Geopolitica

Caos Libia: arriva la guerra italiana, solo che non sappiamo chi è il nemico

1 Marzo 2016

La sensazione è quella di un amico che ti gioca un tiro mancino. Perché, alla fine, mentre l’esecutivo italiano dice e smentisce, annuncia e ridimensiona, da Washington lanciano una bordata. Che agli osservatori più avvezzi alla realpolitik sembra voluta, ma che non lascia indifferenti neanche quelli che credono alla buona fede.

“L’Italia, essendo così vicina, ha offerto di prendere la guida in Libia. E noi abbiamo già promesso che li appoggeremo con forza”, ha dichiarato Ash Carter, Segretario di Stato Usa alla Difesa.

La Libia è vicina, la guerra anche. L’elemento importante rispetto alla questione libica negli ultimi giorni è un sostanziale svelamento. Da tempo operano sul terreno unità speciali che stanno facendo quel che fanno sempre le unità speciali: preparano l’attacco in forze.

Rilievi sul territorio, informazioni di intelligence, se possibile eliminazione di elementi sgraditi, consistenza e posizione degli attori sul terreno e via così. Allo stesso tempo, però, il tiro mancino è nelle parole scelte dall’amministrazione Obama per parlare del ruolo italiano.

Badate bene, che le parole sono importanti in politica estera. E’ l’Italia che chiede un ruolo guida nella futura missione in Libia, e i magnanimi Stati Uniti lo concedono, come il vecchio feudatario, rispetto al vassallo locale.

Quanta distanza dal tono dell’annuncio della concessione della base militare di Sigonella. “L’autorizzazione verrà data caso per caso”, spiegava il premier italiano Matteo Renzi ai microfoni di Rtl 102-5. “Se ci sono evidenze del fatto che attentatori preparano un attacco, l’Italia farà la sua parte come tutti gli altri”.

Al netto della gravità del fatto che l’opinione pubblica italiana e il Parlamento di Roma vengano a conoscenza dell’autorizzazione concessa al decollo di droni d’attacco a gennaio solo un mese dopo, e dal Wall Street Journal, resta il passaggio di livello operativo della missione in Libia.

Il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, precisava come “la concessione di Sigonella non è un preludio a un attacco militare”. Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, conferma: “ I droni armati americani sono pensati non solo in funzione della Libia, ma per la protezione degli assetti e del personale americano e della coalizione in tutta l’ area. Non è una decisione legata a un’accelerazione sulla Libia”.

Tutto l’esecutivo italiano, insomma, si muove su tre principi chiave: non stiamo andando in guerra, ospitiamo gli alleati, collaboriamo con loro e ci ‘difendiamo’ dagli attacchi terroristici. Un profilo basso, difensivo, da alleati affidabili. Tutti ribadiscono: l’opzione diplomatica resta la preferita.

Ecco perché l’uscita dell’amministrazione Obama, che non avrà apprezzato comunque l’uscita della Pinotti che praticamente confermava pubblicamente la presenza di elementi Usa sul terreno in Libia, ha lanciato un messaggio chiaro a Roma: ci siete, e ci siete fino in fondo. E ci siete perché siete voi che ci volete essere.

Come potrebbe essere altrimenti, d’altronde? Il legame economico – energetico tra Italia e Libia è molto più che strategico, è vitale. La Francia, da decenni, prova a prendere quel posto che rispetto a Tripoli Roma ha occupato da sempre.

L’ansia dell’esecutivo italiano è quella: dover difendere la posizione di leader sulla questione libica, ma allo stesso tempo non assecondare nell’opinione pubblica interna la consapevolezza del fatto che la missione militare in Libia esporrà il paese alla reazione di Daesh e degli squilibrati che si rifanno al brand Stato Islamico.

Perché fino a oggi, l’Italia si è tenuta lontana dai teatri caldi, al contrario della Francia, che ha rappresentato un bersaglio del terrorismo anche perché ha elevato in modo esponenziale la sua presenza militare in Medio Oriente e in Africa.

A Parigi, questo ormai è chiaro a tutti, il presidente Francois Hollande ha una sola speranza di essere rieletto ed è quella di accreditarsi come ‘presidente di guerra’. Il premier italiano Matteo Renzi, invece, la guerra la eviterebbe volentieri, ma i nodi di una politica estera italiana confusa sono venuti al pettine.

Da un lato i vertici militari, con il gen.Serra che dovrebbe prendere il comando, spingono da un lato, dall’altro l’esecutivo che fino all’ultimo spinge per la cornice Onu e per l’accordo di unità nazionale tra i due governi libici e comunque chiede almeno una ‘chiamata’ del governo di unità nazionale.

Capita la dinamica dell’accelerazione di queste ore, resta da capire quando partirà l’azione, che durata avrà e come impatterà sulla situazione libica. E qui la storia si complica.

Sul terreno, in Libia, operano decine di milizie. Ciascuna ha degli sponsor, un’agenda, e le alleanze sono molto liquide, in base alle convenienze del momento. Un mosaico così opaco, un teatro denso di armi, non è lo scenario ideale per un’operazione militare. Perché rischia di non risolvere nulla.

A sentire Washington e Roma, l’obiettivo tutto sommato sarebbe solo Daesh, ma è un modo distorto di presentare la realtà Perché se è vero che alcuni miliziani si sono detti fedeli al Califfo, riprendedone discorso pubblico e iconografia, non è oggi Daesh che rappresenta l’elemento di instabilità maggiore.

A Daesh è, più o meno, riconosciuto il controllo di Sirte e di alcuni quartieri di Derna, Bengasi, Ajdabiya, Sabrata. Un pezzo, ma solo uno, del mosaico libico. Le truppe fedeli al generale Haftar e al governo di Tobruk, appoggiate dall’Egitto, controllano la parte orientale del Paese e una zona al confine con la Tunisia, dall’altra parte. Per finire con le tribù che controllano largamente la zona sud-occidentale. Al governo di Tripoli, poi, resta il controllo di una parte occidentale del paese.

Insomma un nemico, uno solo, un unico responsabile del caos libico, facilmente riconoscibile, non esiste.
Non è un caso che sarebbe bastato un accordo tra i due governi per schiacciare con ogni possibilità Daesh. Perché allora un intervento militare internazionale? Perché non costringere le due parti a collaborare a tutti i costi?

E’ evidente che ormai la linea scelta è quella della tutela militare di uno dei tanti stati senza stato, stateless, che caratterizzano il mondo post Guerra Fredda e post guerra al terrorismo. Perché Daesh non c’entra nulla con le divisioni tribali, le fazioni politiche e le mille milizie libiche. Bombardare non risolverà il problema, andare sul terreno non risolverà le divisioni della Libia. Ma è un ottima scusa per imporre la presenza occidentale in Libia.

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