Esteri

E intanto l’Isis avanza: così lo si può combattere, ma solo se l’occidente vuole

6 Novembre 2014

C’è chi, come il Papa,  lo ha definito il terzo conflitto mondiale. Non lo è, ma non è una buona notizia. Quello contro l’Islamic State of Iraq and Syria (ISIS) è uno scontro molto più complesso rispetto alle guerre mondiali a cui abbiamo assistito in passato.

Prima si combattevano Stati sovrani con chiari alleati e nemici, usando tecniche militari regolate dal diritto internazionale dei conflitti armati. Si avevano delle strategie e si voleva vincere. Ora abbiamo una guerra contro un’entità non statale con una nuova ideologia contro cui nessuno Stato sovrano si è ancora mobilitato in maniera effettiva. Si minaccia l’uso di armi chimiche e si sgozzano i prigionieri di guerra di fronte a una telecamera. Non ci sono regole, né schieramenti definiti, si ha a che fare con attori ibridi e con Paesi con posizioni conflittuali e ambigue. Non ci sono strategie e non è chiaro neanche se la comunità internazionale voglia veramente combattere il Califfato Islamico. Non è la terza guerra mondiale, forse non è neanche una guerra.

Gli Stati che inizialmente hanno finanziato l’ISIS sono quelli che ora si preparano a combatterlo: così ha fatto, per esempio, l’Arabia Saudita, Paese da cui sono partiti finanziamenti al Califfato e che ora ha 30mila uomini al confine con l’Iraq per evitare un’espansione dell’ISIS anche nei suoi territori. La Turchia, che appare come una potenziale vittima nel piano dello Stato islamico,  non chiede l’intervento della NATO, non dà la disponibilità delle sue basi militari per combattere l’ISIS  e lascia che attraverso i suoi confini passino armi e uomini del Califfato. L’ambiguità è evidente e la complicità non viene nascosta più di tanto.

Sembra tutto tranne che una guerra mondiale, e questa impressione non è rassicurante. Il presidente americano Obama disse che non aveva una strategia per affrontare l’ISIS, ma ora che il Califfato è arrivato al confine con la Turchia, ossia ai margini dell’Europa, una strategia va trovata. Ve ne sono diverse, cerchiamo di capire se ve ne sia una più convincente delle altre.

 

L’Is spiegato in 14 mappe su Vox

 

Attacco militare via terra

Sembra l’opzione promossa dai più. “Mandiamo l’esercito e distruggiamoli”. Ma la vittoria prettamente militare non è scontata, anzi, sembra alquanto improbabile. La pensa così Mario Abou Zeid, analista del think tank Carnegie Middle East Center a Beirut ed esperto di Islamic State of Iraq and Syria (ISIS). “E’ difficile sconfiggere l’ISIS militarmente perché sono ben armati ed equipaggiati, sono più mobili, hanno più accesso alle comunità locali” spiega Zeid.

L’ISIS può contare su più di 60mila combattenti provenienti da circa 80 Paesi, decine di carri armati, e poi auto blindate con armatura pesante, fucili d’assalto AK-47, lancia razzi e lancia granate, M198 howitzer che possono scagliare una varietà di munizioni, dai missili al fosforo bianco, fino a circa 20 chilometri di distanza. L’elenco è lungo. Sono armi di origini diverse, alcune sottratte all’esercito iracheno, altre ottenute in Siria dove erano arrivate illegalmente per sostenere la lotta dell’opposizione siriana contro il presidente Bashar al-Assad.

Il flusso di armamenti, già consistente, non tende a diminuire dal momento che non si è mai vista un’organizzazione terroristica così bene finanziata, parola di David Cohen, sotto-segretario per il Terrorismo e l’Intelligence finanziaria  al Dipartimento di Stato americano per il Tesoro. “Lo Stato islamico è l’organizzazione terroristica finanziata meglio che abbiamo mai affrontato, ma non abbiamo il proiettile d’argento, un’arma segreta per svuotare le casse dell’ISIS in una notte” ha dichiarato Cohen.

