Geopolitica
Algeria, caos elezioni e rischio di una nuova Siria
Con oltre 42 milioni di abitanti, l’Algeria è il secondo paese più popoloso del Nordafrica dopo l’Egitto. Ha le terze maggiori riserve di petrolio d’Africa (stime del Dipartimento dell’energia statunitense) e le undicesime di gas al mondo. Negli anni ’90 è stata teatro di una sanguinosa guerra civile, con decine di migliaia di morti. Oggi c’è chi teme che il colosso algerino stia per precipitare in una nuova stagione di caos e instabilità. Se l’Algeria collassasse, potrebbe scatenare uno tsunami geopolitico in grado di devastare tutto il Nordafrica, trasformandosi in nuova Siria nel Mediterraneo occidentale.
Il problema è Abdelaziz Bouteflika, il presidente ottantaduenne in carica da vent’anni. Bouteflika è riuscito con la sua presenza (e da qualche anno, anche con la sua assenza) a garantire una certa stabilità al paese, non toccato dagli sconvolgimenti della Primavera araba. Da settimane però, le piazze algerine tuonano. All’annuncio dell’ennesima ricandidatura di Bouteflika, la quinta per mandato presidenziale, l’Algeria è esplosa: centinaia di migliaia di manifestanti sono scesi in piazza al grido di “No al quinto mandato”, “20 anni, ora basta” e “Dégage”, vattene.
Bouteflika non è solo il simbolo di un sistema corrotto e degenerato. «Rappresenta anche la mancanza di una prospettiva di futuro – spiega Silvia Colombo, responsabile di ricerca dell’area Mediterraneo e Medio Oriente dell’Istituto Affari Internazionali –. Il ricordo della guerra civile è meno presente fra le persone che animano le proteste di questi giorni, perché sono molto giovani. Il 60% della popolazione algerina non ha vissuto in prima persona, se non indirettamente, gli anni della guerra civile».
L’ondata di proteste e manifestazioni è senza precedenti negli ultimi vent’anni. È un moto che fino a ieri sera aveva fatto sperare molti. C’era chi pensava che il presidente avrebbe ritirato la candidatura. Alcuni avevano ipotizzato che ci sarebbe stato un rinvio delle elezioni previste per il 18 aprile. Altri pensavano che l’entourage del presidente avrebbe annunciato un nuovo candidato, un sostituto di Bouteflika.
Poi, com’è spesso accaduto nell’Algeria moderna, è arrivata la doccia fredda. Nella serata di ieri, ultimo giorno utile perché i candidati formalizzassero la propria candidatura, il presidente Bouteflika ha consegnato i documenti necessari alla sua. Per mezzo di qualcun altro però (e del resto gira voce che il presidente non faccia ormai più niente, delegando tutto al suo cerchio magico).
Bouteflika è infatti ricoverato in Svizzera da una settimana, e a formalizzare la sua candidatura è stato il nuovo direttore della sua campagna, Abdelghani Zaalane. La precarietà della salute del presidente algerino, colpito da un ictus nel 2013 e comparso in pubblico solo in pochissime occasioni da allora, è nota a tutti da molto prima di quest’ultimo ricovero. Ma le sue reali condizioni di salute sono conosciute solo da un pugno di uomini, il che da anni suscita le dicerie più disparate (inclusa quella secondo cui l’ottantaduenne sarebbe già morto). La versione ritenuta più verosimile è che sia Said Bouteflika, il fratello del presidente, a guidare de facto il paese.
In ogni caso, l’anziano presidente non ha accolto la richiesta della piazza, ma ha fatto una promessa. In un comunicato trasmesso dall’emittente televisiva nazionale, si è impegnato a «organizzare una conferenza nazionale inclusiva e indipendente, aperta a tutti. La quale stabilirà la data per delle nuove elezioni presidenziali [prima dello scadere del suo quinto mandato] alle quali promette di non candidarsi».
Le reazioni, per strada, non si sono fatte attendere. Pochi minuti dopo l’annuncio c’erano già dei sit-in e delle manifestazioni improvvisate nella capitale (dov’è stato subito dispiegato un gran numero di agenti in tenuta anti-sommossa), e in altre città del paese. La prossima giornata di mobilitazione generale è stata fissata per questo venerdì.
Sul quotidiano filo-governativo El Moujahid, oggi, si legge che l’unica ambizione di Bouteflika è «assicurare una successione riuscita e pacifica, e di vedere l’Algeria avanzare verso una maggiore democrazia e un maggiore progresso”» El Watan, uno dei maggiori quotidiani del paese, apre con l’eloquente titolo “Bouteflika sfida gli algerini”, e una vignetta che ritrae il presidente in sedia a rotelle trincerato dietro la polizia con un fumetto: “che vengano a prendermi”. Il sito di informazione TSA-Algerie si chiede “se si tratti di un errore di valutazione o di una scelta deliberata per l’avventura”.
