Asia
Se l’American dream diventa il South Korean nightmare
We’re half-awake in a fake empire
We’re half-awake in a fake empire
The National
Pensavo di essere in Asia, mi sono ritrovata invece in uno sconfinato Mid-West americano: la scorsa settimana sono stata in Corea del Sud.
Venticinque milioni di persone che non-vivono in una non-città, Seoul, un non-luogo simile al duty free di un aeroporto: business come unica ragione di esistere, lavorare, produrre, consumare. Morire.
Non ho visitato la Corea del Nord, mi sono limitata a vederla -terra del nord uguale a terra del sud- dal confine, all’interno dei 2 km di zona demilitarizzata (DMZ) gestita dall’ONU. Una situazione assurda e paradossale se immaginata dall’alto: dotati di binocolo, guardavamo oltre un confine invalicabile da cui altrettanti curiosi dotati di binocolo guardavano noi. La somma di questi sguardi è la Corea unita come 67 anni fa.
Ho visitato tanti borders, checkpoint, muri e fili spintati nel corso dei miei viaggi, ma solo in Corea del Sud ho visto confini sporchi di sangue diventare business: qua e là monumenti alla riunificazione senza significato, perché di fatto nessuno la vuole, parole come peace and freedom usate come brand per vendere gadget all’apposito shop -cappellini in cui la bandiera americana è unita a quella sudcoreana, calamite della Corea in cui, al Sud, ci sono aeroplani, grattacieli, persino cani (ma non li mangiavano?) -in sintesi il progresso-, mentre al Nord ci sono ancora le tigri e i samurai a cavallo -in sintesi il regresso.
Mai avevo visto un popolo, diviso dal 1948, dimenticare se stesso in sole due generazioni. Tutto è scomparso, tutto è dimenticato: i sudcoreani non riconoscono i nordcoreani né come fratelli né come nemici. Niente importa. Quando ho chiesto di una possibile riunificazione delle Coree mi sono sentita rispondere “perché no se poi diventiamo ricchi come è accaduto alla Germania, purché non si debbano pagare troppe tasse per colpa di quelli lassù” (il parere più critico) o, ancora peggio (il parere più diffuso), “mi è indifferente”. Immaginate risposte simili in Bosnia oppure a Gerusalemme?
La dimenticanza. Non riesco a comprendere cosa sia accaduto in meno di settant’anni per spingere un popolo a dimenticarsi chi è, e soprattutto chi è stato.
Le due Coree sono divise non dall’estremismo etnico (vedi i Balcani), non dall’estremismo religioso (vedi il Medio-Oriente), ma dall’estremismo ideologico, comunista e capitalista. Per essere sintetica, è come se il comunismo russo-cinese e il capitalismo nippo-americano avessero scelto di creare ciascuno un figlio in provetta, geneticamente selezionato per rendere estreme e mostruosamente perfette le peculiarità di ognuna delle due ideologie: l’utero che ha dato alla vita i due incubi è il North Korea e il South Korea.
Non saprei nemmeno dire di che colore sia il cielo o che profumo abbia l’aria in Corea del Sud: i grattacieli di decine di piani lasciano arrivare a terra solo sghembi quadratini di luce, le finestre non prevedono la possibilità di essere aperte, l’aria che si respira è solo condizionata, all’aperto molti girano con la mascherina per non respirare il particolato di una delle città più inquinate del mondo.
Seoul, con il quartiere Gangnam celebrato dal cantante-eroe-mito popolare PSY, è più che altro Samsung e Hyundai style: centinaia di migliaia di dipendenti e neppure un sindacato. Un giorno lavorativo medio è di 12 ore, con (ben) 5 giorni di ferie pagate l’anno.
Tutto è privatizzato, dall’istruzione alla sanità: senza un’assicurazione non si accede praticamente a nulla -e nemmeno dispiace per chi non può pagare, fallito, rifiuto, spreco.
Se i livelli d’istruzione sono eccellenti, i metodi di insegnamento sono forse discutibili: eccetto (ben) due settimane di vacanza l’anno, i ragazzi studiano fino alle 22 di sera, per poi ricorrere a lezioni private la notte. Un esercito di studenti tutti in competizione tra loro per superare i test di ammissione alle università che li trasformeranno in manager di una città di venticinque milioni di manager tutti in competizione tra loro.