Anche qui sembra mancare una strategia per tagliare i fondi del Califfato che ha già un patrimonio di oltre 2 miliardi di dollari. Vende il petrolio siriano ed iracheno per circa 18 dollari al barile attraverso broker in Iraq, controlla le riserve di grano e sorgenti d’acqua, riscuote la zakat, la tassa religiosa di circa il 10% sui redditi. I sostenitori del Califfato hanno svaligiato la Banca Centrale di Mosul in Iraq, mettendo così in tasca circa 430 milioni di dollari. Sono abbastanza ben finanziati da non aver bisogno di sostenitori o finanziatori e da poter mandare avanti anche da soli il proprio progetto di espansione nel mondo islamico.

Se la comunità internazionale temporeggerà nell’avviare un’operazione via terra nelle zone sotto il controllo dell’ISIS, probabilmente quello che vedremo prima è un attacco del Califfato contro l’Arabia Saudita. “Il loro scopo è diventare un califfato islamico: non possono esserlo finché il potere decisionale islamico rimane nei Paesi sunniti del Golfo” spiega Zeid.

In Arabia Saudita si trovano Mecca e Medina, i due centri più importanti per i musulmani dove in migliaia si dirigono ogni anno per l’Hajj, il pellegrinaggio che rappresenta il quinto pilastro dell’Islam. Questo assicura ai sauditi una posizione di forza nel mondo islamico: posizione che l’ISIS vuole mettere in discussione, accusando l’Arabia Saudita di non applicare correttamente la legge coranica. La minaccia è reale se a luglio di quest’anno il re saudita Abdullah ha schierato l’esercito e ordinato di prendere tutte le misure necessarie per fermare l’avanzata dell’ISIS.  “L’ISIS non ha una forza aerea, quindi mi aspetterei un attacco via terra attraverso per esempio un’autobomba, ma è difficile predire esattamente come” spiega Zeid.

Ciò che invece ritiene prevedibile è la reazione della comunità internazionale. “La comunità internazionale penserà solo a un intervento armato, come sta facendo tutt’ora, e non cercherà una soluzione politica. L’intervento armato non basterà per vincere contro l’ISIS, anzi, lo rafforzerà perché l’ISIS apparirà come la forza che agisce sul territorio per protegge la popolazione locale da un attacco di forze straniere” aggiunge Zeid.

Un intervento da parte dell’Iran, Paese musulmano a maggioranza sciita, sarebbe anche questo deleterio secondo Zeid. “L’Iran sta addestrando gruppi paramilitari da inviare in Iraq per sconfiggere l’ISIS, ma questo porterà solo a un aumento delle tensioni settarie fra sunniti e sciiti, senza indebolire veramente l’ISIS”.


 

Dialogo

Quando si introduce l’opzione del dialogo come soluzione contro l’ISIS, le reazioni sono dalla più pragmatica “Bisogna trovare una soluzione politica” alla più scettica e informale “Ma vacci tu a parlare con quei tagliagole”. In entrambi i casi, la domanda che molti si pongono è “Abbiamo trattato con l’ETA, l’IRA, con i Talebani, perché quindi non dialogare con l’ISIS?” Il problema alla base di questa domanda è che per dialogare o trattare con qualcuno, bisogna prima identificarlo, qualificarlo, capire chi esso sia, attribuirgli diritti e responsabilità. E con l’ISIS è un compito complicato.  “L’avvio di un dialogo o addirittura di un negoziato porrebbe un problema di non facile soluzione sul piano del diritto internazionale. Sarebbe, ad esempio, necessaria un’opera di qualificazione dello status giuridico dell’ISIS, anche al fine di imputare eventuali responsabilità internazionali” spiega  Maria Beatrice Deli, professoressa di International Organizations and Human Rights alla Facoltà di Scienze Politiche dell’università LUISS Guido Carli di Roma.

