Cina

Taiwan, il capitalismo può battere il virus (se gli conviene)

14 Marzo 2020

Almeno per ora i piani di emergenza adottati da Taipei stanno funzionando, ma i liberali di casa nostra, a braccetto coi nostalgici di baffone, elevano i loro peana alla ‘Cina comunista’. Forse per non ammettere che i mezzi per prevenire l’attuale disastro c’erano. Ma l’Europa ha deciso di non dotarsene per ragioni economiche, le stesse che invece hanno mosso l’isola, colpita dalla SARS nel 2003, a farlo. 60 milioni di euro l’anno il budget dell’agenzia europea per la lotta ai virus.

In queste settimane abbiamo visto liberali e ultras del ‘comunismo cinese’ uniti nel tessere le lodi alla reazione messa in campo da Pechino contro l’epidemia di COVID-19. Accantonano con nonchalance sia i costi umani dell’iniziale occultamento della verità sia il sacrificio di lavoratori mandati allo sbaraglio contro il virus senza protezioni adeguate, un aspetto quest’ultimo che sembra effettivamente accomunare oriente e occidente (in Lombardia il 12% dei contagiati sono lavoratori della sanità, ANSA130320). La Cina che oggi viene glorificata perché spedisce milioni di mascherine all’Italia è lo stesso paese che ha negato quei dispositivi di protezione alla maggioranza dei lavoratori cinesi – sanitari, edili impegnati nella costruzione dei nuovi ospedali, spazzini, addetti alla consegna dei pasti negli ospedali, operai migranti costretti a vivere stipati nei dormitori (ChinaLabourBulletin040220). In pochi invece hanno fatto caso al modello Taiwan, una democrazia liberale che, dopo l’epidemia della SARS nel 2003, ha deciso di investire su un piano di emergenza sanitaria in grado di attivarsi rapidamente per bloccare la diffusione di una nuova epidemia sul nascere.

Un investimento economico e geopolitico

Taiwan è un’isola situata a circa 130 chilometri dalle coste della Cina continentale, ha una popolazione di 23 milioni di persone, di cui 850.000 risiedono nella Cina continentale e 400.000 ci lavorano. Alcune tra le più famose multinazionali taiwanesi vi hanno costruito i propri stabilimenti, tra tutte la Foxconn, nota come produttrice di componenti per la telefonia cellulare e per l’alto numero di suicidi tra i dipendenti delle sue fabbriche sul continente. Per questo un’epidemia in territorio cinese rappresenta una grave minaccia per il capitalismo taiwanese. Dentro i confini nazionali invece una delle maggiori industrie è il turismo, che produce quasi il 5% del PIL e ha visto i visitatori esteri sestuplicarsi in 20 anni, ma è altrettanto vulnerabile ai problemi interni di Pechino. Nel 2019 i turisti cinesi in vista all’isola, infatti, sono stati 2,7 milioni, circa il 25% del totale. Per questo i due paesi, nonostante le storiche tensioni geopolitiche sono collegati in modo capillare, in particolare per via aerea. E l’isola allo scoppio dell’epidemia era candidata a essere il secondo paese per contagi e vittime (in Corea del sud, ad esempio, ci sono 8.000 contagiati e 67 morti).

Nel 2003 Taiwan fu investita dalla SARS in modo relativamente leggero (circa 350 contagi e una settantina di vittime), ma dovette mettere circa 150.000 persone in quarantena e vide praticamente azzerarsi il numero dei turisti in arrivo. Per questo Taiwan da allora è in costante allerta e si è posta il problema di reagire rapidamente a eventuali epidemie provenienti dal continente, come del resto hanno fatto anche da altri paesi colpiti dalla SARS, ad esempio Singapore. Ma nel caso di Taiwan la scelta di investire in prevenzione e capacità di reazione immediata, oltre che per ragioni economiche, è presumibilmente dettata dalle esigenze propagandistiche della storica competizione con Pechino (ma anche, presumibilmente, dal timore di un attacco batteriologico). In ogni caso nel momento in cui scriviamo sull’isola ci sono una cinquantina di persone infette e una vittima, peraltro già affetta da altre patologie. E il governo, anche commettendo degli errori (come far sbarcare alcuni passeggeri della Diamond Princess, la nave da crociera in seguito messa in quarantena dal Giappone), finora non è ricorso a chiusure generalizzate dei confini, delle scuole e di interi settori economici come si sta facendo in Europa.

