Geopolitica
A fianco di Hamas, ma con giudizio: l’Iran e i suoi proxy nella guerra di Gaza
Ad oltre un mese di distanza dal clamoroso ed efferato attacco portato da Hamas a Israele lo scorso 7 ottobre, il Medio Oriente continua ad osservare, col fiato sospeso, le operazioni belliche in corso nella Striscia di Gaza. Le Forze di Difesa Israeliane (IDF), come da piani elaborati a Tel Aviv, stanno stringendo in una morsa all’interno di Gaza City decine di migliaia di militanti dell’organizzazione armata palestinese, e hanno iniziato a dare l’assalto alle sue ultime roccaforti nascoste tra i numerosi edifici civili, a prezzo, per il momento, di alcune decine di vittime tra i propri soldati e di già diverse migliaia di morti tra la popolazione locale. La guerra di Gaza, tuttavia, non si sta combattendo solo nei circa 360 km² della sottile striscia di terra affacciata sul Mediterraneo tra l’esercito israeliano e Hamas, ma vede diversi protagonisti, già impegnati su altri fronti a colpire lo stato ebraico, e pronti, se necessario, ad innalzare l’intensità dello scontro, fino a provocare, nello scenario ipotetico peggiore, un vero e proprio conflitto regionale. L’Asse della Resistenza, come è denominata l’alleanza tra Iran e le varie milizie e attori non statuali suoi satelliti, sta dimostrando fin dal primo giorno di questa guerra di essere pienamente parte della contesa, e l’estensione del coinvolgimento delle sue organizzazioni armate, a cominciare dal temuto Hezbollah libanese, è la principale fonte di preoccupazione per Israele, i suoi alleati occidentali e l’intera regione mediorientale. La milizia sciita stanziata nel sud del Libano dispone infatti di una potenza di fuoco notevole, quantificabile in diverse decine di migliaia di missili a medio e lungo raggio, oltre ad ancor più numerosi razzi a breve gittata, e di un organico di uomini in armi potenzialmente in grado di arrivare alle duecento mila unità, secondo quanto credibilmente affermato dall’organizzazione stessa, pronti al combattimento e forgiati da anni di training nella guerra civile siriana. Un arsenale ben superiore a quello a disposizione di Hamas, perfettamente in grado di minacciare il confine nord dello stato ebraico nel momento in cui questo è pesantemente impegnato a sud. Scenario da incubo, da evitare assolutamente, per Netanyahu e il suo gabinetto di guerra, nonostante le rassicurazioni giunte da parte americana, dal Presidente Biden in persona, riguardo al sostegno in caso di allargamento del conflitto, concretamente materializzatesi con il dispiegamento nella regione delle portaerei Eisenhower e Ford, quest’ultima non lontana dalle coste del Libano.
