Geopolitica
Autobiografie del lavoro: Karolina Chernoivan, lavorare con intorno la guerra
Esiste uno spazio non più ignorabile nemmeno in Europa, quello della guerra e del conflitto armato che è ritornato preponderante sulla scena globale relegando l’Occidente ad un isola felice di diritti e pace seppur tra infinite contraddizioni. Figli di un’idea esecrabile di esportazione della democrazia che ha lasciato sul campo morti e paesi distrutti, gli europei e gli occidentali in generale vivono con vacuo terrore l’attuale scena internazionale: le bollette di gas e luce come principali antenne per percepire quanto sta avvenendo a est e spesso nulla più. Ma come si vive e si lavora in un paese in guerra? Abbiamo intervistato Karolina Chernoivan che in Ucraina ha deciso di tornare proprio nelle settimane precedenti all’invasione russa. Giovane donna nata in quel 2000 che avrebbe dovuto certificare la fine della Storia, Chernoivan (qui un suo scritto) vive ormai da due anni e più un conflitto che ha tutto l’orrore e l’assurdità di una guerra del Novecento che pensavamo di aver lasciato nei libri di storia come nelle testimonianze dei nostri nonni o bisnonni. Chernoivan ha studiato Scienze politiche all’Università Orientale di Napoli e ora si è inventata traduttrice e interprete e ad oggi lavora com fixer sul terreno di guerra.
Che cosa facevi prima che il conflitto esplodesse?
Studiavo in Italia, però ho iniziato l’università praticamente in piena pandemia. Quindi il primo e il secondo anno l’ho fatto a distanza, poi è stata introdotta una forma mista di presenza e distanza, ma l’organizzazione non era sempre chiara e di conseguenza prenotare per essere in presenza diventava complicato. A quel punto ho preferito continuare a distanza, ma da Odesa. Il 23 dicembre del 2021 sono così arrivata a Odesa.
Come era l’atmosfera?
Nessuno immaginava lo scoppio imminente della guerra e quando chiedevo ai miei amici cosa avrebbero fatto in caso di invasione mi ridevano in faccia, quasi mi davano della paranoica. L’ipotesi era considerata totalmente fantasiosa.
Cose è successo nei giorni precedenti all’invasione russa?
Ho sperato, ho creduto che saremmo riusciti ad evitare il conflitto. Il 20 febbraio del 2022 a Odesa come in molte altre città ucraine si sono svolte delle grandi manifestazioni per ribadire l’indipendenza dell’Ucraina. Manifestazioni con migliaia di persone pacifiche che però volevano far capire che non sarebbero scappate di fronte a nulla.
Come hai reagito?
Ho pubblicato un post in cui ho scritto che non sarei scappata. C’era una casa, la nostra, da proteggere. E la sera Putin ha fatto il famoso e triste discorso in cui annetteva e riconosceva le repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk. Mentre con la mia coinquilina ascoltavamo le parole di Putin abbiamo capito che quella non era altro che una dichiarazione di guerra.
Cosa hai fatto?
Sono andata su google! [ride, ndr] Ho cercato una tenda, un sacco a pelo e tutto quello che avrebbe potuto servirmi per muovermi a piedi, la mia coinquilina ancora non ci credeva e mi prendeva in giro. Ho chiamato un mio amico sempre di Odesa e siamo andati all’ufficio di arruolamento per per provare a unirci al corpo di difesa territoriale. Era il 22 febbraio.
Cosa ti hanno detto?
Non hanno potuto arruolarmi perché non avevo i documenti di residenza su Odesa, quindi mi sono messa in viaggio verso il mio paese d’origine dove sono arriva il 24 febbraio, quando tutto è cominciato.
Cosa ricordi di quel giorno?
Il telefono mi ha svegliato alle sei del mattino, mia mamma mi chiamava dall’Italia, ma ho messo giù ero intontita dal sonno. Ho guardato sui social le prime immagini delle esplosioni, ma ancora non capivo quello che stava avvenendo. È stato un attimo lunghissimo prima che capissi per davvero ed è stata probabilmente l’ultima volta che sono rimasta assonnata così a lungo. Ho chiamato allora la coinquilina che era rimasta a Odesa, era alla fermata dell’autobus e piangeva, non sapeva che fare. E anche io nonostante mi aspettassi l’attacco ero sotto shock. Le ho detto di raggiungermi, perché anche lei era originaria del mio paese.
Quando è arrivata da te?