L’uso dei Big Data

Come abbia fatto il governo a ottenere questi risultati lo spiegano tre studiosi della Stanford University – Jason Wang, Chun Y. Ng e Robert H. Brook – in un articolo che già nel titolo indica i pilastri della strategia adottata:  Response to COVID-19 in Taiwan: Big Data Analytics, New Technology, and Proactive Testing (Journal of American Medicine Association, 3 marzo 2020). Nel 2004, l’anno successivo all’esplosione della SARS , il governo di Taiwan ha dato vita a un Centro di Coordinamento Sanitario Nazionale integrato in un sistema di gestione delle emergenze incaricato di reagire a epidemie a largo raggio e di coordinare le autorità centrali con quelle regionali e locali. Del sistema fanno parte anche il Centro di Coordinamento Epidemiologico, il Centro di Coordinamento Biologico per le Calamità Sanitarie, quello contro il bioterrorismo e il Centro Operativo per le Emergenze Sanitarie.

Grazie a questi organi, spiegano i tre autori, ‘Lo Stato ha sfruttato il database nazionale dell’assicurazione sanitaria e lo ha integrato con gli archivi dell’immigrazione e della dogana, così da creare una mole di big data da analizzare successivamente. Inoltre ha attivato un sistema di segnalazione in tempo reale inteso a favorire l’identificazione dei casi, basandosi sui viaggi effettuati dai taiwanesi e sui sintomi clinici registrati nel corso delle visite mediche a cui sono stati sottoposti. Infine ha utilizzato nuove tecnologie come la scansione tramite codici QR e le tracce digitali degli spostamenti e dei sintomi di malattia per classificare il rischio-contagio di ciascun viaggiatore in base alla provenienza del suo volo e ai suoi itinerari negli ultimi 14 giorni. Alle persone con un basso rischio di contagiosità (nessun viaggio nelle zone classificate a rischio 3) è stata inviata via SMS un’autorizzazione sanitaria a passare il confine così da accelerare le pratiche per l’ingresso nel paese. Quelli con un rischio più alto (viaggio recente nelle zone a rischio 3) sono stati messi in quarantena a casa propria e controllati attraverso la traccia del loro cellulare per assicurarsi che rimanessero a casa nel periodo di incubazione.

Taiwan ha anche potenziato il monitoraggio del contagio ricercando attivamente i pazienti affetti da gravi sintomi respiratori (ricavandoli dal database dell’assicurazione sanitaria nazionale) e risultati negativi ai test per l’influenza e li ha sottoposti al test per il COVID-19: uno su 113 è risultato positivo. Il numero verde 1922 è stato messo a disposizione dei cittadini per segnalare sintomi e casi sospetti riferiti a se stessi o ad altri. Man mano che la malattia si espandeva questa linea ha saturato la propria capacità, per cui è stato chiesto a ogni città di creare la propria. (…) Il governo poi ha affrontato il problema del pregiudizio nei confronti delle persone infette fornendo cibo, frequenti controlli medici e incoraggiamento alle persone in quarantena. Il piano di risposta rapida include centinaia di modalità di azione (vedi la tabella in inglese nell’Appendice)’.

