Geopolitica
Corruzione e voglia di destra: ma cosa farà Bolsonaro nessuno davvero lo sa
«Questa notte ho ricevuto un video dal Brasile. Un video di gente che festeggiava la vittoria di Bolsonaro acclamando i carri armati dell’esercito per le strade di Niterói, la città collegata a Rio de Janeiro dal famoso, lunghissimo ponte… Una visione davvero terribile». Lo racconta a Gli Stati Generali Janaina César, giornalista brasiliana attiva in Italia. Per milioni di brasiliani democratici la vittoria dell’ex militare Jair Bolsonaro è un grande shock. Che fa ritornare con la memoria agli anni più bui della dittatura militare, quando i dissidenti venivano torturati, stuprati e ammazzati, e la stampa era sotto ferreo controllo. Gli anni di slogan come: “Brasil, ame-o ou deixe-o” (Brasile, amalo o lascialo).
“Sono a favore della tortura” (1999); “Sarei incapace di amare un figlio omosessuale” (2011); “Non ti stuprerei perché non lo meriti” (2014); “L’errore della dittatura era torturare e non uccidere” (2016); “[Gli afrobrasiliani delle comunità quilombo] non fanno niente! Non sono buoni nemmeno per la procreazione” (2017); “[I politici di sinistra] o andranno all’estero, o andranno in galera” (2018). Queste sono soltanto alcune delle dichiarazioni di Bolsonaro nel corso di una carriera politica incendiaria ma spesso marginale.
Senza dubbio si tratta del presidente più a destra che la democrazia brasiliana abbia mai avuto. Viene così definitivamente archiviata, dopo l’ambiguo intermezzo dello scialbo Michel Temer, l’era dei presidenti di sinistra Lula e Rousseff, spazzata via dalle conseguenze politiche e sociali di Lava Jato, la Tangentopoli brasiliana che tra il 2014 a oggi ha messo in ginocchio il Partido dos Trabalhadores (PT) e incarcerato il suo più illustre esponente, Lula. Un’operazione giudiziaria, Lava Jato, che ha scoperchiato gli sporchi intrecci tra politica e grandi imprese, ma che secondo i suoi detrattori è stata usata come una clava contro la sinistra e altri storici partiti (incluso il PMDB di Temer).
E se la Tangentopoli nostrana sfociò nell’ascesa dell’homo novus Berlusconi, Lava Jato ha portato alla ribalta Bolsonaro, che ha fatto della lotta alla corruzione e alla criminalità i suoi cavalli di battaglia. «Sono diversi i motivi che hanno contribuito all’ascesa di Bolsonaro e del movimento di estrema destra – spiega il professor Oscar Vilhena Vieira, direttore della Scuola di diritto di San Paolo –. Primo, la disintegrazione del sistema partitico brasiliano, formatosi durante la transizione alla democrazia; il coinvolgimento dei partiti in fenomeni di corruzione ha eroso la loro legittimità, e ha dato spazio alle forze anti-sistema. Secondo, l’incapacità dei successivi governi, sia statali che federali, di occuparsi dei problemi di sicurezza pubblica, che sono cresciuti enormemente negli ultimi anni. Terzo, la crisi economica che ha colpito in particolare i poveri, attraverso la disoccupazione e l’indebolimento del welfare. Quarto, il clima politico internazionale che ha sdoganato il discorso politico populista e nazionalista».
A sostenere Bolsonaro, potenti forze economiche e sociali come le grandi imprese agricole, le forze armate, la polizia, le sette evangeliche che stanno erodendo la presa della Chiesa cattolica a forza di programmi tv, canzoni e millantati miracoli, e una fetta cospicua di una classe media spaventata dalla violenza (63.880 gli omicidi nel 2017, più di 170 al giorno), ma allettata dall’agenda liberista del politico di estrema destra. «Il portafoglio mi dice che dovrei essere contento per la vittoria di Bolsonaro, ma il cuore mi dice che devo essere molto preoccupato – racconta un imprenditore brasiliano che si divide tra San Paolo e il Veneto, e che preferisce non rivelare la sua identità –. Temo che Bolsonaro sia peggio di Trump. Molto peggio».