Fin dalle ore immediatamente successive al 7 ottobre, Hezbollah ha impegnato l’esercito israeliano con infiltrazioni lungo il confine e con lanci di razzi verso postazioni e centri abitati israeliani situati nel nord del paese, provocando pronte e proporzionali reazioni da parte delle forze di Gerusalemme. La milizia libanese e l’IDF, da allora hanno messo in scena un sottile “gioco” di azioni e controreazioni, sempre tenendo sotto controllo il livello dello scontro, fino ad oggi mai degenerato in guerra aperta. Come ben spiega Lorenzo Trombetta su Limes, Hezbollah ha inizialmente portato gli attacchi solo nelle zone contese tra i due paesi (Israele e Libano non hanno un confine reciprocamente riconosciuto, né hanno mai firmato un trattato di pace), per poi estenderli all’intero arco del confine e, solo alla fine di ottobre e poi durante il mese di novembre, ha tentato alcuni lanci più in profondità, in direzione di Haifa e Acri, e aumentato gradualmente la frequenza degli attacchi. L’esercito israeliano, puntualmente, risponde con bombardamenti mirati tramite droni, e in casi limitati con l’aeronautica, con cui distrugge le postazioni di lancio ed elimina le cellule di militanti responsabili delle azioni, giungendo a colpire nelle ultime due settimane anche taluni obiettivi nell’entroterra del sud del Libano. Il numero di vittime è stato fino ad ora limitato da parte israeliana e invece più consistente nelle file di Hezbollah, nell’ordine di diverse decine, i cui “martiri” possono così testimoniare l’impegno del “Partito di Dio” nella jihad contro Israele. Come affermato dal suo autorevole leader, Hassan Nasrallah, nel discorso del 3 e poi nuovamente in quello del 11 novembre, Hezbollah è già in guerra con Israele. Tuttavia, il capo libanese ha tenuto a sottolineare la titolarità e la conseguente responsabilità di Hamas, riguardo ai fatti del 7 ottobre, alla quale offre elogi, baldanzosa retorica verbale e un sostegno militare che, nei fatti, non può essere certo negato, ma rimane per il momento fortemente circoscritto. La guerra aperta contro Israele, semplicemente, non è nell’interesse di Hezbollah e del Libano, allo stato attuale, e Nasrallah lo sa bene, consapevole della notevole superiorità tecnologica di Tsahal, della ribadita volontà del governo di Gerusalemme di usare in modo deciso la forza militare, se necessario, e soprattutto delle pessime condizioni socioeconomiche in cui si trova il suo paese. Hezbollah, lungi dall’essere un soggetto solo militare, gode infatti del sostegno del territorio che amministra, nel sud del Libano, e della relativa popolazione, oltre ad essere parte del complesso equilibrio di potere che regge lo Stato dei Cedri, per cui difficilmente può permettersi di trascinare il suo popolo in una guerra potenzialmente distruttiva contro Israele. Un tal conflitto potrebbe infatti essere peggio nel 2006, mentre il paese è completamente allo sbando, in preda alla dollarizzazione e all’iperinflazione, in quella che sarà ricordata come la peggior crisi economica della sua storia dai tempi della fine della guerra civile. Lo scontro aperto sul fronte nord mentre infuriano i combattimenti a Gaza non è nell’interesse neanche di Israele, come già detto, e l’arsenale di Hezbollah è ben presente nelle preoccupazioni dei piani alti della Difesa a Tel Aviv. Nel gabinetto di guerra israeliano non si può peraltro dimenticare l’eventualità di un ipotetico fronte siriano, anch’esso di fatto sotto il controllo degli uomini di Nasrallah e delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC) di Teheran, e la consapevolezza della funzione di collegamento svolta da Damasco è ben resa evidente dai frequenti bombardamenti operati dai jet con la Stella di Davide sugli aeroporti della capitale e di Aleppo, finalizzati a impedire i rifornimenti di materiale bellico ai guerriglieri libanesi. La deterrenza è dunque reciproca sulla “linea blu” (la linea effettiva di demarcazione tra Israele e Libano), e, nonostante i bellicosi proclami diffusi da ambo le parti, fino ad ora è riuscita a mantenere sotto il livello di guardia una situazione che, contrariamente, potrebbe far sfociare il conflitto di Gaza in guerra regionale.
