Acqua
All’Italia serve un ministero del mare
Sembra che il governo che verrà stia valutando la possibilità di creare un ministero del mare. Se fosse vero, sarebbe una buona notizia. Chiunque conosca un quid di storia mediterranea sa che un ministero del mare servirebbe al paese come il pane. Lo suggerisce, prima di tutto, la geografia: l’Italia è una penisola. Importanti membri del G20 hanno un ministero dedicato al mare: il Canada, l’Indonesia, il Messico, l’India, la Corea del Sud (e l’Unione Europea, con il commissario per l’ambiente, gli oceani e la pesca). La Corea del Sud è una penisola, l’Indonesia è un vastissimo arcipelago, il Canada, l’India e il Messico sono tre attori di peso continentale e orizzonti, appunto, oceanici.
Negli ultimi tre decenni la classe dirigente italiana ha voltato le spalle al mare, concentrandosi soprattutto sull’Europa a nord delle Alpi. È vero che Germania, Francia, Svizzera e Austria fanno insieme un terzo del nostro export, e che gli imprenditori della pianura padana dopo l’italiano e il dialetto locale parlano spesso il tedesco, ma guardare a nord non impedisce di guardare anche a sud (e a est e ovest). Ricordiamo poi che 200mila imprese ruotano intorno al mare, e che il 25% del nostro PIL dipende direttamente o indirettamente dal mare.
Molti leader della Prima Repubblica (da Andreotti a Nenni, da Craxi a Berlinguer, da Pertini a Spadolini) avevano chiara la rilevanza del Mediterraneo per la nazione, e il più visionario tra gli imprenditori italiani del XX secolo, Enrico Mattei, costruì il successo della maggiore azienda italiana proprio sulla sponda sud del Mediterraneo.
Un ministero della marina mercantile esistette per l’intera storia della Prima Repubblica; il primo a guidarlo fu il siciliano Salvatore Aldisio, padrino di battesimo di Sergio Mattarella. Il ministero fu soppresso solo nel 1993, in concomitanza con Tangentopoli e la crisi dei conti pubblici: iniziava il declino del (cauto) protagonismo italiano nel Mediterraneo.
Sia chiaro: tornare a guardare al Mediterraneo non vuol dire riportare in vita locuzioni viète come mare nostrum, o dare la stura a velleità di grandezza dall’inaccettabile (e anacronistico) sapore colonialista.
Tuttavia l’Italia è un paese mediterraneo, e non può rifiutare questa sua natura. Continuare a guardare esclusivamente a nord significa condannarsi alla marginalità (e, sempre di più, anche alla fragilità) geopolitica. Non solo: un atteggiamento snobistico verso il Mediterraneo sta intaccando il peso economico e culturale di un paese che avrebbe moltissimo da guadagnare nel rafforzare i porti (e le infrastrutture a essi collegati), nel proteggere meglio gli stock ittici e gli ecosistemi mediterranei, nell’intessere relazioni più forti con paesi chiave del cosiddetto Mediterraneo allargato come l’Algeria e la Tunisia, l’Eritrea e il Kenya, la Somalia, Capo Verde, la Mauritania, Gibuti, Mauritius, le Maldive, l’Oman e il Qatar.
Per secoli l’architrave della prosperità economica e dell’influenza culturale dell’Italia è stata il commercio marittimo. Parafrasando Pirenne, il Mediterraneo è stato per la nostra penisola veicolo non solo di mercanzie, ma di idee. Il nostro debito nei confronti della cultura araba, ebraica e bizantina è enorme. E non solo le quattro “repubbliche marinare” di Venezia, Pisa, Amalfi e Genova, ma anche città come Napoli, Ancona, Livorno, Trieste, La Spezia, Ravenna, Reggio Calabria, Taranto, Bari, Messina e Palermo sono legate a doppio filo al Mediterraneo.
L’Italia ha 8.300 chilometri di costa, e vanta porti importanti, non pienamente valorizzati, e dal grande potenziale. Nella drammatica attesa che il Mar Glaciale Artico acquisisca, a causa del riscaldamento globale, una maggiore centralità nelle rotte marittime internazionali (ci vorrà ancora tempo), i nostri porti potrebbero (e dovrebbero) rappresentare l’approdo europeo più conveniente per le navi portacontainer asiatiche, che oggi preferiscono i porti del nord, come Rotterdam e Amburgo.
Per l’Italia si tratterrebbe di riappropriarsi di un’antica vocazione, sopravvissuta ben oltre le soglie della modernità: quella di ponte commerciale tra Occidente e Oriente, non solo con la Cina, ma anche con il Giappone, il Vietnam, la Corea del sud, l’India, l’Indonesia, Taiwan, l’Australia, Singapore, la Malesia e così via; sarebbe un modo per rilanciare efficacemente l’economia, da nord a sud (purché si operi secondo logiche di interesse nazionale, e non svendendo i terminal a qualche colosso extraeuropeo dello shipping). Non dobbiamo poi dimenticare che da gasdotti come Transmed arriva il gas naturale indispensabile per il nostro manifatturiero, nè trascurare il potenziale del moto ondoso per generare energia sostenibile.
