Geopolitica

7 Ottobre, un anno dopo, in un mondo che non conosce più le ragioni dell’altro

6 Ottobre 2024

Un anno fa, alla vigilia del 7 Ottobre, Israele e i Territori Occupati di Palestina vivevano il periodo di pace apparente più “stabile” della loro storia recente. Le virgolette ovviamente sono d’obbligo: era una pace fondata sul predominio brutale esercitato dal governo più di destra della storia d’Israele, su territori palestinesi governati in Cisgiordania dalla leadership inefficace e corrotta di Abu Mazen, e a Gaza controllati invece dalle leadership corrotta, fondamentalista ma a suo modo efficace di Hamas. Scomparsa ormai da decenni l’idea politica di un accordo e qualunque volontà che andasse in quella direzione, il governo di Netanyahu, zeppo di estremisti di destra e di fanatici nazional-religiosi convinti che il fondamento per controllare l’intera terra tra il mare e il fiume sia la Bibbia, foraggiava e blandiva il governo estremista di Hamas, convinto che non ci sia posto per gli ebrei tra lo stesso mare e lo stesso fiume. A suon di corruttele e bastonate, Netanyahu, assediato dalle piazze israeliane che protestavano contro la riforma costituzionale, aveva così ottenuto circa due anni di pressoché totale assenza di attacchi da parte di Hamas. Se ne vantava con gli amici, ma soprattutto con gli avversari interni: i tanti che protestavano contro la sua riforma, i pochi che gli ricordavano che un paese ricco di start-up multimilionarie ma povero di prospettive di una pace duratura, e ormai sprovvisto di quel bene minimo che è il rispetto per l’altro, non poteva avere futuro. Lui rispondeva indicando l’orizzonte degli accordi di Abramo, una pace regionale da firmare con i Sauditi e i paesi del Golfo, ignorando la quastione palestinese e mettendo in un angolo, sempre più evidente, l’Iran degli Ayatollah e i suoi minacciosi alleati di Hezbollah, che dal Libano continuava a minacciare con costanza il Nord d’Israele, lanciando razzi ed evocando cataclismi. Non sapremo mai, con esattezza, com’è stato possibile il 7 Ottobre: tutte le forze concentrate sul fronte del Nord, o troppa fiducia nelle garanzie comprate da Hamas, che peraltro trattiamo come fosse una cosa sola mentre era, già allora, una banda composta da bande allo stremo delle forze e al limite dell’umanità? Cos’altro, oltre l’arroganza di pensare che mai da Gaza si sarebbero azzardati a pensare e realizzare l’inimmaginabile, sapendo esattamente che in quel modo sarebbero andati incontro al massacro che con crudele puntualità è stato realizzato, davanti agli occhi indifferenti del mondo?

Sia come sia, è passato un anno, e quel che prevedemmo allora, a botta calda, è successo davvero. Israele ha risposto come da tutti previsto, inclusa sicuramente la leadeship di Hamas, massacrando brutalmente una popolazione già allo stremo. Il conto dei morti dichiarati a Gaza è attorno ai 40 mila, il conto di quelli futuri, correlati alla distruzione e alla crisi sanitaria e umanitaria che segue questa distruzione moltiplica quella cifra per due, o per tre, o per quattro. Chi lo sa. Gli ostaggi israeliani, civili rapiti e portati nei sotterranei di Gaza quel 7 ottobre, quelli che ancora sono la sotto, sono l’ultimo pensiero di Netanyahu. Che, oggi, con lo scalpo di Nasrallah e avendo ridicolizzato le minacce di vecchi sacerdoti islamici incartapecoriti a Teheran, e soprattutto quelle dei loro giovani adepti che seriamente credevano di poter sconfiggere Israele militarmente, può tranquillamente avviarsi verso una vecchiaia ancora al potere. Incredibilmente, dopo il fallimento sanguinoso del 7 ottobre e dopo i crimini di guerra con i quali ha riportato la “tranquillità” attorno a Gaza. E oggi può dire – come spiega molto bene Arturo Cohen, un militante di sinistra in un paese di estrema destra, al Pubblico della Fondazione Feltrinelli – che l’importante è distruggere i nemici che stanno a Nord. “Per gli ostaggi dispiace, ma insomma, siamo in guerra”, interpretando, ma neanche troppo, l’umore del primo ministro e di una parte importante della società israeliana di oggi.

