Cina
Tre cose false, due vere e una mezza vera sulla Cina
Sulla Cina potrebbero scriversi decine di libri ed ancora non riuscire a spiegare bene il paese. Senza alcuna remota pretesa di essere completi in questo articolo cerchiamo però di far chiarezza su alcuni luoghi comuni che ci hanno accompagnato negli ultimi tempi. Per chi vuole approfondire esiste una lista lunghissima di titoli che possono essere utili alla comprensione di come funziona la seconda economia mondiale, che governa un quinto dell’umanità ed ha una indissolubile relazione commerciale con l’Europa.
1. I cinesi “sono tutti uguali”
FALSO
Esiste lo stato chiamato Repubblica Popolare Cinese, ma al suo interno esistono delle differenze anche notevoli. Esiste la Cina del Nord-nord Est, esiste quella centro-orientale, quella occidentale e quella meridionale, per non parlare poi di regioni come il Xinjiang, il Tibet o la Mongolia Interna. Anche volendo concentrarsi sugli Han, l’etnia che rappresenta il 90% della popolazione, c’è ovviamente una cultura ed una lingua comuni (il mandarino, poi a casa di solito ognuno parla il suo dialetto) si sente più o meno la stessa musica e si studia la stessa letteratura e storia a scuola, ma i valori di fondo possono essere diversi e così le abitudini. All’interno di queste aree poi esiste un ulteriore differenziazione tra città e campagna, che sono molto più distanti tra loro di quanto avvenga in Italia oggi. La stessa distanza, culturale e in termini di sviluppo e di abitudini, tra città e campagna che è all’origine anche della vicenda di Wuhan. Chiunque generalizzi quindi sbaglia. Un recente sondaggio tra i ceti medi urbani per esempio indicava un sostegno inaspettato ai matrimoni tra persone dello stesso sesso; se lo stesso sondaggio si svolgesse in zone rurali i risultati sarebbero ben diversi. Esistono poi ovviamente i cinesi di Hong Kong e Taiwan, quelli di Singapore e Malesia, per non contare l’enorme diaspora in America, Europa etc, ma non mi sembra si stia parlando di questi in Italia. Comunque generalizzare rispetto ai “cinesi” sarebbe come dire che gli europei da Lisbona a Kiev sono tutti uguali.
2. I cinesi mangiano tutti i tipi di animali
FALSO
Proprio per il motivo spiegato di cui sopra e la diversità di tradizioni ed abitudini alimentari evidenziata dall’esistenza di innumerevoli tipi di “cucina” da Nord a Sud, alcune peculiarità come la carne di cane che tanto ci ripugna si trovano solo in alcune zone del paese (e per inciso anche in Korea, Vietnam e Nigeria). E non si tratta del cane preso per strada o del barboncino del vicino di casa, ma di una specie particolare allevata a quello scopo. Ci ripugna, certo, e ci sono associazioni in Cina che si battono contro questa pratica che probabilmente scomparirà col tempo. Anche il serpente non è un tipo di cibo che troverete comunemente in un ristorante di Pechino, Shanghai o Nanchino. Detto questo, è vero che c’è una passione specie in alcune zone meno sviluppate culturalmente (e tra certe categorie di persone) per il consumo di carne di animali selvatici. Questa abitudine è stata tollerata fin troppo, ma riguarda solo una minima parte della popolazione. Per gran parte della stessa, specie quella delle grandi città, l’idea di mangiare carne di serpente o di cane è rivoltante. I cani sono animali di compagnia frequentissimi in quasi tutto il paese, basta viaggiarci per vederlo. E che si debba puntualizzare una cosa del genere in Italia dimostra quanto poco conosciamo del mondo intorno a noi.