L’esistenza di un coordinamento tra Hamas, Hezbollah e altre milizie armate della regione, sotto la forte influenza e con il sostegno dell’Iran, è una chiara realtà del Medio Oriente degli ultimi anni, sulla quale è invece oggetto di discussione la gradazione di tali legami. In particolare, i rapporti dell’organizzazione palestinese che controlla Gaza, di matrice sunnita, con il network sciita guidato da Teheran, sono tornati a essere buoni a partire dalle fasi finali della guerra civile siriana, verso la fine del decennio scorso, nella quale Hamas, emanazione dei Fratelli Musulmani, si era trovata sul fronte opposto. Certamente la milizia palestinese ottiene fondi e armi dallo stato persiano, in gran parte attraverso la rotta clandestina passante per lo Yemen, controllato nella parte settentrionale dalle milizie Houthi, anch’esse incluse nell’Asse della Resistenza, e riceve da esso “formazione” e consulenza militare e di intelligence. Nonostante un tale ingente sostegno, che si aggiunge a quello finanziario proveniente dal Qatar, è difficile sostenere l’esistenza di un controllo di tipo gerarchico, tra il regime di Teheran e Hamas, e conseguentemente risulta complicato venire a conoscenza di un eventuale coinvolgimento dei Pasdaran persiani riguardo la progettazione del massacro del 7 ottobre. Nel dubbio, e di fronte alle ripetute negazioni di responsabilità provenute dai più alti livelli sia del regime iraniano (Khamenei) che di Hezbollah (Nasrallah), gli stessi governi israeliano e americano hanno convenuto di non considerare tali soggetti corresponsabili, il che avrebbe comportato inevitabilmente gravi conseguenze. Tuttavia, il livello del sostegno ad Hamas è alto anche da parte della stessa milizia libanese, che permette agli alleati palestinesi di operare e colpire Israele dal suo territorio, come era già avvenuto pure lo scorso aprile. Ben più integrata nel “cartello” sciita è invece la Jihad Islamica, pur essa stessa di derivazione sunnita, la quale, più piccola e senza lo status e l’indipendenza di azione di Hamas, risulta essere effettivamente in un rapporto di maggior subordinazione verso il regime degli ayatollah. Senza dubbio ha fatto percorrere brividi a molti la pubblicazione della foto ritraente i massimi leader delle due organizzazioni palestinesi, non sempre in pace tra loro, con Nasrallah, a Beirut, tutti sotto i grandi ritratti di Khamenei e dell’immancabile ayatollah Khomeini, pochi giorni dopo l’inizio delle ostilità a Gaza. Al gran ballo delle milizie considerate “proxy” di Teheran non potevano certo mancare neanche gli Houthi yemeniti (altro gruppo il cui grado di solidità del rapporto con l’Iran è da verificare), di cui già si è detto poc’anzi, né i gruppi armati presenti in Iraq, anch’essi impegnati rispettivamente nel lancio di veri e propri missili a lunga gittata verso il sud di Israele attraverso il Mar Rosso e in attacchi alle basi americane situate nell’ampio deserto tra Siria e Iraq. A queste ultime azioni sono peraltro corrisposte immediate rappresaglie di Washington, finalizzate a colpirne e distruggerne gli autori. E’ pertanto evidente come il Medio Oriente si trovi al centro di uno scenario di altissima tensione, che potrebbe pericolosamente deflagrare in qualcosa di ancor più sanguinoso di quanto osservato in queste settimane. Un’evoluzione pur indesiderabile da tutti gli attori coinvolti, ed evitabile, a condizione di saper moderare le proprie azioni e dosare attentamente l’uso della forza militare.