Un anno dopo il massacro del 7 Ottobre, insomma, il Medioriente è un posto peggiore. A quel crimine aberrante, a quel massacro e rapimento di massa, sono seguiti altri crimini, dimensionalmente e quantitativamente più grandi, operati da un esercito regolare, che lasceranno una coda lunga di distruzione e odio ancora più imponente. Nessuno ha avuto la forza di imporre un discorso pubblico globale sulla necessità di una prospettiva diversa a quella rivendicata dal governo Netanyahu e da Hamas e dai suoi alleati, contrapposti perfettamente nella loro specularità: tra il mare e il fiume c’è posto solo per “noi”. Ovviamente, entrambe le tifoserie di quaggiù, non sono d’accordo con me. E così, finalmente, veniamo a noi. In questi giorni si leggono, sempre perfettamente speculari, due versioni nette e senza crepe dei fatti. Da una parte, c’è chi parla solo del 7 Ottobre, dell’orribile crimine di massa che ha colpito giovanni, donne, bambini, e incredibilmente molti pacifisti fieri avversari di Netanyahu. Da questa parte si parla di un pogrom, di un barbaro atto di antisemitismo e disumanità. Cosa che evidentemente è stata, che non si deve dimenticare: non è stata resistenza, non è stata legittima difesa, è stata aggressione a civili inermi. Punto. Da questa parte non si parla in nessun modo delle barbarie di chi ha voluto radere al suolo mezza striscia di Gaza, sterminando intere famiglie, in ragione di una lotta al terrorismo che avrà sicuramente ucciso molti miliziani e distrutto arsenali, ma che certo ha dato nuove ragioni di rancore locale e globale a chi dice che Israele conosce solo la lingua della violenza di Stato, mentre impone anche in Cisgiordania legge marziale e continue nuove colonizzazioni, che niente hanno a che fare con la lotta al terrorismo, anche perché gli atteggiamenti dei coloni ricordano da vicino quelli dei terroristi di ogni latitudine. Dall’altra parte, lasciando da parte chi invece parla davvero di resistenza e legittima azione, che pure c’è, si parla solo di quel che ha fatto Israele da lì in poi a Gaza. Come se il 7 Ottobre non fosse esistito, come se il progetto di sterminio e cancellazione immaginato dal governo iraniano e dai suoi soci non sia pregresso e strumentalmente giocato sulla pelle dei palestinesi. Come se non fosse sostanzialmente indipendente da qualunque atteggiamento o politica messa in atto da Israele.

Sul Manifesto di oggi, il filosofo Mario Ricciardi scrive che un anno dopo si è consolidata la iattura della nostra indifferenza. Sono d’accordo, le nostre società sono indifferenti alla tragedia dell’altro: non da oggi, e non solo per quella dei palestinesi. Tuttavia, personalmente, mi colpisce di più, e mi sembra la principale novità di questi decenni, non l’indifferenza dei molti, ma l’indifferenza che le minoranze attive dedicano al dolore di quelli che non sentono essere “i loro”. Dell’empatia che esiste solo per la causa per la quale si parteggia, e in nome del parteggiare si rimuove ogni complicazione, ogni complessità. A un anno dal 7 Ottobre, questa tendenza, ben più grande della piccola terra della Palestina storica, mi sembra rafforzata. Ne siamo usciti peggiori, non solo loro, laggiù, ma anche noi, quassù. E non era facile.

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