Grazie a questo lavoro preparatorio la sanità taiwanese si è messa in condizioni in primo luogo di riconoscere i segnali di un’emergenza sanitario e in secondo luogo di gestirla. Il 31 dicembre 2019, quando all’OMS è stata notificata la comparsa a Wuhan di una forma di polmonite di origine ignota, le autorità hanno cominciato a esaminare i passeggeri dei voli provenienti da quella città, misurando loro la febbre e accertando eventuali sintomi di polmonite prima di farli scendere a terra. Il 5 gennaio la segnalazione era stata estesa a chiunque fosse andato a Wuhan nei 14 giorni precedenti e al rientro presentasse febbre o sintomi di infezione all’apparato respiratorio. I soggetti che presentavano sintomi sospetti sono stati sottoposti ad accertamenti relativi a 26 virus, tra cui SARS e MERS. I passeggeri con febbre e tosse sono stati messi in quarantena a casa e visitati per capire se era necessario ricoverarli. Il 20 gennaio, quando ancora i casi di cui si aveva notizia in Cina erano rari, il Centro di Coordinamento per le Malattie di Taiwan ha attivato ufficialmente il Centro di Coordinamento Epidemiologico affinché si preparasse ad arginare una grave forma di polmonite infettiva sotto la direzione del Centro di Coordinamento Sanitario Nazionale e del Ministero della Salute e del Welfare. Il Centro di Coordinamento Epidemiologico inoltre è stato incaricato di coordinare tra loro l’azione dei ministeri dei Trasporti, dell’Economia, del Lavoro, dell’Istruzione e l’amministrazione per la Protezione Ambientale.

Dal 20 gennaio al 24 febbraio il Centro di Coordinamento Epidemiologico ha preso 124 provvedimenti (l’elenco nell’Appendice già citata), tra cui controlli di confine aerei e marittimi, identificazione degli infetti (usando nuovi tipi di dati e nuove tecnologie), quarantena per i casi sospetti, ricerca attiva degli infetti, allocazione delle risorse (valutazione e gestione delle risorse), rassicurazione ed educazione dell’opinione pubblica e contemporaneamente lotta alla disinformazione, negoziati con altri paesi e regioni, elaborazione di misure per le scuole e gli asili, sostegno all’economia.

La strategia

Le misure riflettono un approccio fondato sull’allocazione razionale delle risorse. Da una parte si sono utilizzati l’incrocio della banche dati e la tecnologia per individuare e isolare i sospetti infetti, dall’altra si è rifornita la popolazione di dispositivi di protezione, senza introdurre misure fortemente restrittive della loro libertà individuali. In sostanza invece di adottare misure lineari si è concentrato il fuoco sui soggetti più a rischio: ‘Il 27 gennaio l’Amministrazione Nazionale dell’Assicurazione Sanitaria e l’Agenzia Nazionale per l’Immigrazione hanno incrociato i dati relativi agli spostamenti dei contagiati negli ultimi 14 giorni, ciascuno con il suo numero di assicurazione sanitaria rilasciato dalla prima, operazione portata a termine in un giorno. Il sistema di anagrafe familiare dei cittadini taiwanesi e i visti d’ingresso per gli stranieri hanno permesso al governo di tracciare gli individui ad alto rischio a causa di un recente viaggio nelle aree affette dal COVID-19. Le persone identificate come soggetti ad alto rischio (messe in quarantena domiciliare) sono state controllate elettronicamente tramite i loro cellulari. Il 30 gennaio, il database dell’Amministrazione Nazionale dell’Assicurazione Sanitaria è stato ampliato così da coprire la storia degli spostamenti negli ultimi 14 giorni dei pazienti provenienti dalla Cina, da Hong Kong e da Macao. Il 14 febbraio è stato lanciato il Sistema di Quarantena in Ingresso: i viaggiatori, prima di partire dall’aeroporto di Taiwan o di arrivarvi, possono riempire un modulo di certificazione sanitaria scansionando un codice QR, che conduce a un form su internet. Dopo la compilazione ai telefoni degli interessati viene mandata via SMS tramite un operatore telefonico locale una certificazione sanitaria valida come nulla osta, che consente a chi presenta rischi minimi di accelerare le pratiche di ingresso. Questo sistema è stato creato in 72 ore. Il 18 febbraio il governo ha annunciato che tutti gli ospedali e le farmacie di Taiwan avrebbero avuto accesso alla cronologia degli spostamenti dei pazienti’.

Nelle scuole le autorità, dopo aver prolungato di 10 giorni le ferie invernali, hanno adottato una politica di restrizioni progressive in base ai casi accertati. Ad esempio se in una classe uno o più soggetti (alunni o insegnanti) risultano positivi le lezioni in quella classe vengono sospese per 14 giorni. Se ci sono due o più casi in classi diverse della stessa scuola, quest’ultima viene chiusa per 14 giorni. Se un terzo della scuole di un territorio vengono chiuse allora anche tutte le altre si fermano. Criteri analoghi sono stati introdotti anche per le altre istituzioni.