Non è difficile comprendere come il ruolo dell’Iran sia determinante nell’evoluzione della crisi avviata da Hamas e nelle stesse dinamiche geopolitiche dell’intera regione, data la forte influenza sui vari attori in campo ostili allo stato ebraico. Risulta quindi fondamentale individuare quali siano gli obiettivi tattici e strategici di Teheran, alla luce dei mutamenti del quadro generale in corso. Il regime degli ayatollah si trova al centro di varie linee di faglia geopolitiche, tra i difficili negoziati con gli Usa sulla questione nucleare e il tentativo di riavvicinamento in corso con il fronte sunnita conservatore guidato dall’Arabia Saudita, sotto l’inedita supervisione cinese. All’interno dei confini la Repubblica Islamica si è poi trovata alle prese nell’ultimo anno con le continue manifestazioni di protesta a seguito della morte di Mahsa Amini, stroncate nel sangue dal pervasivo apparato repressivo dei Guardiani della Rivoluzione. Tali tensioni si sono aggiunte ad una crisi economica apparentemente senza fine, dovuta alle sanzioni economiche occidentali, all’utilizzo di ingenti risorse in costosi impieghi destinati a foraggiare le operazioni militari dei numerosi clienti in giro per il Medio Oriente, e ad un sistema caratterizzato da un alto livello di corruzione endemica. In un così difficile contesto i margini di manovra per lo stato persiano nel teatro bellico sembrano essere limitati alle invettive verso Israele, allo sfoggio di imponente retorica a fini di propaganda e naturalmente alla costante fornitura di fondi e armamenti ai propri clienti locali. Teheran può certamente beneficiare dei positivi effetti di immagine generati dal duro colpo subito dagli Israeliani ad opera di Hamas e dalla dura condanna da essi subita da parte di governi e popolazioni del mondo arabo, e non solo, in conseguenza della pesante azione militare a Gaza. In particolare, per il momento il più alto dividendo dell’attacco è giunto in Iran sotto forma della (provvisoria?) interruzione dei negoziati tra Riyadh e Gerusalemme nell’ambito dei cosiddetti Accordi di Abramo, che avrebbero dovuto portare in breve tempo al riconoscimento diplomatico di Israele da parte della monarchia saudita, custode dei luoghi santi della Mecca e Medina, oltre che principale potenza regionale del fronte arabo sunnita. I rapporti con i Sauditi, successivamente agli storici accordi dello scorso marzo, sono tornati cordiali, dopo anni di guerra fredda, come plasticamente dimostrato al vertice di Riyadh che ha riunito insieme il 10 e 11 novembre la Lega Araba e l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica, a margine del quale non è mancato un incontro bilaterale tra il presidente Raisi e il principe ereditario Muhammad Bin Salman. Tuttavia, al di là di un documento di scontata condanna di Israele, con tanto di invocazione al Consiglio di Sicurezza dell’ONU (sic!) per l’imposizione di un cessate il fuoco e con annessa richiesta altrettanto velleitaria di embargo sulla fornitura di armamenti allo stato ebraico, gli oltre cinquanta governi convenuti nella capitale saudita non sono andati, e, significativamente, non sono passate le proposte siro-iraniane di rompere le relazioni diplomatiche (chi le ha) e di interrompere il commercio di prodotti petroliferi verso Gerusalemme. Le monarchie arabe moderate, protagoniste della stagione degli Accordi di Abramo, si dimostrano pertanto sensibili alla solidarietà ai palestinesi, ma senza strappi irreversibili nei confronti di Israele, il cui ruolo di partner rimane in alta considerazione nelle capitali del Golfo Persico, anche e soprattutto in funzione anti-persiana, non potendosi fidare fino in fondo del riavvicinamento in corso. Una cristallizzazione della situazione attuale risulterebbe dunque assolutamente gradita allo stato persiano, possibilmente con la sopravvivenza di Hamas e con il mantenimento di uno stato di costante tensione tra il nemico ebraico e i suoi vicini. Rimane però il forte sospetto che l’ipotesi di una guerra aperta spaventi la leadership al potere a Teheran, consapevole dell’inferiorità tecnologico-militare e timorosa che un eventuale ampio conflitto possa determinare il sostanzioso afflusso di forze armate americane nella regione, pericolosamente vicine ai propri confini.
