Cina

Borse ancora giù ma il Dragone vince la prima mano della partita valutaria

18 Agosto 2015

L’iniezione di liquidità da 120 miliardi di yuan (circa 16,9 miliardi di euro) varata questa mattina dalla Banca centrale cinese per compensare la fuga dei capitali non ha fatto altro che confermare le preoccupazioni degli investitori sull’efficacia degli sforzi del Governo cinese per ridare carburante all’economia. I listini di Shanghai e Shenzhen hanno perso più del 6%, con riflessi sia sulle piazze orientali sia su quelle europee. La fuga di capitali riflette la cautela degli investitori esteri che, secondo quanto si raccoglie sui mercati, saranno disposti ad incrementare l’esposizione ai mercati azionari cinesi solo con adeguate coperture valutarie. Come fecero d’altronde l’anno scorso sul mercato giapponese.

D’altra parte, alzi la mano il Paese che dall’inizio della crisi finanziaria globale non abbia fatto ricorso a manovre opportunistiche sulla valuta. Americani, giapponesi e ora cinesi e persino il Vietnam. La guerra delle valute non è altro che l’effetto collaterale di una crisi caratterizzata da recessione prima e deflazione ora e che non ha risparmiato neanche il lungimirante Governo cinese, che pur con i suoi efficienti piani pluriennali deve fare i conti con consumi ed esportazioni in calo ed una nuova fase del processo di delocalizzazione che accorcia le distanze tra paesi produttori e paesi di sbocco. Quando addirittura non rialloca al Paese originario l’intera produzione grazie alla digitalizzazione dei processi industriali ed all’uso della robotica avanzata.

La svalutazione cinese ha provocato una reazione iniziale negativa che ha colpito anche i mercati europei ma che di fatto lascerà sul terreno feriti gravi tra i paesi emergenti. Russia, Brasile e Venezuela si son goduti la bonanza illusoria di un PIL e di una bilancia commerciale robusta e hanno preso sotto gamba anche le avvisaglie degli effetti negativi provocati dalla fase di deflussi di capitali dell’estate del 2013 che hanno sancito la riscossa del mondo dei Paesi sviluppati.

La ricerca di una  maggiore competitività e l’obiettivo di una progressiva liberalizzazione valutaria, in vista dell’accreditamento nel paniere dell’unità di conto valutario (i cosiddetti diritti speciali di prelievo) del Fondo Monetario Internazionale, sono tra le ragioni che hanno imposto alla Banca centrale cinese una modifica al regime valutario, ora più flessibile e quindi più volatile. Dopo un 5% che ha portatolo yuan a trattare a ridosso di 6,40 contro dollaro, potrebbero seguire un ulteriore e graduale deterioramento del valore della divisa, sino a 6,60 entro i prossimi 6 mesi e 6,90 probabilmente per fine 2016. L’utilizzo delle riserve valutarie, che dopo aver toccato un picco a ridosso dei 4 triliardi di dollari nell’aprile scorso, ora son scese di circa 400 miliardi, non preoccupa data l’ampiezza della loro consistenza .

L’incognita maggiore risiede comunque nelle divise legate alle commodities, dollaro australiano in testa, che continuano a soffrire per il calo del prezzo del petrolio, nonché per la contrazione del PIL cinese e per quei Paesi asiatici , e non, che son in competizione con le esportazioni cinesi come Malesia e Indonesia, queste ultime ovviamente trarranno giovamento da questa mossa. Il gravissimo incidente di Tianjin poi offrirà un’ulteriore opportunità al premier Li per proseguire nell’attuazione del piano anti-corruzione. Le banche centrali asiatiche che già stanno combattendo con una deflazione strisciante reagiranno in parte replicando la mossa cinese, come nel caso del Vietnam, ma la più grande scommessa per loro sta nella ripresa dei consumi cinesi da cui dipendono le importazioni da questi paesi.

I primi segnali di ripresa dallo stallo deflazionistico che ha colpito anche la Cina dovrebbero arrivare  dal mercato immobiliare dopo un anno di sgonfiamento della bolla creatasi con anni di trend rialzista a due cifre, ma la gradualità che da qui in avanti caratterizzerà il processo di svalutazione in corso dipende anche dal fatto che le maggiori imprese cinesi, che son oltre 200, si indebitano per lo più in dollari quindi c’è un effetto differenziale dei flussi/interessi tra attività (in valuta locale) e passività (in dollari).Quindi le rassicurazioni di una battuta d’arresto sulla svalutazione da parte della Banca centrale cinese è chiaramente transitoria, come dimostra l’ulteriore correzione dello Shangai Index.

Riavvolgendo un po’ il nastro degli ultimi eventi e riguardandolo con il senno di poi, vediamo così che al rifiuto asiatico del TTP made in Usa, l’accordo commerciale di liberalizzazione degli scambi e investimenti rispetto a cui la svalutazione cinese è stato un mezzo avvertimento, è stato seguito (guarda la coincidenza) dall’attacco dei broker esteri ai mercati azionari cinesi. A questo il Governo cinese  ha risposto con misure restrittive sulla negoziazione dei titoli nel comparto più fragile e sensibile delle PMI. Questo si è andato ad aggiungere ai pacchetti di stimolo economico e monetario arricchiti ora dalla svalutazione della divisa, in modo da non perdere terreno nella battaglia al Re Dollaro. Così in questa prima battaglia-lampo valutaria, che è il vero terreno dove si gioca la guerra fra i mercati internazionali, la Cina ha vinto la prima mano, alla faccia della Federal Reserve.

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