Geopolitica

Arriva la guerra, e la nostra politica non sa cosa mettersi

7 Ottobre 2015

A livello clinico, per l’enciclopedia Treccani, la coazione a ripetere è quella tendenza incoercibile, del tutto inconscia, a porsi in situazioni penose o dolorose, senza rendersi conto di averle attivamente determinate, né del fatto che si tratta della ripetizione di vecchie esperienze.

Il 7 ottobre 2001 iniziava l’invasione dell’Afghanistan. Quello è stato il primo di una sequela di errori gravi che gli Stati Uniti d’America e l’Unione europea hanno iniziato senza essere più capaci di fermarsi. Oggi, quattordici anni dopo, il mondo è in fiamme. E, a complicare le cose, appare evidente come nessuno dei leader (e se ne sono alternati tanti) alla guida del cosiddetto Occidente abbia una visione, una strategia. Eppure, ancora una volta, solo l’opzione militare è quella che è sul tavolo. Quando si fa la guerra, sono i più spietati a emergere, guadagnando tutto quello che possono dalla situazione. Il presidente russo Vladimir Putin, ad esempio. Il pressing della Nato alle porte del cortile di casa della Russia ne ha innescato la reazione. Rabbiosa, feroce.

L’Ucraina è ancora a brandelli, portando la guerra vicino alle piazze facoltose dell’Europa stabile come mai dopo la dissoluzione della ex-Jugoslavia. In Siria, come mai sarebbe stato immaginabile un tempo, i corpi speciali e l’aviazione russa si muovono con totale libertà, regolando i conti per il presidente siriano Assad verso i ribelli.

Il presidente turco Erdogan, allo stesso modo, sta regolando i conti con i curdi. Per recuperare voti all’interno, per bloccare l’evidente trend che sembra – per la prima volta dopo cento anni – portare alla nascita di un Kurdistan indipendente alle porte della Turchia. Putin, come Erdogan, avevano le milizie di Daesh come dichiarato obiettivo, ma stanno facendo (e colpendo) altro.

L’Iran, tenendo in scacco il futuro dei siriani, appoggiando il regime di Assad, è riuscito comunque ad andare a grandi passi verso la normalizzazione dei rapporti con gli Usa. Un risultato che, mentre l’economia interna boccheggia, è destinato a rafforzare il regime degli ayatollah, senza ottenere nulla in cambio, se non si costringe Teheran ad abbandonare al suo destino Assad.

L’Iraq è a pezzi. Non esiste più, per certi versi. Come la Libia. Come lo Yemen. Tutta la regione si sta ridisegnando a colpi di kalashnikov e di migliaia di civili morti, e di milioni di profughi, interni ed esterni. Si ridisegnano confini di fatto, si accentuano le fratture interconfessionali, esplodono le vestigia del mosaico culturale che è stato il Medio Oriente.

Di fronte a questo quadro, che fa sembrare il periodo del 2001 una sorta di paradiso perduto, la totale assenza di linea – condivisa o meno – tra Washington, l’Ue, l’Onu e gli attori minori, è in piccola scala ben rappresentata dall’Italia.

Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, in un imbarazzato minuetto con il ministro della Difesa Pinotti, continua a dire tutto e il contrario di tutto nel giro di poche ore. Attacchiamo la Libia? Per ottenere quale risultato? Come? O attaccheremo in Iraq? Chi attaccheremo? Con gli F35 o i vecchi Tornado?

Dichiarazioni, smentite. Mentre le aziende che producono armi inondano il mercato, a cifre record. E quelle armi vengono usate, non collezionate.

E’ iniziata la terza guerra mondiale? Certo, da almeno quindici anni. Perché il dramma di questa situazione liquida e sanguinosa, è che non è previsto che finisca. La geometria del conflitto e del post-conflitto non esiste più. Esiste uno stato permanente di instabilità, che si autoalimenta, perché produce utili costanti per quel settore grigio che si muove tra politica ed economia.

Il numero degli stati falliti non è mai stato così alto nella storia. Non è un processo che si potrà invertire in pochi anni. Anche se, e non sembra affatto all’ordine del giorno, ci fosse la reale volontà di mettere ordine. La guerra ha prodotto altra guerra, e si vuole rispondere ancora con la guerra. Che genererà altra guerra. Un cerchio, che si stringe, e soffoca il futuro.

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