla linea di successione. Ma questo fatto getterà una lunga ombra sul suo futuro».

Concorda Christian Koch, direttore della Gulf Research Center Foundation: «Il danno reputazionale è stato immenso. La crisi sull’omicidio di Jamal Khashoggi ha richiamato l’attenzione di tutto il mondo e ne ha suscitato la condanna unanime. Non è più qualcosa che si possa semplicemente nascondere sotto il tappeto».

Per il momento, segnala Bloomberg, i dirigenti di numerose multinazionali e gruppi finanziari (dai quali il principe sperava di ottenere ingenti investimenti) stanno cominciando a disdire la loro presenza alla Future Investment Initiative, voluta da MBS e prevista per la prossima settimana. Pessime notizie considerando che l’anno scorso gli investimenti diretti esteri (FDI) in Arabia Saudita sono crollati a 1,4 miliardi di dollari rispetto ai 7,5 dell’anno precedente e ai 12 del 2012.

Fino a venerdì sera Riad aveva negato ogni coinvolgimento nella sparizione di Khashoggi, il cui corpo non è ancora stato ritrovato. Apparentemente si tratta solo dell’ennesima violazione dei diritti umani da parte dell’Arabia Saudita. Che da più di tre anni sta guidando un duro intervento militare in Yemen, e ad agosto è stata accusata di crimini di guerra dalle Nazioni Unite, insieme agli Emirati Arabi Uniti.

Ma sullo sfondo dell’uccisione di Khashoggi si stagliano le crescenti tensioni geopolitiche tra il blocco a guida americana, che nei sauditi ha un alleato insostituibile, e l’Iran sostenuto da Turchia, Qatar e Russia. «Sempre più membri del Congresso, di entrambi i partiti, stanno chiedendo una riduzione del sostegno all’Arabia Saudita – prosegue Lucas –. Ciò potrebbe includere il blocco delle vendite di armi made in USA a Riad, che il presidente Trump sembra molto desideroso di proteggere».

T., analista geopolitico europeo esperto di questioni mediorientali (e che chiede di restare anonimo), spiega a Gli Stati Generali: «i sauditi pressano gli Stati Uniti e Israele per un intervento contro l’Iran sin dal 2008, quando re Abdullah chiese di “tagliare la testa del serpente”. E ricordiamo che il giovane MBS ha addirittura riconosciuto esplicitamente il diritto di Israele ad esistere, un passo significativo per un reale saudita, che conferma una cosa: il nemico di Riad è l’Iran, non certo Gerusalemme».

Ovviamente, continua T., «la Turchia non ha alcun interesse in un collasso dell’Iran perché ciò significherebbe un estremo rafforzamento di Washington e Riad in un’area politica che Ankara vede come sempre più contendibile. Ecco spiegato l’intervento a gamba tesa dei turchi – a cui della salute dei giornalisti interessa poco – riguardo l’uccisione del povero Khashoggi».

Sono passati ormai dieci anni dal cablo (reso pubblico dal sito Wikileaks) in cui l’allora re Abdullah spronava Washington a intervenire militarmente contro l’Iran. Ma i due paesi hanno ancora bisogno l’uno dell’altro. «Questa vicenda non avrà ripercussioni di lungo termine sulle relazioni fra Stati Uniti e Arabia Saudita – dice Lippman –. Entrambi trovano l’altro molto utile e hanno obiettivi strategici simili nella regione».

Secondo il New York Times il caso Khashoggi è arrivato in un momento in cui il sostegno di Riad è fondamentale per Donald Trump, che punta a strozzare l’export di petrolio iraniano imponendo nuove sanzioni a Teheran il prossimo 5 novembre. Stando al quotidiano, Trump ha un gran bisogno che Riad aiuti a mantenere stabili i prezzi del greggio anche dopo l’esclusione dal mercato dell’oro nero iraniano. La posta in gioco è alta: un aumento nei costi del carburante rischierebbe di minare la popolarità dell’amministrazione proprio in vista delle elezioni di medio termine, previste per il giorno dopo.

Tuttavia, secondo Koch «bisogna separare la questione dei rapporti fra Stati Uniti e Arabia Saudita da quella delle sanzioni. L’Arabia Saudita le appoggerà senza dubbio, alla pari di Washington ritiene che l’Iran continui a rappresentare una minaccia per la regione. Ma le relazioni fra i due paesi subiranno un brutto colpo dopo il caso Khashoggi, soprattutto a livello pubblico. Il Congresso americano aumenterà il controllo sull’Arabia Saudita, e potrebbe cominciare a concentrarsi maggiormente sulla guerra in Yemen».

Stando alle sue ultime dichiarazioni, Trump trova credibile la versione fornita venerdì sera da Riad. Ma per quanto riguarda la situazione di MBS, sottolinea Lippman, non c’è modo di sapere cosa stia accadendo nei corridoi della monarchia saudita. «Gli altri principi sono indignati? MBS li tiene tutti sottomessi e in riga? Non ne ho idea. E non c’è modo di saperlo». Una cosa è certa secondo Lucas: «se diventerà re, il suo governo sarà probabilmente ancora più duro di quanto non lo sia già. Perché sarà la leadership più instabile dai tempi di re Saud negli anni ‘60».

 

Foto in copertina: President Donald Trump walks with Mohammed bin Salman bin Abdulaziz Al Saud, Deputy Crown Prince and Minister of Defense of the Kingdom of Saudi Arabia, along the West Colonnade of the White House, Tuesday, March 14, 2017. (Official White House Photo by Shealah Craighead) Public domain

 

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