Geopolitica

Angela, noi e il nuovo Occidente

3 Giugno 2015

Oggi sul giornale più importate di ogni paese del G7 compare un lungo articolo di Angela Merkel in preparazione dell’imminente vertice internazionale. Il Corriere della Sera, non facendo Angela alcuna dichiarazione su Bindi, De Luca e Blatter, la relega in un angolino della prima pagina. Transeat, vediamo che dice di interessante la Bundeskanzlerin, cercando di comprendere  tra il detto e il non detto.

Nel non detto, sta il ruolo geostrategico della Germania il cui orizzonte si conferma non essere l’Unione Europea che, nel suo sfacelo, non ha dignità politica meritevole di accenno e di conseguenza pare derubricata pragmaticamente ad una area ad egemonia germanica nella quale affrontare questioni tecniche come il rigore nei conti. Gli autentici confini di un Occidente casa comune di valori liberali e di libero scambio sono a ovest (si badi, a ovest) il mar Cinese Orientale e a est l’Ucraina. Tali confini sono stati determinati (detto in modo esplicito) dalla rottura da parte della Russia delle regole diplomatiche post guerra fredda e (non detto) dall’attivismo territoriale cinese di fronte al Giappone.

Questo potrebbe essere un cambio di strategia per i tedeschi che fino agli ultimi G8, spigolosissimi con gli USA, vedevano una Germania animata dall’idea di giocare in proprio una partita a Est. Il cambio è tutto da verificare ma il riferimento alla necessità di approvare rapidamente il Trans Pacific Partnership (sostanzialmente accettato dal Giappone) e il discussissimo Transatlantic Trade and Investment Partnership significa voler trovare un accordo duraturo con la superpotenza americana o, perlomeno, rassicurarla sulla volontà in campo.

Già questa agenda lancia una sfida titanica all’intelligenza del gruppo dirigente italiano, adusa all’ombelico tra il Po e l’Arno, perché passare dal G8 al G7 escludendo la Russia per motivi politici non è privo di conseguenze né per l’industria tedesca né per la economia e la politica italiana, sia a destra che a sinistra. Aprire poi al ragionare senza le posizioni aprioristiche del premier sul TTIP, passate sotto silenzio come fossero cosa lunare, è una sfida su una visione del commercio internazionale, degli assetti geopolitici e della stessa società occidentale alla quale siamo assolutamente impreparati. Deve essere chiaro che su questi presupposti geostrategici si basa un’area del mondo, della quale siamo parte, profondamente diversa da quella che abbiamo conosciuto dopo il secondo conflitto mondiale: non più l’Unione Europea come possibile player in qualche modo alleato competitivo degli USA ma un gruppo di nazioni che prescinde e va oltre l’Unione e che crea il motore costituente un nuovo polo di equilibrio mondiale sull’asse Tokyo, Berlino Washington. Merkel fa questo passo perché deve demoltiplicare il possibile effetto del referendum britannico sull’Unione e perché si rende conto che l’equilibrio della guerra fredda e del suo immediato seguito è andato in frantumi. Se ci crede fino in fondo è un cambio di orizzonte radicale per i nostri figli del quale dobbiamo farci carico da subito. Se invece sarà pura tattica diplomatica ce ne accorgeremo in un battibaleno.

Merkel coniuga problemi economici con stabilità politica e sviluppo sociale, tralasciando il rituale riferimento al Doha Round, nella seconda parte dell’articolo. Dopo aver sottolineato gli effetti nucleari della epidemia di Ebola sulle economie e sulla statualità dei  paesi colpiti e ricordare che la malattia non è sconfitta (e non può esserlo, essendo endemica in parte dell’Africa), apre su due temi molto cari ai tedeschi e uno più a stelle e strisce: lo  sviluppo mondiale eco compatibile, la filiera di produzione responsabile delle regole del buon lavoro e lo sviluppo di una economia che inglobi la donna nella crescita sociale.  Questi sono tre temi assolutamente indigesti per i Brics e per gli altri paesi (si pensi al ruolo della donna in Medio Oriente dopo l’Isis). Soprattutto ribadisce l’obbiettivo di fermare a due gradi il riscaldamento globale del pianeta, obbiettivo difficile, scientificamente forse non sostenibile ma punto di equilibrio tra gli interessi di tutti. Rispetto a questi dibattiti noi siamo con una produzione politica a distanza siderale. Non è quella di Merkel un’agenda rivoluzionaria ma una messa a punto del motore rispetto alle spinte centrifughe degli interessi dei paesi coinvolti ed è un riflesso della abitudine culturale germanica di programmare nel lungo periodo.

C’è da chiedersi cosa possa fare l’Italia per meritarsi di rimanere all’interno di questi confini geopolitici dell’Occidente: il riscaldamento globale, i diritti umani, il libero scambio non sono per noi temi consueti, anzi sono normalmente relegati a convegni specifici di malati della materia. Eppure essi sono oggi l’anima dei rapporti internazionali perché sotto ognuno di essi si cela un abisso di incognite foriere di conseguenze sulle nostre vite quotidiane. L’opinione pubblica nazionale chiede di guardare alla fine della crisi, ai livelli di salari e al ripristino delle condizioni di vita del ceto medio a breve. La politica, nella sua consolidata autoreferenzialità, vive a brevissimo la dilaniante guerra sulle leadership negli schieramenti come elemento chiave per la propria individuale sopravvivenza.

I tempi della geopolitica internazionale richiedono di occuparsi giorno per giorno delle isole Senkaku, della Malacca e di una manciata di villaggi nel deserto mediorientale sfidando i ricordi della geografia scolastica, negletta materia, rinfrescata qualche volta prima di preparare le valige per vacanze esotiche. Ma se vogliamo recuperare il gap rispetto ad altre nazioni dobbiamo seguire l’esempio germanico e lanciare l’occhio oltre l’ostacolo quotidiano: solo il comprendere le ragioni della nascita di un nuovo Occidente ci permetterebbe di dare un senso non solo immediato alla massa di dolorose riforme che dovremo sopportare per superare un passato culturale e politico che non vuole finire.

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