Ma a parte qualche slogan da Chicago Boy (e infatti il consigliere economico di Bolsonaro ha conseguito un PhD nel dipartimento dove insegnava Milton Friedman), il programma economico di Bolsonaro è piuttosto nebuloso. Lo conferma Antonella Mori, responsabile del programma America Latina dell’Ispi e professoressa di macroeconomia all’università Bocconi: «A grandi linee sappiamo che quando Bolsonaro dice “più Brasile, meno Brasilia” esprime l’idea di ridurre la presenza, il ruolo dello Stato nell’economia, e di aumentare invece quello del mercato, mettendo in atto delle politiche più business-friendly (liberalizzazioni, privatizzazioni, deregolamentazione e così via). Ancora, si sa che è una necessità per il Brasile la riforma del sistema pensionistico, perché attualmente è molto generoso».
Per la studiosa «la riforma va fatta, dato che una parte considerevole delle uscite pubbliche è destinata alle pensioni, ma sarà molto difficile». Anche perché il parlamento, come da tradizione in Brasile, è molto frammentato, e questo complicherà non poco la vita al neo-eletto presidente. Il rischio, paventa Mori, è proprio quello di uno scontro tra un esecutivo dalle inclinazioni autoritarie e un legislativo difficile da controllare. L’esito finale potrebbe essere un indebolimento delle istituzioni democratiche.
In questi giorni su Brasilia, la gigantesca capitale artificiale progettata da Lúcio Costa e Oscar Niemeyer, infuriano i temporali. Assai meno tempestosi i mercati brasiliani: nell’ultimo mese l’indice della borsa di San Paolo Bovespa è passato dai 78.600 punti del 1° ottobre ai quasi 86mila di venerdì 26 ottobre. Una conferma della fiducia che pezzi importanti dell’economia brasiliana nutrono verso il “Trump dei tropici”. Ben diverso l’atteggiamento nei confronti del PT, a cui molti imprenditori non hanno perdonato le ingenti spese nella lotta alla povertà, e un atteggiamento economico troppo dirigista (e per i loro gusti eccessivamente sensibile ai temi ambientali).
La fiducia però va ben oltre le ricche gated communities di San Paolo e Rio, che gli inquilini lasciano solo prendendo un SUV blindato o un elicottero. Al ballottaggio contro il candidato del PT Fernando Haddad, Bolsonaro ha ricevuto quasi 58 milioni di voti, il suo avverdario solo 47. «Bolsonaro non ha mai ricoperto incarichi di governo, è un’incognita – dice Daniel Camargo, regista e autore brasiliano – Benché abbia fatto diverse dichiarazioni infelici, la sua vittoria è frutto della volontà popolare. In questo momento il mio stato d’animo è un misto di preoccupazione e ottimismo… perché i brasiliani sono ottimisti per natura, sempre, per quanto nera possa essere la situazione».
Secondo Camargo, più che un voto di castigo, quello brasiliano è stato un voto «per scegliere qualcosa di nuovo. Una scommessa che mette in gioco le vite di 209 milioni di persone. In fondo anche l’elezione di Lula, a suo tempo, fu espressione di un desiderio di novità… Speriamo che questa “nuova novità” non si porti dietro vecchi vizi…»
Ma oltre ai vecchi vizi, potrebbero essercene di nuovi. Per esempio, l’utilizzo di massicce dosi di fake news e aggressive campagne su WhatsApp, come ha denunciato il quotidiano Folha de Sao Paulo. Insomma, il Brasile di Bolsonaro come gli Stati Uniti di Trump e la Russia dello “zar” Vladimir? Di sicuro pure a Brasilia, dopo Mosca e Washington (e Ankara, Il Cairo, Budapest, New Delhi), siederà un uomo forte. Quanto forte, lo si vedrà presto.
Immagine in copertina: Pixabay
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