Difficile prevedere quale sarà la reazione della gente e cosa succederà nelle prossime settimane. Anche perché le contestazioni non sono soltanto contro Bouteflika, ma riguardano l’intero sistema. Il cosiddetto pouvoir, che va ben oltre la figura del presidente. «I manifestanti protestano contro quello che ritengono un paese bloccato – nota Colombo – in cui le élite litigano fra loro ma non rispondono ai veri bisogni della popolazione».
Come scriveva ieri il giornalista Hacen Ouali su El Watan, «tutta l’Algeria è sospesa nell’attesa di una risposta all’altezza dell’ambizione di un cambiamento radicale del sistema politico». Ma non è facile immaginare un cambiamento radicale per un sistema politico come quello algerino. Un sistema intricatissimo di élite e giochi di potere senza esclusione di colpi, che ha come protagonisti il clan del presidente, gli uomini d’affari più potenti dell’Algeria, i servizi di sicurezza, e l’esercito.
Un sistema estremamente opaco e corrotto: nella classifica di Transparency International l’Algeria occupa la posizione 105 su 180 paesi. E gli anni dell’ultimo mandato di Bouteflika hanno visto delle vere e proprie epurazioni tra le gerarchie militari (opera, secondo molti osservatori, proprio di Said Bouteflika), e l’inasprirsi del conflitto di lunga data fra l’entourage presidenziale e l’esercito. Nel settembre del 2015 Bouteflika è riuscito a liberarsi di uno dei suoi nemici più pericolosi, il generale Mediène, anche noto come Toufik, che da venticinque anni guidava i potentissimi servizi segreti algerini.
Nell’economia i risultati sono stati ben diversi. Il paese è un esempio da manuale di rentier state. Dipende quasi totalmente dal settore degli idrocarburi (che rappresentano circa il 93% del suo export), ma il calo dei prezzi del petrolio successivo alla Grande crisi finanziaria ha colpito duramente le casse di Algeri. Solo nella prima metà dell’anno scorso le riserve di valuta straniera sono diminuite di 8,7 miliardi di dollari, e questo nonostante un rialzo globale dei prezzi degli idrocarburi. Nel 2016 le riserve di valuta ammontavano a oltre 114 miliardi.
«Nel breve termine l’economia potrebbe migliorare significativamente solo con un grosso aumento dei prezzi del petrolio, ma non credo che avverrà», dice James Cockayne, direttore di Middle East Economic Survey (MEES), una delle principali pubblicazioni specializzate. Neanche il gas, di cui il sottosuolo algerino è ricchissimo, è redditizio come una volta. I gasdotti algerini vanno verso la Spagna e l’Italia e «in questo momento il mercato europeo è molto competitivo per il gas, e credo che rimarrà tale per i prossimi 5-10 anni. Questo non è certo positivo per l’export algerino», osserva Cockayne.
Soprattutto perché le entrate del settore degli idrocarburi sono sempre state un pilastro per il mantenimento della stabilità. L’establishment algerino sa bene quanto sia necessario diversificare l’economia e ridurre la dipendenza da gas e petrolio. Ma finora niente è stato fatto, neanche per incentivare gli investimenti stranieri. «È un paese estremamente burocratico – continua Cockayne – e ci sarebbe una grande necessità di incentivare l’imprenditoria in generale».
Finora le manifestazioni e le proteste sono state pacifiche, con episodi isolati di schermaglie con la polizia. Proprio durante uno di questi episodi, venerdì, è rimasto ucciso Hocine Benkhedda, figlio dell’emblematica figura della guerra d’indipendenza algerina Benyoucef Benkhedda. Dalle colonne di El Watan, ieri, Tayeb Belghiche criticava il primo ministro Ahmed Ouyahia, che qualche giorno fa aveva avvertito sui pericoli delle manifestazioni, ricordando che “in Siria è cominciata così”. «La situazione potrebbe sfuggire di mano in qualsiasi momento – osserva Colombo –. Potrebbero esserci delle infiltrazioni o delle provocazioni capaci di scatenare delle violenze. L’Algeria resterà comunque in una fase di instabilità legata a queste manifestazioni, che potrebbero continuare per parecchio tempo. Anche perché gli algerini scesi in piazza, ora, hanno capito di avere un potere».
Immagine in copertina: Pixabay
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