Geopolitica

Algeria, il colosso con i piedi di argilla

3 Giugno 2015

I dati, a volte, sanno essere spietati. Leggete questo: il petrolio rappresenta il 95 percento dell’export del Paese; i proventi della vendita sono crollati del 50 percento a causa della recessione del prezzo degli idrocarburi. Questo dato rende lo scenario da incubo che vive l’economia dell’Algeria.

Il gigante del Maghreb ha l’affanno. Economico, prima di tutto, e di conseguenza politico. Le ultime elezioni, nel 2014, hanno confermato per un quarto mandato il presidente Abdelaziz Bouteflika. Una scena basta a rendere l’idea delle difficoltà di salute di Boutef, come lo chiamano in Algeria. Al seggio, il presidente si presenta in carrozzina, affiancato dal nipotino, con lo sguardo smarrito. Dopo non aver fatto praticamente campagna elettorale, apparendo in pubblico un paio di volte negli ultimi due anni, dopo l’attacco ischemico del 2013, per il quale è stato curato a Parigi.

 

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La sensazione che un mondo intero si muova sottotraccia per preparare la successione di Boutef è più di un’intuizione. L’attuale presidente è l’ultimo della generazione della lotta per l’indipendenza contro la Francia: una gerontocrazia militare, un club della politica, una cabina di regia dell’economia che ha guidato il Paese per decenni, compresa la parentesi drammatica della guerra civile degli anni Novanta.

Perché l’unica volta che si erano tenute libere elezioni in Algeria non le aveva vinte il sistema di potere RND – FLN, ma gli islamisti. I militari rigettarono l’esito delle urne, dal blocco islamista si staccarono i radicali. Nel conflitto persero la vita più di 150mila persone. Boutef è l’uomo che, in qualche modo, dopo la sua elezione nel 1999, ha ‘pacificato’ il Paese, ma senza concessioni alla democrazia. Forte di un carisma personale notevole, sostenuto dalle prebende di Stato che il prezzo del petrolio rendeva possibili, ha tentato una pacificazione nazionale che ha lasciato irrisolti i problemi sociali dell’Algeria.

Ora, però, il cambio della guardia è sempre più vicino e le casse sono vuote. Inoltre i confini con la Libia e il Mali sono bollenti e difficili da controllare.

Cosa accadrà? Un primo scenario è sembrato delinearsi a marzo, quando il quotidiano El Watan (vicino al governo) ha pubblicato un articolo nel quale parlava di indiscrezioni concrete rispetto alla possibilità che Alì Haddad, 50enne businessman molto vicino a Boutef, del quale ha finanziato la campagna elettorale, sia determinato a fondare il partito El Kakhr (L’orgoglio). Potrebbe essere la mossa del Gattopardo della leadership economico – militare che governa da sempre l’Algeria: dare un’immagine di rinnovamento e democrazia, un uomo e un partito nuovo, ma che in realtà è espressione dei circoli che tengono Algeri in pugno.

Alì Haddad
Alì Haddad

Per capirci, Haddad guida l’ETRHB Haddad Group, che ha vinto dagli anni Ottanta a oggi appalti governativi lucrosi. Progetti idrogeologici, strade, mercato immobiliare e contratti faraonici con la Sonatrach, la cassaforte nazionale del petrolio algerino. Oltre a media, ferrovie, turismo e calcio. E’ l’oligarca per eccellenza. Questa soluzione piacerebbe anche ai mercati.

Cosa potrebbe andare storto? Alcune variabili esistono. La prima è che l’establishment, allineato e coperto dietro Boutef in questi anni, non accetti di essere scavalcato dal rampante ‘Berlusconi d’Algeria’, come è stato definito Haddad dalla (debole) opposizione laica e di sinistra. Un nome forte era quello di Mohammed Mediene, detto ‘Toufik’, eminenza grigia della polizia politica, il dipartimento dei servizi segreti e della sicurezza (Drs). Alla fine dell’estate scorsa, come un fulmine a ciel sereno, Toufik è stato ridimensionato, mentre venivano silurati ministri di Difesa, Interni, Giustizia e Affari Esteri, ritenuti vicini al potente capo dell’intelligence.