3. I lavoratori in Cina sono trattati come schiavi
FALSO
Di nuovo, stiamo parlando dei cantieri edilizi nelle remote campagne del Sichuan dove non hanno mai sentito parlare di legislazione sul lavoro e dove magari vige una specie di caporalato o invece delle fabbriche di proprietà di imprenditori cinesi o taiwanesi nel Guangdong, Zhejiang o Jiangsu? Queste sono le 3 province più competitive da cui origina l’export maggiore di quei prodotti che usiamo tutti i giorni nelle nostre aziende e nella nostra vita. E sono le tre province dove operano la maggior parte delle aziende italiane. Difficile riassumere tutto in un breve paragrafo, ma basta guardare il livello di salari crescenti, che ha già fatto spostare multinazionali in Vietnam o Bangladesh alla ricerca di costi più bassi, le regole sugli straordinari, sui licenziamenti ingiustificati, sulla maternità, sui licenziamenti collettivi, etc. per concludere che la leggenda dello sfruttamento generalizzato dei lavoratori appartiene al passato, precisamente agli anni ’80 e ’90, cioè gli albori del capitalismo cinese. I dipendenti delle aziende di Stato poi alle cinque vanno a casa, timbrando il cartellino. Certo, non esistono sindacati indipendenti, ma ciò non ha impedito lo sviluppo di una legislazione a tutela della posizione dei lavoratori di un embrione di contrattazione collettiva a livello aziendale. Questo non significa che esistano situazioni al limite, soprattutto nel settore delle costruzioni, ma sono appunto situazioni che non possono essere rappresentative di tutto il paese. Per chi vuole avere informazioni più complete suggerisco di cominciare a leggere questo link del 2018 che viene da un’organizzazione di base ad Hong Kong. Per chi non ha pazienza invece faccio solo un esempio che forse è più calzante con la realtà di questi giorni di emergenza sanitaria: il governo ha stabilito che tutti i datori di lavoro non possono licenziare chi è assente per impossibilità di rientrare al lavoro a causa delle misure prese per arginare l’emergenza sanitaria; inoltre, se il datore di lavoro vuole far fronte alla riduzione dell’attività lavorativa attraverso la riduzione degli stipendi del personale o orario di lavoro può farlo solo con l’accordo di questi. Tutte cose normali in Europa ma che magari da un paese che secondo alcuni “usa gli schiavi” non ci aspetteremmo. Restano da fare invece importanti passi avanti nel settore della sicurezza sul lavoro, come d’altra parte in quasi tutta l’Asia tranne Giappone.
4. La Cina non ha rispettato le regole del WTO
VERO-FALSO
Il WTO è stato pensato e strutturato soprattutto per economie di mercato, tant’è che la normativa che proibisce i sussidi statali a determinate industrie immaginava queste situazioni come eccezioni facili da individuare e (a determinate condizioni) colpire. Quando è entrata nel WTO nel 2001 la Cina aveva una economia basata fortemente su aziende di Stato e su un sistema di sussidi, incentivi ed agevolazioni inesistenti in gran parte del mondo occidentale (con qualche eccezione, vedere Francia e Italia). I negoziatori occidentali erano ben consci di questo limite, ed è per questo che alla Cina, primo paese dalla creazione del WTO fu chiesto di accettare un lunghissimo e negoziatissimo Protocollo di Accesso che oltre agli obblighi già previsti nei vari accordi alla base del WTO le ha imposto di dotarsi anche di una serie di normative tipiche di un’economia di mercato. Tra queste anche quelle a tutela dei diritti di proprietà intellettuale e una normativa anti-trust. Va ribadito però che sul rispetto degli obblighi presi in sede di accesso da parte della Cina esistono visioni diverse anche tra i paesi sviluppati: gli USA tendono ad essere molto più critici rispetto all’Unione Europea per esempio. È una questione di prospettive: puoi guardare a dove la Cina non è ancora arrivata e sperare che un giorno diventi un’economia senza aziende di stato e dove non esistano contraffazioni di brevetti o di marchi, oppure poi tenere conto di dove è arrivata in appena 18 anni rispetto da dove è partita. È la vecchia storia del bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto, ma resta un fatto incontrovertibile: se il WTO è pensato veramente per economie di mercato con poco intervento statale, la Cina di Xi Jinping sembra andare in una direzione diversa e quindi si impone una riforma dal WTO per tenere conto di queste differenze. Allo stato attuale, distruggere il WTO come stanno cercando di fare gli USA non è la soluzione giusta perché potrebbe essere sostituito semplicemente dal nulla.
