Geopolitica
Strage ad Ankara, la Turchia verso il voto in un clima da guerra civile
Un corteo colorato, una marcia per la pace, ad Ankara, la capitale della Turchia. Una dimostrazione pacifica per chiedere la fine del conflitto con i curdi. E poi due esplosioni drammatiche, intorno alle 10, nei pressi della stazione ferroviaria. Il lugubre conto delle vittime è andato salendo con il passare delle ore: almeno 95 morti e 246 feriti, di cui 48 in modo grave, secondo le ultime informazioni ufficiali. «La strage più grave nella storia della Repubblica», ha detto il premier turco, Ahmet Davutoglu, che ha annunciato tre giorni di lutto nazionale.
Bisognerà aspettare per capirne di più, ma la tragica esperienza dell’attentato a Soruc del luglio scorso, insegna che per identificare e arrestare i responsabili non sono bastati due mesi. Perché la zona grigia che si è venuta a creare nella società turca è un bosco fittissimo. Dove si muove l’estrema destra nazionalista, mai così libera di agire impunemete contro presunti nemici del Paese, e dove si muove un esecutivo sempre troppo cauto quando gli obiettivi del terrore sono i militanti curdi, o anche solo gli attivisti delle formazioni di sinistra.
“Il paese rischia la guerra civile”, ha titolato Radikal. Può essere un’esagerazione, ma da non sottovalutare. Anche perché la scadenza elettorale del prossimo 1 novembre, con la Turchia chiamata a elezioni anticipate, rischia di inasprire lo scontro.
Ed è proprio la stampa un termometro di questa tensione: il 15 settembre scorso, la procura di Ankara ha aperto un’inchiesta contro il gruppo editoriale Dogan, proprietario del quotidiano Hurriyet, vicino al centro – destra, accusato di propaganda filo PKK per aver pubblicato le foto dei militari turchi uccisi negli scontri.
E sono già più di cento, tra militari e poliziotti, le vittime dell’offensiva militare lanciata dal presidente turco Erdogan contro i miliziani curdi. Per non parlare delle vittime tra i civili, oltre che ovviamente tra i combattenti del PKK, che in giornata ha tuttavia dichiarato il cessate il fuoco unilaterale nel conflitto con le forze governative. Un bagno di sangue che ha sancito come “il processo di pace tra la Turchia e il PKK è completamente crollato, senza speranza di riavviarlo, neanche dopo le elezioni del 1 novembre”, come ha scritto in un editoriale ancora su Hurriyet, Serkan Demirtas.
La sede del quotidiano, il 6 settembre scorso, è stata oggetto dell’assalto di oltre duecento fanatici, guidati però da un parlamentare del partito Akp al potere. Il governo, a parte un generico appello alla calma del premier Davutoglu, non ha preso una posizione forte in merito a questa e ad altre intemperanze degli estremisti nazionalisti, che colpisono ogni volta che possono le sedi del partito Hdp, la versa sorpresa delle ultime elezioni, formazione capace di mettere assieme curdi e ambienti della sinistra turca.
“La Turchia, un tempo descritta come un’isola di stabilità e benessere nella regione”, continua l’editorialista, “oggi non sembra molto diversa da uno dei tanti paesi del Medio Oriente in prenda al caos politico, alla violenza e alla frammentazione sociale. L’immagine della Turchia è peggiorata così rapidamente che quasi nessuno si ricorda di quando era descritta come un astro nascente grazie ai suoi progressi democratici ed economici”.
Un quadro dipinto a tinte fosche, ma in effetti solo fino al 2013 in tanti vedevano in Ankara il partner più affidabile nella regione, anche se le scelte di Erdogan durante le sollevazioni arabe, con la Turchia schierata in prima fila nel rovesciare i regimi in Tunisia, Egitto, Libia e Siria, avevano lasciato perplessi molti osservatori, che ritenevano Ankara troppo incline a flirtare con il radicalismo sunnita. Arrivando al punto di non controllare più la situazione siriana.
Poi è arrivato Gezi Park, le otto vittime, la brutale repressione di una protesta che anche agli occhi degli osservatori più filo Erdogan è apparsa paurosa e sproporzionata rispetto all’uso della forza. Poi è stato il turno della confraternita vicina al predicatore Gulen, vecchio alleato di Erdogan, finita nel mirino e denunciata come ‘stato nello stato’. A dicembre 2013, è il turno della magistratura, almeno quella che ha indagato Bilal, il figlio di Erdogan, e altri esponenti dell’Akp, tra cui alcuni ministri. Tre procuratori, accusati di appartenere a un’organizzazione criminale che ha tentato di rovesciare il governo, sono finiti nel tritacarne, arrivando ad abbandonare il paese.
Come scrive Akram Belkaid, su Le Monde Diplomatique, “sul piano interno i risultati delle elezioni di giugno sono stati una grande sconfitta per Erdogan, abituato ai successi elettorali fin dalla prima vittoria dell’Akp, nel giugno 2002”. Una sconfitta alla quale Erdogan sembra reagire ostentando il pugno di ferro, chiuso in una retorica scivolosa del “oltre me c’è il caos”, che lui stesso, però, fomenta con le sue decisioni.
Prima fra tutte la guerra senza quartiere al PKK, da anni ormai avviato al dialogo, dopo i sanguinosi anni Ottanta e Novanta. Seguita dalla repressione del partito Hdp, che superando l’alta soglia del 10 per cento è entrato a pieno titolo nel Parlamento. “L’apparato giudiziario, strettamente controllato dal potere, ha messo sotto accusa il carismatico copresidente dell’Hdp, Selahttin Demirtas, inquisito per incitazione alla violenza e attentato all’ordine pubblico, accuse che possono comportare una condanna a venti anni di carcere”, continua Belkaid.
È come se, dopo gli anni d’oro, la stella politica di Erdogan si sia offuscata a tal punto, da diventare un’ombra. L’adesione all’Ue è sempre più lontana, l’economia non tira più, il ruolo internazionale compromesso, con milioni di profughi siriani e la tensione interna che sale. Già il fallito tentativo, a fine 2014, di ottenere un seggio al Consiglio di Sicurezza Onu aveva fatto infuriare i diplomatici turchi.
Pressioni interne, esterne ed economia in crisi. Decisamente non tira un bel vento per l’Akp e per il suo leader, ma quello che preoccupa è che, dopo quasi quindici anni di dominio incontrastato, ci starebbe eccome un cambio della guardia al potere. Solo che tutte le mosse di Erdogan, da tempo, lasciano pensare che l’Akp non ha alcuna intenzione di prendere atto che, pur mantenendo una maggioranza relativa nel paese, non può più governare da solo. Agitando i fantasmi del nazionalismo, che in passato tanto male hanno fatto alla Turchia.
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