Per quanto riguarda l’allocazione delle risorse il 20 gennaio, a tre settimane dalla primissima allerta, il Centro di Coordinamento per le Malattie ha annunciato che il governo aveva accumulato una scorta di 44 milioni di mascherine normali, 1,9 milioni di maschere N95 e 1.100 stanze di isolamento a pressione negativa. Concentriamoci sulle mascherine. Il governo ha rifornito i venditori privati di mascherine a prezzo imposto (10 dollari per 50 pezzi); ha requisito stock di mascherine da chirurgo, vietato l’esportazione e coordinato la produzione di 4 milioni di mascherine al giorno da parte di aziende locali (1,4 agli ospedali e il resto alla cittadinanza), utilizzando anche forza-lavoro militare. Nel frattempo, nell’arco di un mese, ha installato 60 nuove linee di produzione della capacità di 100.000 pezzi al giorno, portando la produzione totale a 10 milioni. Nelle farmacie e nei negozi al dettaglio è stato imposto un limite al numero di pezzi per singolo acquisto in modo da evitare l’incetta e operazioni speculative, che peraltro sono state punite con pene fino a 7 anni di reclusione e multe equivalenti a 170.000 dollari (analoga durezza per chi ha diffuso notizie false sul virus). Mezzo di milione di mascherine è stato distribuito agli asili. Le farmacie convenzionate ne hanno distribuito gratuitamente 2 a settimana agli assistiti dietro presentazione della tessera sanitaria. Per la distribuzione a farmacie e ambulatori inoltre sono stati utilizzati 3.000 dipendenti delle poste statali.

Perché Taiwan sì e l’UE no

Una democrazia liberale con un’economia di mercato, insomma, ha dimostrato che per ragioni di emergenza è possibile utilizzare le conquiste scientifiche e tecnologiche del capitalismo e persino violare la libertà d’impresa e il sacro feticcio della proprietà privata e ottenere risultati. Come abbiamo già sottolineato non lo ha fatto perché il capitalismo taiwanese è ispirato da sentimenti umanitari, né ha avuto scrupoli nel far pagare una parte dei costi ai lavoratori (ad esempio i dipendenti pubblici costretti ad assistere i figli contagiati sono stati messi in congedo non retribuito per due settimane). Ha agito così, come abbiamo premesso, per ragioni economiche e probabilmente anche geopolitiche. E tuttavia c’è da chiedersi come mai i nostri liberali non stiano elevando peana alla Cina nazionalista e invece guardino con maggiore ammirazione alla Cina popolare.

La spiegazione è che se parlassero di Taiwan dovrebbero ammettere che anche l’Italia e l’Europa avrebbero potuto adottare un approccio certo non identico (ovviamente ogni paese ha le sue peculiari caratteristiche ed esigenze) ma ispirato allo stesso metodo e soprattutto costoso per l’erario. Non essere a conoscenza ci rende tutto sommato più sopportabile se invece dei codici QR, della geolocalizzazione e degli SMS siamo costretti a girare con un’autocertificazione scritta a biro in tasca e a fabbricarci le mascherine in casa con la carta da forno e un elastico. Il capitalismo europeo, non avendo sperimentato gli effetti della SARS e per le stesse ragioni per cui Taiwan ha deciso di investire su un piano di emergenza, ha deciso che invece qui non ne valeva la pena. E così nel 2019 l’Europa ha stanziato per l’European Center for Disease Prevention and Control la bellezza di 60 milioni di euro, pari all’avanzo di bilancio del comune di Sassuolo nel 2018 (ECDC Budget 2019). Ora l’UE e i paesi membri dovranno tirare fuori decine, forse centinaia di miliardi di euro per mettere rimedio a un disastro la cui portata non è ancora chiara. E lo faranno attingendo a un fisco che ricava una quota largamente maggioritaria delle proprie risorse dal lavoro dipendente. Sarà una delle grandi questioni del dopo COVID e usare l’argomento Taiwan potrebbe essere utile.

L’articolo è una rielaborazione di un pezzo pubblicato sulle newsletter di PuntoCritico.info del 13 marzo.

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