Cina
Una questione di principio: le rivolte ad Hong Kong
La storia di Hong Kong probabilmente la conoscono in molti: colonia inglese da metà ottocento fino alla fatidica data del 1997, quando è ritornata ad essere parte della Cina. Effettivamente il 95% della popolazione di Hong Kong è di etnia cinese ma, pur mantenendo alcune tradizioni e derivazioni cinesi, la cultura è stata immensamente influenzata dall’occidente. Basti pensare al sistema scolastico, forgiato a modello anglosassone. Oppure basti pensare al fatto che Hong Kong è l’unico territorio cinese in cui è possibile ricordare e commemorare gli avvenimenti di piazza Tienanmen e parlare liberamente esprimendo la propria opinione e il proprio dissenso.
Autonomia con giorni contati. Vero è che l’autonomia di cui gode la piccola penisola è a scadenza: nel 2047 infatti, l’accordo siglato al momento della restituzione non avrà più valore, lasciando Hong Kong in dubbio sul suo futuro. Ancor prima di arrivare a quel fatidico momento però, la popolazione di Hong Kong, una delle aree più densamente popolate al mondo, ha già dovuto affrontare diverse prove che hanno messo in discussione la loro libertà. Fin dal 1997 ci sono state proteste e manifestazioni, ma è negli ultimi anni, da quando la Cina ha iniziato a fare più pressioni sul governatore locale, che si sono sviluppate le proteste più forti e dal richiamo internazionale. Ricordiamo ancora nel 2014 Occupy, gli ombrelli gialli, movimento globale pacifico che purtroppo finì con un nulla di fatto, alle attuali rivolte che, scatenate dalla controversa legge sull’estradizione, si fanno sempre più violente e implacabili.
Cos’è cambiato? Sicuramente la consapevolezza dei giovani abitanti di Hong Kong. Si è alzato infatti il numero di votanti raggiungendo il 70% della popolazione e si è instaurata una coscienza politica dovuta la fatto che la data sul futuro di Hong Kong si avvicina e la pressione della terraferma è sempre più percepibile.
Un paese, due sistemi. Così venne chiamato il sistema che avrebbe dovuto regolare Hong Kong dal 1997 al 2047. Ed effettivamente così è stato in questi anni. Cos’è successo dunque per scatenare le proteste? La decisione da parte di Carrie Lam, la governatrice, e l’esecutivo, di votare una legge a favore di Pechino, ovvero l’estradizione. Al momento non è possibile estradare in Cina chi commette un reato, mentre se verrà approvata la legge, sarà possibile effettuare questa mossa per tutti i reati con pene superiori ai sette anni, soggette però a valutazioni caso per caso. Ed è qui che nasce il timore. Infatti, senza fissare dei paletti specifici, la popolazione teme che il governo cinese potrà catturare ed estradare anche dissidenti o persone coinvolte in reati minori non viste di buon occhio dal governo centrale.
La libertà prima di tutto. Dunque ciò che si difende nelle strade di Hong Kong è la libertà, questo principio assoluto per il quale tutti noi siamo pronti a scendere nelle strade. Chi protesta ora ha bisogno di questa libertà, di movimento, di espressione e di comunicazione. Una libertà di esprimere le proprie idee che è sempre stato garantito nella penisola ed ex colonia britannica. La conoscenza, il poter diffondere le proprie opinioni, si fanno sentire ancora di più in questi momenti, e soprattutto grazie alla rete, sia noi sia i giovani che scendono nelle strade possono accedere a milioni di informazioni – a differenza dei loro coetanei cinesi, che non possono godere di un accesso libero ai network. Chi protesta ora difende qualcosa di inalienabile, il diritto di essere liberi nel proprio paese – tenendo conto della giustizia ovviamente – e di esprimere la propria opinione senza ingerenze esterne. Chi protesta protegge qualcosa che negli ultimi anni diventa sempre più tangibile anche in occidente, la possibilità di esprimere la propria opinione, anche attraverso il dissenso.
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