E’ difficile immaginare quali saranno gli esiti a breve e lungo termine di quest’ultima esplosione di violenza, inserita nelle pluridecennali vicende del conflitto arabo-israeliano. Israele, che si voglia accettare o no la definizione di “villa nella giungla”, copyright di Ehud Barak, ex capo di stato maggiore e premier laburista, si deve confrontare fin dalla nascita con le questioni della difesa e della sicurezza delle sue comunità, circondato da paesi e organizzazioni diffidenti o ostili, quando non apertamente nemici. Logica, in una simile situazione, è l’autorappresentazione come nazione in armi, in cui il servizio nelle forze armate, dai coscritti ai riservisti, è asse portante della vita della comunità, pur con le note eccezioni riguardanti gli ultraortodossi (e gli arabi israeliani), e il comando di esse costituisce fonte di legittimazione politica. Altrettanto conseguente è la centralità del concetto di deterrenza militare, imprescindibile al fine di scoraggiare un qualsiasi tentativo di attacco militare contro il proprio territorio, il cui autore è condannato a subire distruzioni in quantità ben maggiori a quelle procurate, come esplicita la definizione di “cane pazzo”, ad opera di Moshe Dayan, anch’egli eroe nazionale prima e politico di sinistra poi, passato dal ruolo di soldato a uomo di pace. Nell’equazione israeliana Gaza non fa eccezione. Hamas, dopo una tale azione, deve necessariamente essere eradicata dalla Striscia, o almeno ridotta all’impotenza, per impedire che eventi simili si possano ripetere, lavare di fronte ai propri cittadini l’onta subita il 7 ottobre, ma anche per ristabilire il fattore strategico sopra ricordato. Nei confronti di chiunque, che sia una milizia libanese, un’organizzazione islamica palestinese o, più ambiziosamente, l’Iran. Non va dimenticato come l’avvicinamento di Teheran alla capacità di costruire l’arma nucleare rappresenti un ulteriore fattore di destabilizzazione, e ponga Israele (e gli USA) di fronte al dilemma di un eventuale complicato intervento militare. Per ora, il principale e più concreto punto interrogativo riguarda l’eventuale degenerazione della violenza lungo il fronte con Hezbollah, sebbene un ipotetico intervento in gran forze da parte della milizia sciita da porre in atto al momento della sconfitta di Hamas a Gaza, come fatto filtrare recentemente da esponenti di quest’ultima, non sembrerebbe particolarmente efficace a fornire sostegno all’alleato palestinese. Dopo quaranta giorni di guerra si osserva invece l’assenza di una sollevazione armata di massa in Cis-Giordania, come invece auspicato e forse sperato dai vertici di Hamas, dove i disordini si sono limitati a manifestazioni e singoli scontri con l’esercito israeliano e i coloni, con vittime e arresti tra i Palestinesi, pur in misura non lieve. In mancanza di essa e in presenza di un’offensiva di Tsahal, vicina ormai a prendere il controllo di Gaza City in tempi inferiori alle previsioni, pare risultare perciò deficitario il bilancio strategico di Hamas, limitato al conseguimento di nuova attenzione mondiale sulla questione palestinese, ottenuto però al prezzo di una probabile cacciata dalla zona nord della Striscia e di un enorme tributo di sangue, soprattutto di civili. In uno scenario militare che sembrerebbe pendere ancora una volta dalla parte di Israele, pende tuttavia l’incombente spada di Damocle costituita dalla gestione futura dell’area, tra le difficoltà politico-diplomatiche del mantenere un regime di occupazione per lungo tempo, la necessità di coinvolgere una screditata Autorità Nazionale Palestinese e la complicata ipotesi di impegno di una forza multinazionale formata da eserciti arabi. Problema che pone forti dubbi sulla strategia israeliana e nodo difficile da sciogliere, senza una chiara prospettiva di accordo complessivo includente la Cis-Giordania e la creazione di uno stato palestinese indipendente. Tra il Mediterraneo e il Giordano si conferma, ancora una volta, come la forza militare e la deterrenza siano presupposti necessari, ma non sufficienti a garantire la sicurezza, quando si hanno di fronte organizzazioni disposte ad accettare il sacrificio dei propri uomini e dei civili, da una parte, e popoli la cui assenza di prospettive accettabili per la propria vita quotidiana trascina alla sfiducia, alla disperazione e al nichilismo, dall’altra. Oltre la guerra, a Gerusalemme urge ritrovare la Politica.
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