5. I cinesi sono nazionalisti
VERO
Rispetto all’Italia e, soprattutto l’Europa, c’è un forte sentimento nazionale che comprime le differenze e i contrasti all’interno del paese che pure esistono (tra Nord-Sud e città-campagna soprattutto). Questo sentimento nazionale è ovviamente sostenuto e stimolato anche dal Partito, anche se viene represso quando diventa una minaccia alla stabilità politica, ma non è inculcato artificialmente. Al contrario è in generale molto sentito tra la popolazione specie come reazione a reali o percepite discriminazioni ed ingiustizie subite dal popolo cinese nella storia passata per mano dell’Occidente; e del Giappone. Peraltro, è fortemente condiviso anche tra gli oppositori del Partito tant’è che è comune opinione tra i sinologi più informati che, in caso ci fossero (impossibili per ora) elezioni libere in Cina, vincerebbe o un partito comunista trasformato in nazionalista oppure un nuovo partito ipernazionalista. D’altra parte, Russia docet. Al contrario però del nazionalismo espansionista russo che vede nell’affermazione della potenza militare nei paesi limitrofi (fino all’occupazione manu militari) condizione essenziale per la tutela del paese, quello cinese è più difensivo. In generale, la popolazione cinese sente che può contare solo su sé stessa, che nessuno nel resto del mondo verrà in suo aiuto in caso di difficoltà e pensa che il resto del mondo non voglia accettare che la Cina sia ora un paese più sviluppato di prima. Il ruolo fondamentale avuto dalle centinaia di miliardi di investimenti stranieri nel paese, con conseguente trasferimento di tecnologia, per lo sviluppo dello stesso è passato in secondo piano anche se sta aumentando di nuovo dopo anni di stagnazione. L’ostilità con cui sono state trattate le comunità cinesi in Europa durante la crisi del Coronavirus nonché la decisione senza precedenti da parte di alcuni paesi di interrompere i collegamenti con il paese (senz’altro non adottata durante la pandemia della febbre suina che partiva dalle Americhe), sono per il cittadino cinese un’ulteriore dimostrazione di questa ostilità: nel momento del bisogno, la Cina è stata lasciata sostanzialmente sola a risolvere i propri problemi. Anzi, i cinesi vengono discriminati come etnia. Potenzialmente, quanto avvenuto nell’ultimo mese rafforzerà e non indebolirà il nazionalismo cinese. Solo una sapiente opera di ricucitura da parte delle diplomazie mondiali potrà evitare che prenda una traiettoria sbagliata.
6. La Cina è un’autocrazia tecnocratica
VERO
Se per questo intendiamo uno stato dove la vita privata può essere oggetto di intrusione da parte degli apparati di sicurezza senza avere riguardo per alcune tutele che normalmente abbiamo in Occidente, è ovvio che sia così. Nella scelta tra “allentare” il controllo sulla vita dei cittadini e rafforzarlo, negli ultimi anni il Partito ha deciso di intraprendere la seconda strada, usando ampiamente la tecnologia. È una scommessa forte ed è basata sul presupposto che il timore del cittadino per il disordine e il caos derivante da un improvviso venire meno del controllo centrale su un paese così vasto prevalga sui pesanti inconvenienti creati dal controllo sull’attività politica, su internet, anche sui movimenti: la capacità del sistema di arrivare a monitorare od ostacolare, se decide di farlo, i movimenti dei cittadini in città enormi con una densità elevata di popolazione si è vista all’opera durante la recente crisi sanitaria. Tuttavia se Singapore, pur con tutte le differenze dovute alle dimensioni, sembrava essere il modello di arrivo finale per il paese fino a 10 anni fa, non è chiaro quale sia il modello ora. Forse non esiste un modello e quindi il Partito cerca di costruirlo avendo in mente due priorità: evitare spinte centrifughe nelle periferie dell’enorme paese che possono portare ad una disgregazione (in questo ricade anche la recente nomina di un nuovo responsabile per Hong Kong noto per essere più intransigente) ed evitare che si formi qualsiasi organizzazione articolata in grado di porsi come alternativa al Partito. In una situazione del genere, ogni ipotesi di “allentamento” o di riforma non può che partire dal Partito stesso, come d’altra parte è successo in altri paesi. L’opinione pubblica però esiste e quando reagisce ai casi più eclatanti di abusi o di ingiustizia chiede delle correzioni nel sistema, magari in maniera inordinata e senza appunto che questo possa trasformarsi in un’iniziativa politica articolata. C’è da scommettere per esempio che dopo questa crisi del virus, l’opinione pubblica prema per una riforma del sistema sanitario che dedichi a questo molte più risorse rispetto a prima; staremo a vedere se il governo risponderà adeguatamente in quanto questo significherà riallocare risorse da altri capitoli di spesa che magari erano più cari alla dirigenza.
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