Geopolitica

Alla radice del “whatever it takes” politico-militare di Mario Draghi

12 Giugno 2023

1. Zelensky

In un discorso al MIT di Boston, dove ha ricevuto il Miriam Prozen Prize per la Finanza e la Politica, Mario Draghi, lo scorso 8 giugno, ha pronunciato una specie di “whatever it takes” politico-militare, facendo sue, tutto sommato, le tesi del Presidente Zelensky, sebbene viste dal lato europeo.

Ecco un passo cruciale del suo discorso:

“La brutale invasione russa dell’Ucraina, avvenuta circa un anno e mezzo fa, non era un imprevedibile atto di follia ma un passo premeditato dell’agenda di Vladimir Putin e un colpo intenzionale all’Unione Europea. I valori esistenziali dell’Unione Europea sono la pace, la libertà e il rispetto della sovranità democratica. Questi sono i valori emersi dopo il bagno di sangue della II Guerra mondiale. Ed è per questo che non c’è alternativa per gli Stati Uniti, l’Europa e i suoi alleati se non garantire che l’Ucraina vinca questa guerra. Accettare una vittoria russa o un confuso pareggio indebolirebbe fatalmente altri stati confinanti e manderebbe agli autocrati il messaggio che l’Unione Europea è pronta a scendere a compromessi sui suoi valori di fondo. Sarebbe anche un segnale, verso i partner orientali, che il nostro impegno per la loro libertà e la loro indipendenza – un pilastro della nostra politica estera –  non è, tutto sommato, così incrollabile. In breve, sarebbe un colpo fatale all’Unione Europea.”

Per l’Europa e i suoi alleati, quindi, non c’è alternativa se non garantire – whatever it takes – la vittoria dell’Ucraina contro l’invasore russo.

Mario Draghi parla poco, ma quando parla è ad un tempo sintetico e chiaro.

Se fossimo in vena di battute, dovremmo dire che parla poco e quando parla dice “whatever it takes”…. ma non è né il momento né l’argomento per fare gli spiritosi.

Si può forse discutere sul “passo premeditato di Putin” ma non sui valori fondanti dell’Unione Europea e sugli effetti e i segnali di un “successo” della Russia.

Il discrimine, evidentemente, non è qui.

2. Moro

Ascoltando Draghi mi sono venuti in mente i giorni del rapimento di Aldo Moro. Chi c’era – giovane o meno giovane – non può certo esserseli dimenticati.

Si poteva scendere a compromessi con le Brigate Rosse?

La linea della fermezza sosteneva che sarebbe stato un modo indebito di dare dignità di interlocutore, allo stesso livello dello Stato italiano, a un gruppo di terroristi assassini.

All’opposto, la linea della trattativa metteva in primo piano la salvezza di una vita, per di più una vita che chiedeva di vivere e non di morire.

Ci furono, all’epoca, impietosi raffronti con le lettere scritte, negli anni ’40, dai condannati a morte della resistenza italiana: “se non ho saputo vivere, so morire. Sono sereno perché innocente. Vai a testa alta, mamma, e dì pure che il tuo bambino non ha tremato”. “Non mi rincresce quanto succede: è quanto ho rischiato e mi è andata male. Io spero che tempi migliori giungeranno…”. “Muoio contento e senza peccato”.

L’uccisione brutale di Aldo Moro, il 9 maggio del 1978, dopo quasi 2 mesi di prigionia, uccise anche ogni residua tolleranza verso le BR; sembrò un loro atto di “geometrica potenza” ma in realtà ne rivelò l’intima debolezza e segnò l’inizio della loro fine.

Difficile dire cosa sarebbe successo se lo Stato fosse “sceso a compromessi” e Aldo Moro fosse stato rilasciato, alla sua famiglia e ai suoi cari, ma non certo al suo partito, la DC, simbolo vivente di contraddizione.

In questo caso siamo davanti a uno Stato, l’Ucraina, che dice, per bocca del suo presidente, quello che dicevano i partigiani condannati: non ci importa di morire poiché stiamo combattendo per la nostra e la vostra libertà.

Ma ci può essere una rappresentanza anche sulla questione estrema della vita e della morte? Può uno decidere per tutti? O non spetterebbe a ciascuno poter dare la sua risposta?

Una cosa, infatti, è dire, come dicevano i partigiani, “sono pronto a farmi uccidere per la libertà”; altra cosa è dire “sono pronto a far uccidere altri, innocenti come i bambini, per difendere la libertà”.

3. Dostoevskij

Fëdor Dostoevskij fa dire a Ivan Karamazov: “Immagina di essere tu a edificare il destino umano con lo scopo di rendere felici gli uomini, di concedere loro, alla fine, pace e serenità. E che per far questo sia necessario e inevitabile fare soffrire anche una sola creaturina, quella bimba, per esempio, che si batteva il petto con il piccolo pugno, e sulle sue lacrime invendicate erigere quell’edificio. Ebbene acconsentiresti a esserne l’artefice a queste condizioni? E potresti ammettere l’idea che gli uomini per i quali tu lo costruisci acconsentano dal canto loro ad accettare una felicità fondata sul sangue innocente di un piccolo martire, e una volta accettata, a essere felici in eterno?”.

Il fratello di Ivan, Alëša, gli risponde senza tentennamenti: “No, non potrei ammetterlo”. Ma è solo la sua risposta.

Forse il discrimine, un difficile discrimine, è proprio qui: chiedere il sacrificio, anche non consenziente, di vite innocenti in nome di valori “non negoziabili”, whatever it takes.

Il pacifismo di molti cattolici, il pacifismo non strumentale dei “puri di cuore” come Alëša, non crede che ci sia qualcosa che valga più della stessa vita. Finché c’è vita c’è speranza, e la speranza è pur sempre la seconda virtù che ci lega a Dio. I martiri cristiani, descritti nelle vite dei santi, morivano per la fede in Dio non per le libertà civili o per la patria.

È più facile per i laici, soprattutto in linea di principio, mettere in subordine la vita rispetto ai “valore esistenziali” elencati da Draghi: pace, libertà, sovranità democratica. Per i valori di questa “fede laica” si può, anzi si deve – se è il caso – persino morire.

Questo è il dilemma di fondo a cui Mario Draghi, da uomo e pensatore laico, ha dato la sua netta risposta. Questo è il dilemma a cui il mondo è stato messo, ancora una volta e brutalmente, davanti. Questo è lo scempio contro cui ha gridato, quasi da solo, Papa Francesco.

Il fatto che Vladimir Putin porti le maggiori responsabilità di quanto è avvenuto non sposta di molto i termini del problema.

Quanto durerà la distruzione di migliaia di vite semplici e umili, che non erano nate per il martirio nel nome dei nostri valori? Quali libertà esporteremo nell’obitorio?

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