Un paio di giorni dopo, non abbiamo più dormito. Facevamo i turni, il nostro villaggio è a tre chilometri dalla Transnistria e ci aspettavamo l’arrivo dei militari russi. Non abbiamo più dormito anche alla fine siamo entrambe crollate per lo stress, l’ansia e la paura. La nostra vita era come azzerata.
Non hai mai pensato di andare via dall’Ucraina?
Di scappare intendi? In realtà non avevo e non ho altro che le energie per andare avanti. Scappare è un’ipotesi che non solo non mi ha mai sfiorato, ma non aveva alcun senso, sarebbe solo un tradimento. Se la nave deve affondare, affonderò anche io come tanti altri ucraini che come me hanno dato in questi anni la loro vita. E anche per loro devo restare, perché io sono anche parte di loro.
Cosa pensavi di fare nella vita? Quale era la tua ambizione lavorativa?
Ho cambiato molte idee nel tempo. Da ragazzina il sogno era l’astronauta perché vedevo le prime donne nelle spazio. Immaginavo di entrare alla NASA [sospira, ndr]. Lo desideravo davvero. Però già nel 2016 con le prime notizie dalle zone di crisi in Donbas, notizie che ricevevo allora stando in Italia ho pensato all’ipotesi di diventare inviata di guerra. Ma allora la guerra l’avevo vista solo da lontano, sulla televisione. Mi informavo poi su canali social, in particolare su Telegram che non filtrava nulla. Lì potevo vedere con i miei occhi la mostruosità dei conflitti. Abituarmi a vedere quelle immagini mi ha abituato poi quando in guerra mi sono ritrovata io. Con i corpi o meglio i pezzi di corpi che si rivelano dopo un bombardamento davanti agli occhi e tu devi muoverti e senti quell’odore dolciastro e acre di carne umana. Un odore che non dimentichi. Quindi sì volevo fare l’inviata di guerra, l’ambizione era proprio quella, ma non avevo mai pensato che avrei iniziato a farlo in guerra nel mio paese.
Di cosa ti occupi oggi?
Oggi, per quanto la tensione sull’Ucraina sia di molto collassata, continuo a fare la fixer. La fixer, oppure la local producer che è la persona che ti trova storie, che ti accompagna nel viaggio in un paese in guerra. La figura che si occupa di tutte le richieste e resta in contatto con le autorità, con i militari e così via. Anche se in realtà a me questa definizione non mi piace, è molto riduttiva.
Come è stata la tua prima trasferta?
La prima volta sono partita come traduttrice e interprete. Ho lavorato con Daniele Piervincenzi (e sono felice di aver avuto la mi prima esperienza sul campo con lui perché da lui ho imparato moltissimo). Il suo modo di fare giornalismo è basato infatti sull’esplorazione, prima si studia la situazione e poi vai ad esplorare il luogo e a conoscere la gente, parlando con loro entrando in contatto e conquistando la loro fiducia. Poi chiaramente ci sono anche altre modalità spesso più frenetiche che cercano la notizia senza comprenderne in realtà il contesto pienamente, ma in una zona di guerra tutto è molto veloce e anche gli scenari cambiano rapidamente, è inevitabile.
Cosa ricordi delle prime uscite esplorative?
Sempre nella prima trasferta, eravamo a Lysyčans’k, lì le persone si nascondevano da settimane nelle cantine e dove potevano. Siamo scesi in questa cantina e c’era lei. Non lo posso dimenticare non riesco a non pensarci, mi torna sempre in mente [lungo sospiro di Karolina, qualche secondo di silenzio, ndr]. C’era questa donna anziana al buio con solo una piccola torcia elettrica, attorno a lei vecchie robe e tanta polvere ma anche tantissimi libri di Agatha Christie che la circondavano o meglio la proteggevano. Ci disse che leggerli per lei era un modo per sfuggire al terrore e al caos. Subito dopo l’intervista ci siamo abbracciate forte. Ho sentito il bisogno di stringerla a me. In quei giorni ogni 50 metri c’era un esplosione, i bombardamenti erano continui. E lei era molto scossa e si è lasciata andare in un pianto liberatorio. Mi ha preceduta di poco, così l’ho consolata io, le ho detto che tutto sarebbe andato bene che con l’estate tutto si sarebbe risolto. Ma tutto non è andato bene, nulla si è risolto e io le ho solo mentito e non passa giorno che non senta forte il senso di colpa per averla ingannata. Ovviamente di lei non so più nulla. Ecco questo è stato, come si dice, il mio battesimo del fuoco.
Pensi di diventare una giornalista?