I nostri porti potrebbero poi consentire una diminuzione del traffico su gomma; specie se ci decidessimo a potenziare le cosiddette Autostrade del Mare, puntando anche sul trasporto passeggeri tra città costiere attraverso aliscafi e catamarani: ad esempio da Genova a Livorno, da Venezia ad Ancona, o magari da Messina a Palermo; è mai possibile che da Venezia una famiglia possa andare in gita a Patrasso (Grecia), e non a Pescara o appunto ad Ancona?
Per non parlare dei benefici che un potenziamento dei collegamenti marittimi tra la Sardegna, la Sicilia, le isole più piccole e l’Italia continentale arrecherebbe ai concittadini di Cagliari, Siracusa, Lipari o Lampedusa; in questi anni, bisogna riconoscerlo, la cosiddetta continuità territoriale ha subito duri colpi. L’Italia è una lunga, sottile penisola, e a causa degli Appennini non è sempre facile collegare il nord con il sud, l’est con l’ovest. Puntare sul mare potrebbe essere un modo economico e sostenibile per “cucire” meglio il nostro paese, e rafforzare l’identità italiana, a scapito di anacronistici campanilismi che riescono a rallentare il progresso collettivo.
Certo, il Mediterraneo non è un mare facile (ma quale mare lo è?). Su di esso si affacciano medie potenze autoritarie in ascesa, come la Turchia, membri della NATO (e un giorno anche della UE, probabilmente) come l’Albania e il Montenegro, dittature come quella egiziana; la Libia versa in gravissime condizioni, e si può dire lo stesso per la Siria; il Libano si agita in una drammatica crisi economica, politica e sociale, e la situazione è persino peggiore nei Territori palestinesi occupati. Mosca da anni contribuisce a destabilizzare l’area mediterranea (ad esempio con la weaponization dei flussi migratori), e com’è noto ha un’importante base navale a Tartus.
Se l’Italia non si occupa del Mediterraneo, sarà il Mediterraneo a occuparsi dell’Italia. Specie in una fase storica così particolare, con la NATO concentrata sul fianco orientale e sul sistema baltico-artico. Istituire un ministero del mare sarebbe non solo un segnale importante ai nostri alleati, partner e competitor, ma un modo per rindirizzare l’attenzione nazionale su un’area strategica per gli interessi e la sicurezza dell’Italia. Le scelte simboliche a volte hanno ricadute molto pratiche.
Il Mediterraneo (e il Mediterraneo allargato) non possono più essere ignorati dalla classe dirigente e dal popolo italiano; e se sarebbe velleitario chiedere all’Italia un focus prioritario anche sull’area indo-pacifica (come fa ad esempio la Francia, che nel Pacifico ha territori e cittadini), non è velleitario occuparsi di quello che chiamo mare omnium: non solo perché il Mediterraneo non è (ovviamente) esclusiva di questo o di quel popolo, ma perché anche Stati assai distanti dalle sue sponde operano nel Mediterraneo con grande disinvoltura, ad esempio svolgendo attività di pesca illegale che danneggiano gli ecosistemi e gli stock ittici.
E proprio una più efficace tutela dell’ambiente e degli ecosistemi del Mediterraneo dovrebbe essere un’altra, fondamentale ragione per istituire un ministero del mare. Inquinamento, pesca illegale, cambiamento climatico e devastazione dei fondali con metodi di pesca dannosi e stanno mettendo il Mediterraneo in ginocchio. Se non si agisce subito per tutelare e – ove necessario e possibile – ripristinare gli ecosistemi, la situazione precipiterà, diventando ancora più drammatica e mettendo a rischio i settori economici e produttivi che da essi dipendono, a cominciare dalla pesca. Occuparsi di Mediterraneo significa poi anche porre un freno agli sconfinamenti di pescherecci nordafricani in acque italiane o in aree protette, così come trovare una soluzione alle inaccettabili aggressioni della guardia costiera libica ai pescatori italiani.
Infine, l’economia del mare è un pilastro del nostro PIL. L’Italia è il leader europeo nella cantieristica (grazie prima di tutto a Fincantieri), ma in Estremo Oriente paesi come la Cina o la Corea del Sud dedicano grandi risorse al settore. Poiché da noi i fondi sono sempre pochi, non resta che puntare su un maggior coordinamento tra tutti gli attori pubblici e privati per sostenere la leadership italiana. Attraverso il ministero del mare.
Questo post è tratto da un Commento uscito sul blog dell’Osservatorio Geopolitico e Geostorico del Nordest per l’Impresa e il Lavoro (OGGNIL).
Devi fare login per commentare
Accedi