“Qualora l’ISIS venisse qualificato come entità assimilabile ad uno Stato, all’interno del chess game negoziale, l’ISIS verrebbe ad assumere un ruolo paritetico rispetto agli altri protagonisti del dialogo, presumibilmente Stati dotati di personalità giuridica internazionale e/o organizzazioni internazionali, con evidenti conseguenze sul piano dell’equilibrio dei poteri” aggiunge Deli. Il dialogo è comunque una di quelle strategie con una tempistica precisa. Se si può dialogare, non lo si può far sempre, in ogni momento del conflitto. Ora potrebbe essere troppo tardi per prendere in considerazione questa opzione. La pensa così Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. Il dialogo con l’ISIS è la strategia vincente?

“La risposta a questa domanda sarebbe stata tempestiva se la comunità internazionale si fosse seriamente interrogata nel 2012  quando l’estremismo islamista iniziò a conquistare territori in Siria. Raqqa, nella primavera di quell’anno, era già nelle mani dell’Isil (Islamic State of Ira and the Levant). L’introduzione della sharia, i tribunali sommari per punire comportamenti “anti-islamici” erano regolarmente denunciati dalle organizzazioni per i diritti umani, ma all’epoca era Bashar al-Assad il pericolo maggiore” spiega Noury.

Si temeva Bashar al-Assad e non si pensava neanche di dover trovare un modo per fermare l’avanzata del Califfato. Se è troppo tardi per dialogare, allora si ritorna a considerare la strategia dell’intervento armato. “Non so cosa sia più efficace tra dialogo e intervento armato, anche se non sono pregiudizialmente contrario alla seconda opzione, a patto che si verifichi nell’ambito di un consenso ampio internazionale” spiega Noury, aggiungendo che la scelta si dovrebbe fare basandosi su questa priorità: cosa è più utile fare per proteggere le popolazioni civili?

 

Rafforzare le comunità sunnite

 

Una risposta a quest’ultima domanda potrebbe venire da una terza strategia, considerata unica soluzione al conflitto secondo Zeid: rafforzare le comunità sunnite contro l’ISIS. “L’ISIS ha acquisito popolarità in Iraq dove le comunità sunnite e i loro leader sono stati sradicati. L’unico modo per vincere l’ISIS è reintegrare le comunità sunnite che sono state smantellate in Iraq e in altri Paesi della regione. Bisogna dare a queste comunità potere politico, reinserirli nel governo, arruolarli nell’esercito iracheno” spiega Zeid.

Sembra una strategia condivisibile, ma che forse rimane sospesa su un livello teorico. “L’empowerment delle comunità sunnite è una politica da fare, ma non è sufficiente per sconfiggere l’ISIS” afferma Pejman Abdolmohammadi, professore di Storia e Istituzioni del Medio Oriente nel Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Genova. “C’è bisogno anche di una forza internazionale, non solo degli Stati Uniti, che intervenga sul terreno” aggiunge.

Di fronte all’inerzia della comunità internazionale nella lotta all’ISIS, la domanda che molti si pongono è se vi sia reale interesse nel breve periodo a combattere questa nuova entità. “Il Califfato ha sortito l’effetto di creare un fronte comune mediorientale di sciiti, sunniti, arabi, persiani, curdi allineati di fatto con l’Occidente. Non era mai successo prima” spiega Abdolmohammadi. Qualcuno potrebbe essere interessato a mantenere un nemico comune pur di non perdere questa inaspettata alleanza, tanto ambita e mai ottenuta diversamente. L’urgenza di combattere l’ISIS potrebbe arrivare solo nel momento in cui la guerra si spostasse dal territorio iracheno e siriano a quello occidentale, forse anche attraverso quei 3mila sostenitori dell’ISIS con passaporto europeo. A quel punto una strategia contro il Califfato Islamico verrebbe trovata subito.

 

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