Gli ospedali accolgono principi, emiri e sultani di tutta l’Asia per la loro straordinaria efficienza, il tassista elogia la chirurgia plastica locale consigliandomi un intervento al seno -ma cure gratis per nessuno nell’ospedale Hyundai.
Il wifi è potentissimo, gratuito e libero ovunque ma, con un proxy server nazionale che controlla ogni accesso, i contenuti sgraditi al governo sono vietati (come la pornografia e l’erotismo in genere, punito con il carcere duro, così come le droghe leggere).
Nessuna memoria, dicevo. Dopo due giorni trascorsi in una specie di Boston infinita senza stagione, perso l’interesse per l’unica attività possibile a Seoul –comprare comprare comprare-, chiedo di poter visitare un monumento storico, qualunque cosa, persino un sasso o un bonsai, che mi ricordi che sono in Estremo Oriente. Leggo di un certo palazzo reale, chissà di quale re, e chiedo al tassista di portarmici: “Is it a business center? Maybe a hotel?” mi risponde lui, che non ne ha mai sentito parlare. Mi chiede di indicargli strada e, dopo aver molto vagato, mi porta di fronte ad una pagoda, bellissima e senza senso, soffocata da una giungla di grattacieli intorno.
Anche di religione devono aver sentito parlare poco se la riposta alla mia curiosità è un sincero “What is religion?”. Mi mostrano però, gongolanti di orgoglio e costringendomi ad annuire convinta sennò ci restano male, autostrade a dieci corsie e treni velocissimi verso chissà dove, perché comunque tutto è Seoul.
Ma business non fa rima con happiness, in Corea del Sud: i pochi cui ho chiesto qualcosa riguardo la felicità, il tempo libero, la famiglia, insomma il senso della vita, mi hanno risposto “I don’t know, it’s not my business”. I manager in pensione dopo una vita di lavoro o si trovano un altro lavoro -“I had been used to work all day for all my life, what can I do now?”- o si danno all’alcool -il consumo di soju, un liquore fortissimo locale, ha reso alcolisti almeno la metà dei pensionati.
Sul Financial Times leggo che la Corea del Sud detiene il record mondiale di suicidi, ben trentatré al giorno. Le multinazionali organizzano finti funerali -i dipendenti vanno, vivi, alle loro stesse esequie con tanto di foto, bara, testamento e crisantemi- per ricordare loro che la vita è bella.
Ho chiesto in giro a quelle donne e quegli uomini che ho spesso visto in piedi ai bordi delle strade intenti a fissare il pavimento: “sì, vorrei morire, non ce la faccio più”, mi ha risposto un vecchio, gelandomi il sangue. “Vorrei trasferirmi in Cile, in Argentina, dove c’è tanta natura oppure qui vicino, in Nepal, non importa del terremoto”, mi hanno detto in tanti.
A ciascuno il suo sogno: la Corea del Sud, lo Stato con il più alto numero di suicidi e il più alto indice di ricchezza dell’Asia, vorrebbe trasferirsi in Nepal, il Paese con il più basso indice di sviluppo economico, ma con il più alto tasso di felicità.
L’aeroporto di Seoul, Incheon, è un non-luogo che finisce per sembrarmi più vero della città reale. Una finta pagoda espone finto artigianato locale, una finta processione di figuranti vestiti da samurai mi ricordano che sono in Oriente -finalmente! (Non ho mai mangiato coreano in sette giorni, ma messicano, brasiliano, francese, ho bevuto vino californiano, caffè italiano). Il mio volo parte dal Terminal 3, una cortese addetta si scusa affranta poiché ci sono meno negozi rispetto al mega shopping center dotato di navetta (interna!) del Terminal 1. That’s enough, le rispondo. Credo abbia capito cosa intendessi, perché per la prima volta ho visto un sorriso gratuito, vivo, empatico.
That’s so enough. Il business, il sogno americano distorto all’ennesima potenza ha il suo prezzo: la memoria persa, l’identità umiliata come qualcosa da nascondere, come se ci fosse da vergognarsi di essere stati, in un tempo bandito da ogni libro, poveri.
Nel caso della Corea del Sud identità e memoria sono state nascoste sotto lo zerbino sulla soglia per entrare nel progresso, e da lì spazzate via, polvere. E il South Korean Dream è diventato, ai miei occhi, un incubo.
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