Era accaduto che un manager della Saipem, del gruppo Eni, confessa di aver versato una tangente di quasi 200 milioni di euro a intermediari algerini per ottenere contratti da 11 miliardi di euro. Lo scandalo, dal governo algerino, alle porte delle elezioni presidenziali del 2014, viene interpretato come un tentativo di Toufik di dare una spallata a Boutef. A fare ‘giustizia’ pare sia stato Said, il fratello di Boutef. Per ora la situazione pare sotto controllo, ma non è da escludere che all’interno del ‘sistema’ si possano creare delle crepe.

Che si potrebbero nutrire della frustrazione di molti algerini. Su 38 milioni di abitanti, il 57 percento dei quali ha meno di 30 anni, sono un milione e 200mila i disoccupati. Questi sono i dati ufficiali, ma quelli reali son molto più dolorosi. Basti pensare che in Algeria almeno l’83 percento delle donne dichiara di non cercare un lavoro. Non fa statistica neanche il milione e 200mila studenti. Insomma, pe capire, su 38 milioni di algerini sono solo poco meno di 11 milioni quelli che hanno un lavoro. La liquidità garantita per anni dal petrolio permetteva di compensare con sussidi e prebende, ma ora la situazione è molto dura.

Lo dimostrano le proteste di Salah, cittadina nel cuore dell’Algeria, vicina al bacino di Ahnet, dove le francesi Total e Schlumberger, con la statunitense Hulliburton, lavorano all’esplorazione dei siti del gas di scisto, con la tecnica della fratturazione idraulica (fraking). La comunità locale è insorta, con violenti scontri tra polizia e dimostranti. Una scena forte in un Paese dove un ministro si vantava di “aver sbattuto la porta in faccia alle Primavere Arabe”, omettendo di dire che solo la memoria fresca e dolorosa della guerra civile teneva le persone lontane dalle piazze, pur ottenendo la sospensione dello stato di emergenza che durava dagli anni Novanta.

Quello di Saleh è un movimento interessante: per la prima volta la comunità reagisce allo sfruttamento di un territorio, che produce ricchezze che finiscono nelle tasche dei circoli di potere e delle grandi aziende straniere. Nel 2015 e proteste si sono allargate a Tamanrasset, Warqla, Adrar, arrivando nella capitale.

Un’altra variabile è costituita dagli islamisti. Attorno all’Algeria, come detto, la situazione è molto instabile. Per anni, Algeri ha sostenuto la via negoziale, rifiutandosi di benedire azioni militari straniere. Ma la pressione della filiale locale di al-Qaeda (l’Aqmi) e di gruppi che subiscono o potrebbero subire il fascino del brand dell’ISIS (come Jund al-Khalifa, responsabile del rapimento della guida francese Hervé Pierre Gourdel) non vanno sottovalutati.

E l’Islam politico? Boutef ha capito presto che era meglio includere che combattere. Un esempio: il 3 maggio scorso, il premier algerino Abdelmalek Sellal ha deliberato di congelare la circolare con la quale il ministro del Commercio, Amara Benyounés, liberalizzava la vendita di bevande alcoliche.

La circolare, sin dalla sua emissione, era stata fortemente contestata dagli islamisti che, per protesta, erano scesi nelle strade chiedendone la revoca. La sospensione è una di quelle misure che l’Algeria, pur rivendicando la sua laicità, prende per gestire l’azione di lobbing portata avanti dagli islamisti, ascoltati anche dal governo.

Dopo i fantasmi degli anni Novanta, quella grande parte della società algerina che si rivede nell’Islam politico, quindi ben diverso dai radicali, accetterà ancora di accontentarsi solo di un’opera di pressione sul governo? In passato la loro discesa in campo ha generato l’intervento dei militari e in questo senso i fatti egiziani non lasciano grandi speranze agli islamisti per partecipare alla vita politica in Algeria. Ma la fine dell’era Boutef può aprire scenari imprevisti.

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