Sì, ho pensato di diventare giornalista, come detto anche prima, e mi piacerebbe tutt’ora diventarlo. Però una brava, una freelance forse. Perché il giornalismo dovrebbe essere un’ala del potere. Un’ala che non può essere influenzata dal governo da cui deve restare indipendente, con piena libertà di parola, di pensiero. Cosa che purtroppo in molti paesi non è ancora. Già solo in Italia che pure è un paese libero l’ombra della censura in alcuni momento è chiaramente percepibile. Quindi per me diventare una giornalista significa prima di tutto poter diventare una giornalista libera.
Hai mai pensato di arruolarti?
Come ti ho detto ho pensato di arruolarmi già il 24 febbraio ancora prima che scoppiasse del tutto il conflitto e poi ci ho riprovato successivamente. Ma non mi hanno presa. Ci penso ancora sai? E più passa il tempo – per come vanno le cose – più è possibile che possano prendermi. Ma resta una decisione molto complicata, per me più di prima. Ho visto come sono tornati dal fronte molti dei miei coetanei, ho visto gli effetti del PTSD e non so sarei in grado di reagire in maniera lucida ed efficace una volta al fronte. Ho paura che sarei solo d’intralcio, cosa per altro già sospettata dai selezionatori ogni volta che ho tentato di arruolarmi. Certo poi se le cose dovessero precipitare sono assolutamente pronta a fare la mia parte fino in fondo.
Dove ti vedi finita la guerra? Pensi di restare in Ucraina o di andare all’estero?
Finita la guerra! Beh, se riuscissimo a riprendere tutti i territori, vorrei prendermi una bella casetta, una nella campagna del Donbas. Vorrei viver lì con una grande biblioteca e un bel camino e soprattutto tanto tanto silenzio, senza ansia e paura. Pensando solo a scrivere e a studiare e magari anche occuparmi di cose piccole e quotidiane oggi impossibili come curare un giardino. Mi manca enormemente quella serenità. Addormentarmi senza pensare al prossimo rifugio a dove scappare. Nascondermi in bagno sperando che tutto non crolli sotto il bombardamento. Poi non lo so, non so se davvero quel giorno saprò essere in grado di essere serena o se la paura delle 4 del mattino, dell’invasine russa ancora mi accompagnerà. Però vorrei anche girare il mondo. Voglio vedere il mondo. e vorrei lavorare come detto come inviata di guerra, ma non solo in Ucraina.
Perché non inizi a girarlo già ora?
No, non posso farlo ora. Voglio vivere il mondo solo se è per me possibile farlo senza sensi di colpa. Cosa faccio lascio l’Ucraina abbandonando amici, parenti che ogni giorno combattono anche per me per divertirmi all’estero? O per seguire le mie ambizioni? Sarebbe un lusso che la mia coscienza non si può permettere.
Cosa vuol dire per una donna vivere in un paese in guerra?
Sono una ragazza che non ha un marito e che non ha un fratello in età arruolabile, quindi questo è già un vantaggio. Però sicuramente per altre donne che ho incontrato in questi anni è davvero molto diverso. Vivi nell’attesa di qualche notizia dal fronte e soprattuto vivi in un’estrema solitudine. Vivi aspettando un messaggio, la conferma che lui sia ancora vivo, anche se magari già non c’è più da settimane. Così come non so cosa significhi essere una madre in guerra che ad ogni bombardamento cerca di coprire con il proprio corpo i figli per proteggerli. Non posso rispondere per davvero a questa domanda perché sono una donna sola, ho perso tanti amici al fronte. Ho conosciuto una paura nuova, quella di conoscere nuove persone, quasi solo uomini che probabilmente perderò di nuovo. Così non posso affezionarmi perché non posso sostenere la perdita di altri occhi, di altre mani e di altri sorrisi amici.
Cosa significa per te oggi la parola “diritti”?
I diritti sono la cosa fondamentale della nostra società. E vanno difesi. Abbiamo lottato per secoli per avere diritti e per avere una voce. Non basta essere dispiaciuti, se vogliamo difendere i nostri diritti e se voi volete continuare a vivere liberamente come vivete dove aiutare l’Ucraina. Servono armi e servono da mesi. Noi stiamo difendendo i vostri stessi diritti e se un paese come l’Ucraina che crede appunto così tanto nella democrazia perderà il conflitto significherà che avrete perso anche voi. Avrete perso la guerra e con lei la democrazia stessa. E allora non oso immaginare che tipo di mondo potrà esserci.
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